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    Wilbur Smith.

    SULLA ROTTA DEGLI SQUALI.

    Traduzione di Lidia Perria.

    Copyright 1975 Wilbur Smith.

    Titolo originale dell'opera: "The Eye of the Tiger".

    Copyright 1981 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano.

    Prima edizione Biblioteca dell'avventura maggio 1981.

    Prima edizione I Miti agosto 1995.

    Su concessione Arnoldo Mondadori Editore.

    "Tigre! Tigre! Ardente bagliore

    nelle foreste della notte...

    In quali abissi o cieli lontani

    arse il fuoco dei tuoi occhi?"

    William Blake.

    Era una di quelle stagioni in cui il pesce arriva tardi.  Tenevo barca

    ed  equipaggio  sotto pressione,  spingendomi ogni giorno sempre più a

    nord e rientrando in porto ogni volta a tarda sera,  ma era già il sei

    novembre  quando  catturammo  il  primo  di  quei  grossi bestioni che

    discendono le acque rossastre della corrente del Mozambico.

    A quel punto ero ridotto alla disperazione.  Avevo a bordo  un  agente

    pubblicitario  di  New  York  di nome Chuck McGeorge,  uno dei clienti

    fissi che compivano il pellegrinaggio  annuale  di  novemilasettecento

    chilometri  fino all'isola di Saint Mary per la pesca del marlin.  Era

    un ometto basso e segaligno,  calvo come un uovo di  struzzo,  con  le

    tempie brizzolate e un muso da scimmia scuro e avvizzito,  ma aveva le

    gambe robuste, necessarie per issare i grossi pesci.

    Quando finalmente lo avvistammo,  il marlin  filava  alto  nell'acqua,

    mostrando  in tutta la sua estensione la pinna dorsale,  più lunga del

    braccio di un uomo e con la curva a scimitarra che lo distingue  dallo

    squalo  o dalla focena.  Angelo lo individuò nello stesso istante e si

    sporse sullo straglio di prua, gridando eccitato, i riccioli da gitano

    spioventi sulle guance scure e i denti scintillanti al  sole  luminoso

    dei Tropici.

    Il  pesce  s'inarcò  e  roteò  su  se  stesso fendendo l'acqua,  nero,

    massiccio e imponente come il tronco di un albero secolare,  la  curva

    aggraziata della pinna dorsale ripresa dalla coda,  prima d'immergersi

    nel cavo dell'onda successiva, mentre l'acqua si richiudeva sull'ampio

    dorso lucente.

    Io mi volsi accigliato a guardare in giù,  verso il  ponte  di  poppa.

    Chubby  era  già  impegnato  a  installare  Chuck sul grosso sedile da

    pesca, facendo scattare la pesante cintura di sicurezza e aiutandolo a

    infilare i guanti, ma alzò gli occhi e incrociò il mio sguardo.

    Aggrottò torvo le sopracciglia e  sputò  oltre  la  murata,  in  netto

    contrasto  con  l'eccitazione  che aveva preso tutti noi.  Chubby è un

    uomo imponente,  alto quanto me ma molto più massiccio.  E' anche  uno

    dei più incrollabili pessimisti del mestiere.

    «E'  un  pesce  diffidente!» grugnì Chubby,  e sputò di nuovo.  Io gli

    rivolsi un bel sorriso.

    «Non si preoccupi,  Chuck» gridai «il vecchio Harry  le  servirà  quel

    pesce su un piatto d'argento.»

    «Scommetto  mille  bigliettoni  che  non  ce la farà» gridò di rimando

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    Chuck, il viso contratto per difendersi dal riverbero del sole, ma gli

    occhi brillanti di eccitazione.

    «Ci sto!» Accettai una scommessa che non potevo permettermi e  rivolsi

    la mia attenzione al pesce.

    Chubby aveva ragione, naturalmente. Dopo di me, è il miglior pescatore

    di marlin del mondo intero.  Il pesce era grosso, diffidente e timido.

    Cinque volte gli lanciai le esche,  dando fondo a tutte le mie riserve

    di  abilità  e  astuzia  per  lavorarmelo.  Ogni  volta si allontanò e

    s'immerse proprio mentre io portavo il  "Wave  Dancer"  su  una  rotta

    convergente per incrociare il suo muso.

    «Chubby,  nella  ghiacciaia  c'è  un'esca di delfino fresco: ritira le

    lenze, lo attireremo con un'esca singola» gridai disperato.

    Preparai il delfino.  Avevo sistemato l'esca con le mie mani e nuotava

    nell'acqua  con un bel movimento naturale.  Riconobbi l'istante in cui

    il marlin abboccò.  Ingobbì il dorso massiccio e intravidi in un lampo

    il ventre, come uno specchio sotto la superficie, mentre si voltava.

    «Abbocca» gridò Angelo. «Abbocca!»

    Cedetti  il  pesce a Chuck poco dopo le dieci del mattino,  e restai a

    distanza ravvicinata.  Qualunque manovra superflua avrebbe imposto uno

    sforzo  supplementare  all'uomo  impegnato alla canna.  Il mio compito

    richiedeva un'abilità infinitamente superiore a quella necessaria  per

    digrignare i denti e aggrapparsi alla pesante canna di fibra di vetro.

    Mantenni  il  "Wave  Dancer"  sulla  scia  del marlin durante le prime

    cariche furiose e i fulminei balzi frenetici,  finché Chuck  non  poté

    sistemarsi  sul  sedile  da  pesca  e  dedicarsi  interamente al pesce

    sfruttando le sue gambe robuste, fatte per la lotta.

    Pochi minuti dopo mezzogiorno  Chuck  aveva  sconfitto  il  pesce.  Il

    marlin  era  affiorato  in superficie e descriveva il primo degli ampi

    circoli che Chuck avrebbe ristretto a ogni tornata fino  ad  attirarlo

    alla portata della fiocina.

    «Ehi,   Harry!»   esclamò   d'un   tratto  Angelo,   turbando  la  mia

    concentrazione. «Abbiamo un visitatore!»

    «Che c'è, Angelo?»

    «Un grosso squalo controcorrente.» Puntò il dito.  «Il pesce sanguina,

    lui l'ha fiutato.»

    Guardai,  e  vidi  arrivare  lo  squalo.  La pinna smussata sempre più

    vicina,  attratto dalla lotta e dall'odore di sangue.  Era  un  grosso

    pesce martello, e io lanciai un richiamo ad Angelo.

    «Sul ponte, Angelo» e gli passai il timone.

    «Harry,  lasci  che  quel  bastardo mi azzanni il pesce e lei può dire

    addio ai suoi mille dollari» grugnì Chuck dal sedile da pesca, immerso

    in un bagno di sudore, e io mi tuffai nella cabina principale.

    Atterrando  sulle  ginocchia  spostai  i  cavigliotti   che   tenevano

    abbassato il portello del motore e lo aprii.  Disteso sulla pancia, mi

    protesi sotto coperta e afferrai il calcio della carabina  FN  sospesa

    ai ganci speciali nascosti fra le tubature interne.  Uscendo sul ponte

    controllai che il fucile fosse carico e spinsi il selettore sul  fuoco

    automatico.

    «Angelo, accosta su quel vecchio squalo.»

    Sporgendomi  oltre il parapetto a prua del "Wave Dancer",  guardai giù

    verso lo squalo, mentre Angelo puntava su di lui. Era proprio un pesce

    martello, grosso,  più di tre metri e mezzo dal muso alla coda,  color

    bronzo ramato nell'acqua limpida.

    Mirai  con  cura  fra  i  mostruosi  prolungamenti  degli  occhi,  che

    appiattivano e deformavano la testa dello squalo,  e sparai una  corta

    raffica.

    L'FN  ruggì,  i bossoli vuoti vennero espulsi dall'arma e in un attimo

    l'acqua s'increspò di spruzzi secchi.

    Lo squalo sussultò convulsamente mentre le pallottole gli  penetravano

    nella  testa,   frantumando  l'osso  cartilaginoso  e  spappolando  il

    minuscolo cervello. Si rovesciò su un fianco e cominciò ad affondare.

    «Grazie, Harry» ansimò Chuck, sudato e congestionato.

    «Fa parte del servizio» replicai con  un  largo  sorriso,  e  andai  a

    rilevare Angelo al timone.

    All'una  meno  dieci Chuck portò il marlin alla distanza giusta per la

    fiocina,  fiaccandolo finché il grosso pesce non  affiorò  di  fianco,

    battendo  piano  la  coda  a falce,  il lungo muso boccheggiante in un

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    movimento spasmodico.  L'unico occhio vitreo era grosso come una  mela

    matura  e il lungo corpo pulsava e scintillava,  variegato da migliaia

    di sfumature cangianti d'argento, oro e porpora.

    «Ora fa' un lavoro pulito,  Chubby» gridai,  posando la mano  guantata

    sulla  tirella d'acciaio e tirando pian piano il pesce fin dove Chubby

    era in attesa, brandendo già il gancio d'acciaio della fiocina.

    Chubby m'incenerì con un'occhiata,  ricordandomi che lui già fiocinava

    i  marlin  quando  io  ero ancora un sudicio monello dei bassifondi di

    Londra.

    «Aspetta la cresta dell'onda» gli  raccomandai  di  nuovo,  tanto  per

    stuzzicarlo un po', e il labbro di Chubby si arricciò a quel consiglio

    non richiesto.

    L'onda  fece rotolare il pesce verso di noi,  scoprendo il petto ampio

    che brillava argenteo fra le ali spiegate delle pinne pettorali.

    «Ora!» esclamai,  e Chubby spinse a  fondo  l'acciaio.  Sprizzando  un

    fiotto  di  sangue  arterioso  rosso  acceso,  il  pesce  entrò  nelle

    convulsioni dell'agonia,  inondandoci tutti con più di duecento  litri

    d'acqua di mare.

    Appesi  il  pesce  al  gancio di una gru,  sul molo dell'Ammiragliato.

    Benjamin,  il capitano del porto,  firmò il certificato  per  un  peso

    totale  di trecentonovantaquattro chili e seicento grammi.  Anche se i

    vividi colori erano svaniti con la morte,  trasformandosi in un piatto

    nero  fuligginoso,   era  pur  sempre  imponente...  quattro  metri  e

    quarantuno centimetri dalla punta del  muso  all'estremità  dell'ampia

    coda ricurva.

    «Il  signor  Harry ha appeso un bestione all'Ammiragliato.» La voce fu

    portata per le strade dai ragazzini che scorrazzavano a piedi nudi,  e

    gli  isolani  furono  felici  di  cogliere  al  volo  l'occasione  per

    interrompere il lavoro e affollarsi festosi sul molo.

    La notizia arrivò fino al vecchio palazzo del Governo sulla  scogliera

    e  la  Land  Rover  presidenziale  scese a tutto gas giù per la strada

    tortuosa, con la bandierina che sventolava allegra sul cofano. Si aprì

    la strada tra la folla  e  depositò  sul  molo  il  grand'uomo.  Prima

    dell'indipendenza,  Godfrey Biddle era stato l'unico avvocato di Saint

    Mary, nato sull'isola ed educato a Londra.

    «Signor Harry,  che magnifico esemplare» esclamò in estasi.  Un  pesce

    del  genere  avrebbe  dato impulso alla nascente attività turistica di

    Saint Mary e lui venne a stringermi la mano. Rispetto al livello medio

    dei presidenti di questa parte del mondo, era il primo della classe.

    «Grazie,  signor presidente.» Con tutto il feltro nero  in  testa,  mi

    arrivava appena all'ascella.  Era una sinfonia in nero,  abito di lana

    nera e scarpe di vernice,  la pelle del colore dell'antracite lucida e

    un  solo  ciuffo  di  capelli,  di  un bianco incredibile,  che gli si

    arricciavano alle orecchie.

    «Bisogna proprio  farle  le  congratulazioni.»  Il  presidente  Biddle

    saltellava  eccitato,  e  io capii che anche per questa stagione avrei

    cenato al palazzo del  Governo  nelle  serate  di  ricevimento.  C'era

    voluto  un  anno o due,  ma alla fine il presidente mi aveva accettato

    come se fossi nativo dell'isola. Ero uno dei suoi ragazzi, con tutti i

    privilegi speciali che questa posizione comportava.

    Arrivò  anche  Fred  Coker  sul   suo   carro   funebre,   ma   armato

    dell'attrezzatura  fotografica,  e  mentre  sistemava  il  treppiede e

    spariva  sotto  il  panno  nero  per  mettere  a  fuoco  la   macchina

    fotografica antidiluviana, ci piazzammo per lui accanto alla colossale

    carcassa.  Chuck  in  mezzo  con  la  canna,  e  tutti noi raggruppati

    intorno, la braccia incrociate come una squadra di calcio. Angelo e io

    sorridevamo,  e Chubby fissava l'obiettivo con un cipiglio  terribile.

    La  fotografia  avrebbe  fatto  un bell'effetto nel mio nuovo dépliant

    pubblicitario... equipaggio leale e capitano intrepido, con i riccioli

    che spuntavano dal berretto e  i  peli  dall'apertura  della  camicia,

    tutto  muscoli  e  sorrisi...  li  avrebbe  attirati a frotte,  per la

    prossima stagione.

    Diedi disposizioni  perché  il  pesce  fosse  conservato  nella  cella

    frigorifera,  giù  al  deposito di esportazione degli ananas.  L'avrei

    consegnato alla Rowland  Wards  di  Londra  per  farlo  imbarcare  col

    prossimo  carico di merci refrigerate.  Poi lasciai ad Angelo e Chubby

    l'incarico di tirare a lucido i ponti del "Dancer",  fare rifornimento

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    al bacino della Shell e portarlo all'ormeggio.

    Mentre  Chuck  e  io  ci  arrampicavamo  nella  cabina del mio vecchio

    furgoncino  Ford  tutto  ammaccato,   Chubby  ci  affiancò   come   un

    informatore alle corse, parlando a fior di labbra con aria misteriosa.

    «Harry,  a  proposito  del  premio  straordinario...» Sapevo bene cosa

    stava per chiedermi, la scena si ripeteva ogni volta.

    «La signora Chubby non deve saperlo, vero?» finii per lui.

    «Proprio così» ammise con aria lugubre, spingendo indietro sulla testa

    il berretto sudicio.

    Misi Chuck a bordo dell'aereo alle nove del  mattino  seguente  e  per

    tutta la strada di ritorno cantai,  suonando il clacson del furgoncino

    alle ragazze dell'isola che lavoravano nelle  piantagioni  di  ananas.

    Loro  si  raddrizzavano  con ampi sorrisi smaglianti sotto la tesa dei

    larghi cappelli di paglia e agitavano la mano.

    All'agenzia  di  viaggi   Coker   cambiai   i   travellers'   cheques,

    mercanteggiando  sul  tasso  di  cambio  con Fred Coker.  Era in pompa

    magna, marsina e cravatta nera. A mezzogiorno aveva un funerale. Messi

    da parte macchina fotografica e treppiede, da fotografo si trasformava

    in impresario di pompe funebri.

    L'impresa di Coker si trovava nel retro dell'agenzia di viaggi, e Fred

    usava il carro funebre per andare a prendere i turisti  all'aeroporto,

    premurandosi di cambiare prima il cartello pubblicitario sul veicolo e

    d'inserire i sedili sulla rotaia destinata alle bare.

    Io  mi  servivo  di  lui per ottenere tutte le prenotaclienti e lui si

    ritagliava dai miei travellers' cheques una fetta del dieci per cento.

    Gestiva anche l'agenzia di assicurazioni e dedusse il premio annuo per

    il "Dancer" prima di completare con cura il conto.  Io ricontrollai  i

    conti con altrettanta cura perché,  sebbene Fred abbia l'aspetto di un

    maestro di scuola,  alto,  sottile e compassato,  con  quel  tanto  di

    sangue   isolano  sufficiente  a  garantirgli  una  sana  abbronzatura

    integrale,  conosce tutti i trucchi del manuale e anche  qualcuno  che

    non è ancora stato messo per iscritto.

    Lui  attese  con pazienza mentre contavo,  senza offendersi,  e quando

    ficcai il rotolo di banconote nella tasca posteriore, il suo pince-nez

    d'oro  scintillò  mentre  mi  raccomandava  con  un  tono   da   padre

    affezionato:  «Non  si  scordi  che c'è un gruppo di clienti in arrivo

    domani, signor Harry».

    «Va bene, signor Cocker, non si preoccupi,  la mia ciurma sarà in gran

    forma.»

    «Sono  già  al  Lord  Nelson»  mi  avvertì  con tatto.  Fred controlla

    saldamente il polso dell'isola.

    «Signor Coker, io comando un battello da noleggio,  non una società di

    temperanza. Non si preoccupi» ripetei, alzandomi. «Nessuno è mai morto

    per i postumi di una sbornia.»

    Attraversai Drake Street diretto all'emporio di Edward, dove ricevetti

    un'accoglienza da eroe. "Ma" Eddy in persona uscì da dietro il banco e

    mi strinse in un abbraccio sul suo petto caldo e sodo.

    «Signor  Harry» tubò,  schioccandomi un bacio «sono andata giù al molo

    per vedere il pesce che lei ha appeso ieri.» Poi si girò,  continuando

    a tenermi stretto,  e gridò a una delle sue commesse: «Shirley, adesso

    porti al signor Harry una bella birra gelata, capito?».

    Io tirai fuori  il  malloppo.  Le  graziose  piccole  ragazze  isolane

    pigolarono come passeri quando lo videro e "Ma" Eddy roteò gli occhi e

    mi strinse più forte.

    «Quanto  le  devo,  signora  Eddy?» Da giugno a novembre c'è una lunga

    stagione morta in cui i pesci non risalgono la corrente e "Ma" Eddy mi

    aiuta a superare quei tempi magri.

    Mi appoggiai al bancone,  scegliendo dagli scaffali le  merci  che  mi

    servivano  e sbirciando le gambe delle ragazze mentre si arrampicavano

    sulle scalette per tirarle giù...  il vecchio Harry si  sentiva  vispo

    come  un  fringuello,  con  quel  grosso rotolo di verdoni nella tasca

    posteriore.

    Quindi scesi al bacino della Shell,  e il direttore mi venne  incontro

    sulla  porta  del  suo  ufficio,  tra  i  grandi  serbatoi argentei di

    carburante.

    «Santo cielo,  Harry,  è tutta la mattina  che  la  aspetto.  La  sede

    centrale fa il diavolo a quattro per il suo conto.»

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    «L'attesa  è finita,  fratello» gli assicurai.  Ma la mia barca,  come

    quasi tutte le belle donne, è un'amante costosa,  e quando risalii sul

    furgoncino il rotolo nella mia tasca aveva subito un fiero salasso.

    Alla  birreria  all'aperto  del Lord Nelson mi aspettavano.  L'isola è

    molto fiera dei suoi rapporti con la Royal Navy,  per quanto  non  sia

    più  un possedimento britannico,  ma vanti un'indipendenza che data da

    sei anni;  tuttavia nei due secoli  precedenti  era  stato  uno  scalo

    regolare  della  flotta  inglese.  Vecchie  stampe di artisti morti da

    tempo decoravano il bar,  ritraendo  le  grandi  navi  che  risalivano

    bordeggiando il canale o si cullavano nel porto grande,  lungo il molo

    dell'Ammiragliato: guerrieri e mercanti della Compagnia delle Indie vi

    avevano fatto rifornimento di viveri e si erano rimessi in forze prima

    della lunga corsa a sud del Capo di Buona Speranza, verso l'Atlantico.

    Saint Mary non ha mai dimenticato il suo posto nella  storia,  né  gli

    ammiragli e le navi possenti che vi erano approdati.  Il Lord Nelson è

    una parodia dell'antica grandezza,  ma  la  sua  eleganza  decaduta  e

    logora  e  i  suoi  legami  col passato mi attirano più della torre di

    vetro e acciaio che Hilton ha eretto sul promontorio che  sovrasta  il

    porto.

    Chubby  e sua moglie sedevano fianco a fianco sulla panchetta lungo la

    parete di fondo, tutti e due con gli abiti della domenica.  Era questo

    il  modo  più facile per distinguerli: il fatto che Chubby portasse il

    vestito col gilet che si era  fatto  cucire  per  il  matrimonio,  coi

    bottoni  tesi  sulla  giacca,  che  sbadigliava e in testa il berretto

    macchiato di cristalli di sale e sangue di pesce,  mentre  sua  moglie

    indossava un abito nero di lana pesante, reso verdastro dall'età, e ai

    piedi  stivaletti  abbottonati.  Per il resto i loro visi color mogano

    scuro erano quasi identici, per quanto Chubby fosse rasato di fresco e

    lei avesse un accenno di baffi.

    «Salve, signora Chubby, come va?» le chiesi.

    «Bene, grazie, signor Harry.»

    «Allora, desidera prendere qualcosa?»

    «Magari un po' di gin all'arancia,  signor Harry,  con  un  goccio  di

    birra amara per mandarlo giù.»

    Mentre  lei sorseggiava il liquore dolce,  io contai nelle sue mani il

    salario  di  Chubby  e  le  sue  labbra  si  mossero  mentre   contava

    silenziosamente all'unisono. Chubby osservava con ansia e io mi chiesi

    per  l'ennesima  volta  come  avesse  fatto  in  tutti  quegli  anni a

    ingannarla sulla gratifica straordinaria.

    «Allora me ne vado,  signor Harry.» La signora Chubby si alzò con aria

    maestosa  e  veleggiò  fuori  del cortile.  Io attesi che svoltasse in

    Frobisher Street prima di  allungare  sotto  il  tavolo  a  Chubby  il

    piccolo  fascio  di  banconote,  e  poi  entrammo  insieme  nella sala

    interna.

    Angelo aveva due ragazze ai lati e una in grembo.  La sua camida  nera

    di seta era aperta fino alla fibbia della cintura, scoprendo i muscoli

    lucenti del torace. I pantaloni di tela gli aderivano come una seconda

    pelle,  non  lasciando  alcun  dubbio sul suo sesso,  e gli stivaletti

    erano da cow-boy,  lavorati a mano  e  lucidati  a  specchio.  Si  era

    passato  la  brillantina  sui capelli lisciandoli all'indietro,  nello

    stile del giovane Presley.  Fece lampeggiare il suo sorriso attraverso

    la sala come un riflettore e quando lo pagai ficcò una banconota nella

    scollatura a ogni ragazza.

    «Su, Eleanor, va' a sederti sulle ginocchia di Harry, ma sta' attenta,

    mi raccomando.  Harry è vergine...  trattalo bene, capito?» Scoppiò in

    una risatina deliziata e si rivolse a Chubby.

    «Ehi, Chubby, piantala di sghignazzare così tutto il tempo, amico!  E'

    stupido  star  sempre  a ridere come uno scemo.» Il cipiglio di Chubby

    s'incupì,  tutto il suo viso si raggrinzì in  una  rete  di  pieghe  e

    rughe,  come  il  muso di un bulldog.  «Ehi,  signor barista,  ora dai

    qualcosa da bere al vecchio Chubby. Forse lui la smetterà di prenderci

    in giro, ridacchiando a quel modo.»

    Alle quattro di quel pomeriggio Angelo aveva liquidato le ragazze e se

    ne stava seduto col bicchiere di fronte a sé sul ripiano  del  tavolo.

    Vicino c'era il suo coltello per le esche, affilato come la lama di un

    rasoio  e scintillante in modo sinistro sotto le luci.  Lui borbottava

    cupo fra sé,  sprofondato nella  malinconia  dell'alcool.  Ogni  tanto

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    saggiava  col  pollice  il  filo  del coltello e squadrava la sala con

    sguardo fiero. Nessuno gli faceva caso.

    Chubby sedeva dall'altra parte e sorrideva come un grosso rospo bruno,

    mettendo in mostra una fila di enormi denti bianchissimi dalle gengive

    di plastica rosa.

    «Harry» mi diceva con aria espansiva,  il  braccio  muscoloso  passato

    intorno  al  mio  collo.  «Sei un gran bravo ragazzo,  Harry.  Lo sai,

    Harry,  ora ti dirò una cosa che non ti ho mai detto prima.» Annuì con

    aria  saggia  preparandosi  alla  dichiarazione  che mi faceva tutti i

    giorni di paga. «Harry, ti voglio bene, amico.  Ti voglio bene più che

    a mio fratello.»

    Io  sollevai  il berretto macchiato e accarezzai leggermente la cupola

    bruna e calva della sua testa.  «E tu sei la  mia  bionda  al  platino

    preferita» gli dissi.

    Lui mi tenne per un attimo a distanza di un braccio,  studiando il mio

    viso,  poi scoppiò  a  ridere  con  un  ruggito.  La  sua  risata  era

    terribilmente  contagiosa  e ridevamo ancora tutti e due,  quando Fred

    Coker entrò e si sedette al nostro tavolo.  Si aggiustò il pince-nez e

    disse  con  aria  sostenuta:  «Signor  Harry,  ho  appena  ricevuto un

    espresso da Londra. Il suo cliente ha disdetto la prenotazione». Smisi

    di ridere.

    «Che diavolo!» esclamai.  Due settimane senza  lavoro  nel  bel  mezzo

    dell'alta  stagione  e  solo  duecento pidocchiosi dollari di caparra.

    «Signor Coker,  deve trovarmi dei clienti.» Mi erano rimasti in  tasca

    appena  tremila  dollari  del  noleggio  di Chuck.  «Deve trovarmi dei

    clienti» ripetei, e Angelo prese il coltello e con uno scatto conficcò

    a fondo la punta nel ripiano del tavolo.  Nessuno gli badò,  e lui  si

    guardò intorno con aria corrucciata.

    «Ci proverò» disse Fred Coker. «Ma ormai è un po' tardi.»

    «Telegrafi ai clienti che abbiamo dovuto respingere.»

    «Chi pagherà i telegrammi?» chiese Fred.

    «All'inferno, pagherò io.» E lui annuì, uscendo. Fuori sentii il carro

    funebre mettersi in moto.

    «Non  preoccuparti,  Harry»  disse  Chubby.  «Ti  voglio  sempre bene,

    amico.»

    A un tratto Angelo si addormentò.  Cadde in avanti e batté  la  fronte

    sul tavolo con uno schianto che risuonò nel locale. Gli girai la testa

    in  modo che non affogasse nella pozza di liquore versato,  gli rimisi

    il coltello nel fodero e presi in consegna il suo rotolo di  banconote

    per proteggerlo dalle ragazze che si aggiravano nei dintorni.

    Chubby  ordinò  un  altro giro,  e cominciò a biascicare una cantilena

    senza capo né coda nel gergo dell'isola, mentre io restavo lì seduto a

    preoccuparmi.

    Ancora una volta mi trovavo sull'orlo del disastro finanziario. Dio sa

    quanto odio il denaro...  o piuttosto  la  sua  mancanza.  Quelle  due

    settimane  potevano decidere se il "Dancer" e io saremmo sopravvissuti

    alla stagione morta tenendo fede ai nostri buoni propositi. Sapevo che

    non sarebbe stato possibile.  Sapevo che  saremmo  tornati  ai  viaggi

    notturni.

    Al  diavolo,  se  dovevamo  farlo,  tanto  valeva farlo adesso.  Avrei

    passato  parola  che  Harry  era  pronto  a  trattare.   Presa  quella

    decisione,  sentii  di  nuovo  quel  piacevole tendersi dei nervi,  la

    sensazione istintiva che si accompagna al pericolo.  Le due  settimane

    di prenotazione annullata non sarebbero andate sprecate, dopo tutto.

    Mi  unii a Chubby nel canto,  non troppo sicuro che si trattasse della

    stessa melodia,  perché mi ritrovavo alla fine di ogni  ritornello  in

    anticipo su Chubby.

    Probabilmente  fu questo numero musicale a richiamare la legge A Saint

    Mary questa assume la forma di un ispettore e quattro agenti, il che è

    più che sufficiente per l'isola.  A parte un buon numero di  "rapporti

    carnali  con minorenni" e qualche caso di percosse alle mogli,  non si

    verificano crimini degni di questo nome.

    L'ispettore Peter Daly era  un  giovanotto  con  i  baffi  biondi,  il

    colorito  inglese  sulle guance lisce e occhi celesti ravvicinati come

    quelli di un topo di fogna. Portava l'uniforme della polizia coloniale

    inglese, il berretto col distintivo d'argento e la visiera di vernice,

    la divisa di tela kaki inamidata e stirata al punto  da  scricchiolare

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    leggermente  quando  camminava,  il  cinturone  di cuoio lucido con le

    bandoliere incrociate.  Impugnava un frustino  da  ufficiale,  coperto

    anche  quello  di cuoio lucido.  A parte le spalline gialle e verdi di

    Saint Mary, pareva incarnare l'orgoglio dell'Impero,  ma come l'Impero

    anche gli uomini che indossavano l'uniforme erano decaduti.

    «Fletcher»  esordì torreggiando sul nostro tavolo e facendo schioccare

    piano il frustino sul palmo della mano.  «Spero  di  non  avere  noie,

    stasera.»

    «Signor Fletcher» gli suggerii.  L'ispettore Daly e io non eravamo mai

    stati amici...  non mi piacciono i prepotenti e i tipi che  trovandosi

    in  posti di fiducia arrotondano un salario perfettamente adeguato con

    bustarelle e tangenti.  In passato mi aveva alleggerito di  una  buona

    parte  dei  miei  sudati  guadagni,  macchiandosi  così  di un peccato

    imperdonabile.

    La bocca gli s'indurì sotto i baffi biondi e il suo colorito si accese

    subito. «Signor Fletcher» ripeté di malagrazia.

    Ora,  è vero che una volta o due,  in un lontano passato,  Chubby e io

    avevamo  dato  sfogo  a  un  eccesso di esuberanza giovanile dopo aver

    portato a riva un grosso pesce;  ciò  nonostante  questo  non  offriva

    all'ispettore Daly nessuna scusa per parlare in quel tono.  Dopo tutto

    era un  semplice  immigrato  trattenuto  sull'isola  da  un  contratto

    triennale...  che  come sapevo dal presidente in persona,  non sarebbe

    stato rinnovato.

    «Ispettore,  sono nel giusto se ritengo che questo è un luogo pubblico

    e che né i miei amici né io stiamo commettendo un'infrazione?»

    «E' così.»

    «Sono  nel  giusto  anche  pensando  che  cantare  canzoni melodiose e

    decenti in luogo pubblico non costituisce reato?»

    «Be', questo è vero, ma...»

    «Ispettore,  se ne vada»  gli  dissi  in  tono  cordiale.  Lui  esitò,

    guardando  Chubby e me.  Fra tutt'e due facevamo una bella montagna di

    muscoli e lui dovette scorgere il sacrilego lampo bellicoso nei nostri

    occhi. Si capiva che avrebbe voluto avere con sé i suoi agenti.

    «Vi terrò d'occhio» assicurò, e stringendosi addosso i resti della sua

    dignità come un mendicante i suoi cenci, si allontanò.

    «Chubby, canti come un angelo» gli dissi, e lui mi guardò raggiante.

    «Harry,  voglio pagarti da bere.» E Fred Coker  arrivò  in  tempo  per

    essere incluso nel giro. Bevve birra chiara con succo di cedro, il che

    mi  dava  un po' la nausea,  ma le notizie che portava costituirono un

    antidoto efficace.

    «Harry, le ho trovato dei clienti.»

    «Signor Coker, la adoro.»

    «Anch'io le voglio bene» affermò Chubby,  ma  in  fondo  in  fondo  io

    sentii  una  punta  di  delusione.  Avevo  pregustato  un'altra  corsa

    notturna.

    «Quando arrivano?» chiesi.

    «Sono già qui... mi aspettavano in ufficio quando sono rientrato.»

    «Non faccia scherzi.»

    «Sapevano che il suo  primo  noleggio  era  stato  annullato  e  hanno

    chiesto  proprio  di  lei.  Devono  essere arrivati sullo stesso aereo

    dell'espresso.»

    In quel momento i miei  riflessi  dovevano  essere  un  po'  appannati

    dall'alcool,  altrimenti  avrei  riflettuto  un  istante  sulla felice

    combinazione per cui un cliente si era ritirato e gli  era  subentrato

    un altro.

    «Alloggiano all'Hilton.»

    «Vogliono che li vada a prendere?»

    «No,  la  incontreranno  al molo dell'Ammiragliato domani mattina alle

    dieci in punto.»

    Mi rallegrai che i clienti avessero fissato  l'ora  di  partenza  così

    tardi.  Quella mattina l'equipaggio del Dancer era composto di zombie.

    Angelo gemeva e assumeva un color cioccolato chiaro ogni volta che  si

    chinava per addugliare un cavo o sistemare le canne, e Chubby per poco

    non trasudava alcool e aveva un'espressione sinceramente terrificante.

    Non aveva detto una parola in tutta la mattina.

    Neanch'io mi sentivo molto allegro.  Il "Dancer" era accostato al molo

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    e io stavo appoggiato al parapetto del ponte di comando,  sugli  occhi

    il  paio di Polaroid più scuro che avevo e anche se il cuoio capelluto

    mi prudeva non osavo togliermi il berretto,  per paura che la  sommità

    del cranio potesse partire insieme con quello.

    L'unico taxi dell'isola, una Citroën del '62, scese lungo Drake Street

    e si fermò in cima al molo per scaricare i miei clienti. Erano in due,

    e io me ne aspettavo tre, Coker aveva detto senz'altro tre.

    Percorsero  il  lungo molo pavimentato di pietra,  camminando fianco a

    fianco,  e io mi raddrizzai lentamente,  osservandoli.  Sentii il  mio

    malessere  dileguarsi  nel  regno dell'irrilevante cedendo di nuovo il

    passo   alla   percezione   istintiva   del   pericolo,   quel   lento

    aggrovigliarsi  e tendersi delle viscere,  e il lieve formicolio lungo

    le braccia e alla nuca.

    Uno era alto e camminava con l'andatura agile  e  sciolta  dell'atleta

    professionista.  Era  senza  cappello  e  i  suoi  capelli erano rosso

    chiaro,  pettinati con cura su una testa prematuramente  calva,  tanto

    che  s'intravedeva  il  cuoio capelluto roseo.  Tuttavia era snello di

    vita e di fianchi ed  era  all'erta.  Era  l'unico  termine  adatto  a

    descrivere il senso di prontezza che emanava da lui.

    Bisogna essere simili per riconoscersi.  Questo era un uomo allenato a

    vivere in mezzo alla violenza. Era il braccio, un "soldato", in gergo.

    Non importava  da  quale  lato  della  barricata  esercitasse  i  suoi

    talenti...  se  a  difesa  della  legge o a suo detrimento...  portava

    pessime notizie.  Avevo sperato di non vedere  mai  questo  genere  di

    barracuda incrociare nelle placide acque di Saint Mary.  Sapere che mi

    avevano ritrovato mi procurò un lieve attacco di nausea.  Lanciai  una

    rapida occhiata all'altro uomo; in lui non era tanto evidente, il filo

    della  lama  era  un po' smussato,  il profilo sfocato dal tempo e dal

    grasso superfluo, ma anche lui portava cattive notizie.

    "Che bella prospettiva, Harry" dissi a me stesso con amarezza.  "Tutto

    questo, e per giunta un'emicrania coi fiocchi."

    Ora  mi  rendevo conto chiaramente che l'uomo più anziano era il capo.

    Camminava avanti di mezzo passo,  un tangibile segno  di  rispetto  da

    parte  dell'uomo  più  alto  e  più  giovane.  Era di qualche anno più

    vecchio anche di me; probabilmente si avviava verso i quaranta.  Sopra

    la cintura di coccodrillo aveva un accenno di pancia e rotoli di carne

    lungo la linea della mascella, ma i capelli erano tagliati nello stile

    di  Bond  Street e indossava una camicia di seta e mocassini di Gucci.

    Mentre percorreva il molo si tamponò il mento e  il  labbro  superiore

    con  un  fazzoletto bianco e io valutai sui due carati il diamante che

    portava al mignolo.  Era incastonato in un  semplice  anello  d'oro  e

    l'orologio da polso era d'oro anche quello,  probabilmente un Lanvin o

    un Piaget.

    «Fletcher?» chiese,  fermandosi sotto di me sul molo.  Aveva gli occhi

    neri, piccoli e sporgenti, come quelli di un furetto. Occhi da rapace,

    che brillavano senza calore. Vidi che era più vecchio di quanto avessi

    creduto,  perché  i  capelli  erano certamente tinti per nascondere il

    grigio.  La pelle delle guance era tesa in modo innaturale e scorsi le

    cicatrici della plastica all'attaccatura dei capelli.  Si era fatto un

    lifting al viso, quindi era un uomo che teneva molto alla sua persona.

    Poteva essere un'informazione utile.

    Era un vecchio soldato,  salito dai ranghi a una posizione di comando.

    Lui  era  la  mente  e l'uomo che lo seguiva era il braccio.  Qualcuno

    aveva mandato quaggiù una squadra  al  completo,  e  in  un  lampo  di

    intuizione  capii perché i miei clienti originari avessero disdetto la

    prenotazione.

    Una telefonata seguita dalla visita di  quella  coppia  avrebbe  fatto

    passare  per  sempre  al  cittadino  medio la voglia di dedicarsi alla

    pesca del marlin.

    Probabilmente  si  erano  fatti  male  nella  fretta  di  disdire   la

    prenotazione.

    «Materson? Salga pure a bordo.» Una cosa era certa, non erano venuti a

    pescare,  e  decisi  di  defilarmi  con  prudenza  finché  non  avessi

    calcolato i rischi, così aggiunsi in ritardo un: «... signore».

    Il tipo muscoloso saltò sul ponte,  atterrando con la leggerezza di un

    gatto,  e  dal  modo  in  cui la giacca ripiegata sul braccio ondeggiò

    capii che nella tasca c'era qualcosa di pesante.  Lui squadrò  il  mio

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    equipaggio, spingendo in fuori le mascelle e passandolo rapidamente in

    rassegna.

    Angelo  sfoggiò  una  versione annacquata del suo celebre sorriso e si

    toccò la tesa del berretto.  «Benvenuto,  signore.» E il  cipiglio  di

    Chubby  si  rischiarò per un attimo mentre lui borbottava qualcosa che

    pareva un'imprecazione, ma doveva essere un saluto caloroso. L'uomo li

    ignorò e si voltò per aiutare Materson a scendere sul ponte,  dove lui

    rimase in attesa mentre la sua guardia del corpo ispezionava la cabina

    principale del "Dancer". Quindi entrò e io lo seguii.

    La nostra sistemazione è lussuosa,  a centoventicinquemila bigliettoni

    non potrebbe non esserlo.  Il condizionatore d'aria aveva attenuato la

    morsa dell'afa mattutina; Materson sospirò di sollievo e si asciugò di

    nuovo col fazzoletto, sprofondando in uno dei sedili imbottiti.

    «Questo  è  Mike Guthrie.» Indicò il tipo muscoloso che si muoveva per

    la cabina, controllando gli oblò,  aprendo sportelli,  per farla breve

    interpretando con zelo eccessivo la sua parte di duro.

    «Piacere,  signor  Guthrie.»  Io  gli  sorrisi sfoderando tutto il mio

    fascino giovanile e lui agitò la mano con disinvoltura  senza  nemmeno

    guardarmi.

    «Qualcosa  da  bere?» chiesi,  aprendo l'armadietto dei liquori.  Loro

    presero una Coca-Cola a testa,  ma io  avevo  bisogno  di  un  rimedio

    contro  lo  choc  e  i postumi della sbornia.  Il primo sorso di birra

    fredda dalla lattina mi fece rivivere.

    «Be', signori,  penso di potervi offrire dello svago.  Proprio ieri ho

    catturato  un  magnifico  pesce  e tutti gli indizi sono per una buona

    stagione.»

    Mike Guthrie si fermò davanti a me e mi fissò diritto in faccia. Aveva

    gli occhi screziati di marrone e verde chiaro, come un tweed tessuto a

    mano.

    «Non ci conosciamo?» chiese.

    «Non credo di aver mai avuto il piacere.»

    «Lei è di Londra, vero?» Aveva riconosciuto l'accento.

    «Ho lasciato Blighty parecchio tempo fa,  amico» risposi con un  largo

    sorriso.  Lui  si  lasciò  cadere  sul sedile di fronte a me,  le mani

    posate sul tavolo fra noi,  allargando le dita col  palmo  rivolto  in

    giù.  Continuava  a  fissarmi.  Un  tipetto  piuttosto  duro,  davvero

    coriaceo, l'amico.

    «Temo che per oggi  sia  troppo  tardi»  seguitai  a  blaterare  senza

    scoraggiarmi.  «Se  vogliamo  pescare nel canale di Mozambico dobbiamo

    uscire dal porto verso  le  sei.  Comunque,  domani  possiamo  partire

    presto...»

    Materson interruppe la mia tiritera.  «Dia uno sguardo a quella lista,

    Fletcher,  e ci faccia sapere che cosa le manca.» Mi  tese  un  foglio

    ripiegato  di  carta  formato protocollo e io abbassai gli occhi sulle

    righe  scritte  a  mano.  Era  tutta  attrezzatura  per  immersioni  e

    apparecchiature da recupero.

    «Allora  i  signori  non  sono  interessati  alla  pesca d'altura?» Il

    vecchio Harry mostrava sorpresa e stupore di fronte  a  un'eventualità

    tanto improbabile.

    «Siamo venuti a fare una piccola esplorazione... questo è tutto.»

    Mi strinsi nelle spalle. «Voi pagate, noi facciamo quello che volete.»

    «Ha tutta quella roba?»

    «Quasi  tutta.»  Nella  stagione morta gestisco una piccola impresa di

    attrezzature subacquee di seconda mano che mi aiuta a pagare le spese.

    Avevo un assortimento completo di  mute  e  nella  sala  macchine  del

    "Dancer" c'era un compressore d'aria per ricaricare le bombole.

    «Non ho i galleggianti né tutte quelle funi...»

    «Può procurarsele?»

    «Sicuro.»  "Ma"  Eddy  aveva  un  ottimo  assortimento di attrezzature

    marinare e il padre di Angelo  era  un  fabbricante  di  vele.  Poteva

    confezionare i galleggianti in un paio d'ore.

    «Bene, allora lo faccia.»

    Annuii. «Quando volete cominciare?»

    «Domani mattina. Ci sarà un'altra persona con noi.»

    «Il signor Coker vi ha detto che sono cinquecento dollari al giorno...

    e che dovrò mettervi in conto questa attrezzatura extra?»

    Materson inclinò la testa e fece il gesto di alzarsi.

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    «Si  potrebbero vedere un po' di quattrini in anticipo?» chiesi piano,

    e loro rimasero di ghiaccio. Io sorrisi con aria accattivante.

    «E' stato un inverno duro e lungo,  signor  Materson,  devo  comperare

    questa roba e riempire di carburante i serbatoi.»

    Materson  tirò  fuori  il  portafoglio  e  contò  trecento sterline in

    biglietti da cinque.  Nel frattempo disse con la  sua  voce  dolce  da

    gatto che fa le fusa: «Non ci serve l'equipaggio, Fletcher. Noi tre la

    aiuteremo a governare la barca».

    Fui  preso  in contropiede.  Questo non me l'ero aspettato.  «Dovranno

    ricevere il salario completo, se li lascio a terra.  Non posso ridurre

    la tariffa.»

    Mike  Guthrie  era  ancora  seduto  di faccia a me,  e ora si chinò in

    avanti.  «Ha sentito,  Fletcher?  Sbarchi i  suoi  negri  senza  tante

    storie» disse piano.

    Ripiegai  con  cura  il fascio di banconote da cinque,  che chiusi nel

    taschino, poi lo guardai.  Fu molto pronto,  lo vidi tendersi e per la

    prima  volta in quegli occhi screziati affiorò un'espressione.  Era di

    attesa.  Sapeva di aver  colpito  nel  segno  e  pensava  che  volessi

    metterlo alla prova. Lo desiderava. Non vedeva l'ora di farmi a pezzi.

    Lasciò le mani sul tavolo,  palme in giù,  dita allargate.  Pensai che

    avrei potuto afferrare il mignolo di ciascuna e spezzarlo alla seconda

    falange come un paio di crackers al formaggio. Sapevo che avrei potuto

    farlo prima che avesse la possibilità di muoversi e saperlo mi dava un

    gran piacere,  perché ero furioso.  Non ho molti amici,  ma apprezzo i

    pochi che ho.

    «Mi  ha  sentito?»  sibilò  Guthrie,  e  io riesumai il mio sorriso da

    ragazzo ingenuo e lo inalberai a mezz'asta, con un effetto ridicolo.

    «Sissignore,  signor  Guthrie»  dissi.   «E'  lei  che  paga...   come

    desidera.»

    Per  poco  quelle parole non mi restarono di traverso in gola.  Lui si

    rilassò sul sedile e vidi che era deluso.  Era un  soldato  e  il  suo

    lavoro gli piaceva. Credo di aver capito allora che lo avrei ammazzato

    e  da quel pensiero ricavai abbastanza soddisfazione da permettermi di

    mantenere inalterato il sorriso.

    Materson ci osservava con i suoi occhietti vivaci.  Il  suo  interesse

    era distaccato e clinico,  come quello di uno scienziato che studia un

    paio di cavie.  Vide che per ora il confronto si era risolto e la  sua

    voce ridivenne dolce e ronzante.

    «Benissimo,   Fletcher.»   Attraversò   il   ponte.   «Metta   insieme

    quell'attrezzatura e si prepari a salpare alle otto di domattina.»

    Li lasciai andare e mi sedetti a finire la birra.  Forse erano solo  i

    postumi  della sbornia,  ma cominciavo ad avere sinistri presentimenti

    su quell'affare e mi accorsi che dopo tutto forse era meglio  lasciare

    a terra Chubby e Angelo. Uscii ad avvertirli.

    «Abbiamo un paio di tipi strani,  mi spiace ma hanno un grosso segreto

    e non vi vogliono fra i piedi.» Collegai le bombole al compressore per

    farle riempire e lasciammo il "Dancer" al molo,  mentre io  facevo  un

    salto  da "Ma" Eddy,  e loro portavano il mio schizzo dei galleggianti

    alla bottega del padre di Angelo.

    I galleggianti furono pronti per le quattro,  io li caricai sulla Ford

    e  li riposi nell'armadietto delle vele sotto i sedili del quadrato di

    poppa.  Poi passai  un'ora  a  smontare  e  rimontare  le  valvole  di

    alimentazione    delle    bombole    e    a   controllare   il   resto

    dell'attrezzatura.

    Al tramonto riportai da solo il  "Dancer"  all'ormeggio  e  stavo  per

    tornare  a  riva col canotto quando mi venne un'idea luminosa.  Tornai

    nella cabina e aprii il portello della sala macchine.

    Presi dal nascondiglio la carabina FN,  inserii  una  cartuccia  nella

    culatta,  la  predisposi  per  il  fuoco automatico e feci scattare la

    sicura prima di riappenderla ai ganci.

    Prima di sera presi la mia vecchia rete da lancio e guadai  la  laguna

    fino  alla  barriera.  Vidi  mulinelli  e  guizzi  sotto la superficie

    dell'acqua,  che il sole al tramonto aveva brunito  fino  a  un  color

    rame,  e  mandai  la  rete a roteare in alto con un'oscillazione delle

    spalle e delle braccia.  Si gonfiò come un paracadute e ricadde in  un

    ampio  circolo  sul branco di cefali striati.  Quando tirai il cavo di

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    trazione e chiusi la rete su di  loro,  c'erano  cinque  grossi  pesci

    argentei,  lunghi come il mio avambraccio,  che guizzavano e pulsavano

    fra le ruvide pieghe umide.

    Ne arrostii due sulla griglia e li mangiai  sulla  veranda  della  mia

    capanna.  Erano  più  saporiti di una trota di montagna e dopo cena mi

    versai un altro whisky restando seduto al buio.

    Di solito questa è l'ora del giorno in cui l'isola m'infonde  un  gran

    senso di pace e mi pare di capire quale sia il significato della vita.

    Ma  quella  sera non fu così.  Mi faceva rabbia che quella gente fosse

    arrivata sull'isola portando con sé il suo particolare tipo di  veleno

    per  contaminarci.  Cinque  anni  prima  ero  fuggito da tutto questo,

    credendo di aver trovato un rifugio sicuro.  Eppure,  a  voler  essere

    onesto   con   me   stesso,   sotto   la   collera  riconoscevo  anche

    l'eccitazione,  un'eccitazione piacevole.  Di nuovo quella  sensazione

    istintiva, la percezione di essere ancora una volta nella mischia. Non

    sapevo  ancora  con  certezza quale fosse la posta,  ma capivo che era

    alta e che ero rientrato nel gioco forte.

    Adesso, ero di nuovo sul sentiero dell'illegalità. Lo stesso che avevo

    scelto a diciassette anni,  quando  avevo  deciso  deliberatamente  di

    rifiutare  la  borsa  di  studio  per  l'università  che  mi era stata

    assegnata.  Me l'ero data a gambe dall'orfanotrofio di Saint  Stephen,

    nella  zona  nord  di  Londra,  e  avevo  mentito  sulla  mia  età per

    imbarcarmi su una baleniera  diretta  verso  l'Antartico.  Laggiù,  ai

    confini  del  mondo  di  ghiaccio,  avevo  perso  gli  ultimi  residui

    d'interesse per  la  vita  accademica.  Quando  il  denaro  che  avevo

    guadagnato nel sud si era esaurito, mi ero arruolato in un battaglione

    dei  servizi  speciali  dove  avevo appreso che la violenza e la morte

    improvvisa  si  possono  praticare  come  un'arte.   Avevo  esercitato

    quell'arte  in  Malacca  e  nel  Vietnam  e  più tardi nel Congo e nel

    Biafra... finché, a un tratto, un giorno, in un remoto villaggio della

    giungla,  mentre le capanne di paglia bruciavano  levando  colonne  di

    fumo catramoso in un cielo vuoto,  d'ottone, e le mosche ronzavano sui

    morti in sciami bluastri,  mi ero sentito sopraffare dalla nausea fino

    in fondo all'anima. Volevo uscirne.

    Nell'Atlantico  del  Sud avevo imparato ad amare l'oceano e ora volevo

    un posto sulla riva del mare,  con una barca e un po'  di  pace  nelle

    lunghe sere.

    Prima  di  tutto  mi  serviva  il denaro per comperare tutto questo...

    molto denaro...  tanto che l'unico modo per procurarmelo era mettere a

    frutto la mia arte.

    Ancora  un'ultima  volta,  avevo  pensato,  e  l'avevo  progettata con

    estrema cura.  Avevo bisogno di un assistente e avevo scelto  un  uomo

    che  avevo  conosciuto  nel  Congo.  In due avevamo trafugato tutta la

    collezione di monete d'oro del  British  Museum  of  Numismatology  di

    Belgrave  Square.   Tremila  rare  monete  d'oro  che  entravano  alla

    perfezione in una borsa portadocumenti di medie dimensioni, monete dei

    Cesari romani e degli imperatori  di  Bisanzio,  degli  antichi  Stati

    d'America  e dei re inglesi...  fiorini e "leopardi" di Edoardo Terzo,

    "nobili" degli Enrico e "angeli" di Edoardo Quarto,  triple sovrane  e

    monete dell'unione di Giacomo Primo,  "corone della rosa" del regno di

    Enrico Ottavo e pezzi da cinque ghinee di Giorgio Terzo e della regina

    Vittoria...  tremila monete che anche a svenderle valevano non meno di

    due milioni di dollari.

    Era  stato  allora che avevo commesso il mio primo errore da criminale

    professionista. Mi ero fidato di un altro criminale. Incontrandomi con

    il mio assistente in un albergo arabo di Beirut  avevo  sostenuto  con

    lui  una  discussione  piuttosto  vivace  e quando alla fine gli avevo

    chiesto che cosa  avesse  fatto  della  borsa  di  monete,  lui  aveva

    estratto  da sotto il materasso una Beretta .38.  Nella colluttazione,

    si era spezzato l'osso del collo.  Era  stato  un  errore.  Non  avevo

    intenzione di ucciderlo...  ma,  d'altra parte,  desideravo ancor meno

    che mi uccidesse lui.  Avevo  appeso  sulla  porta  il  cartello  "Non

    disturbare"  ed ero saltato sul primo aereo in partenza.  Dieci giorni

    dopo, la polizia aveva trovato la valigetta con le monete nel deposito

    dei bagagli della stazione di  Paddington.  La  notizia  era  comparsa

    sulla prima pagina di tutti i giornali nazionali.

    Avevo  tentato  di  nuovo  il  colpo  a  un'esposizione di diamanti ad

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    Amsterdam, ma le mie ricerche sul sistema di allarme elettronico erano

    risultate insufficienti ed ero incappato in una cellula  fotoelettrica

    imprevista.  Le  guardie  di  sicurezza  in  borghese ingaggiate dagli

    organizzatori della mostra si erano lanciate a testa  bassa  contro  i

    poliziotti  in  divisa che entravano dall'ingresso principale e ne era

    seguito uno scontro  a  fuoco  spettacolare,  mentre  Harry  Fletcher,

    completamente  disarmato,  se la svignava nella notte accompagnato dal

    suono di grida e spari.

    Ero già arrivato a metà strada dall'aeroporto di  Schipol  quando  era

    stato  proclamato  il  cessate  il  fuoco  fra  le opposte forze della

    legge... ma non prima che un sergente della polizia olandese ricevesse

    una grave ferita al torace.

    Ero rimasto seduto  a  mangiarmi  le  unghie  per  l'ansia  e  a  bere

    innumerevoli   birre   nella   mia  stanza  all'Holiday  Inn,   presso

    l'aeroporto di Zurigo, seguendo al televisore la lotta per la vita del

    valoroso sergente.  Detestavo l'idea di avere sulla coscienza un'altra

    vittima  e  avevo  fatto voto solenne che se il poliziotto fosse morto

    avrei messo per sempre una croce sul mio  posto  al  sole.  Invece  il

    sergente  olandese  se  l'era cavata benissimo,  e io avevo provato un

    enorme senso di orgoglio quando finalmente era stato dichiarato  fuori

    pericolo.  E quando era stato promosso vice ispettore e aveva ottenuto

    una gratifica straordinaria di cinquemila corone,  mi ero persuaso che

    io ero il suo genio benefico e l'uomo mi doveva eterna gratitudine.

    Con  tutto ciò,  ero ancora scosso dai due insuccessi e mi ero trovato

    un posto di istruttore per sei mesi  alla  Outward  Bound  School  per

    riflettere sul mio futuro. Alla fine dei sei mesi mi ero deciso a fare

    un altro tentativo.

    Stavolta  avevo svolto il lavoro preliminare con cura meticolosa.  Ero

    emigrato in Sud Africa,  dove con le  mie  referenze  ero  riuscito  a

    ottenere  un  posto di agente nella ditta di sorveglianza responsabile

    delle spedizioni dei lingotti dalla  South  African  Reserve  Bank  di

    Pretoria  alle  destinazioni oltremare.  Avevo lavorato per un anno al

    trasporto di  verghe  d'oro  che  valevano  centinaia  di  milioni  di

    dollari, e avevo studiato il sistema fin nei minimi dettagli. Il punto

    debole,  avevo scoperto,  era a Roma... ma ancora una volta mi serviva

    aiuto.

    Stavolta mi ero rivolto a dei professionisti,  ma avevo fissato il mio

    prezzo  a  un  livello  tale  che  diventava  più  facile  pagarmi che

    sopprimermi e avevo preso almeno un centinaio di precauzioni contro un

    tradimento.

    Era filata liscia come avevo previsto e  stavolta  non  c'erano  state

    vittime. Non avevamo fatto altro che dirottare un carico e sostituirvi

    delle casse piombate. Poi avevamo trasferito due tonnellate e mezzo di

    verghe d'oro oltre il confine svizzero dentro un camion da traslochi.

    A Basilea,  seduto nello studio privato di un banchiere,  arredato con

    pezzi d'antiquariato di valore inestimabile con  una  splendida  vista

    sull'ampio  corso  impetuoso del Reno,  dove gli austeri cigni bianchi

    incedevano maestosi,  avevo ricevuto la mia parte del  bottino.  Manny

    Resnick aveva firmato l'ordine di trasferimento sul mio conto numerato

    di centocinquantamila sterline e aveva riso,  con la sua risata grassa

    e avida.

    «Ci ricascherai,  Harry...  ormai hai assaggiato il sangue e tornerai.

    Fatti una bella vacanza, poi torna da me quando avrai messo a punto un

    altro colpo del genere.»

    Aveva  torto,  non  mi  ero  più  fatto vivo.  Ero andato a Zurigo con

    un'auto presa a nolo e di lì ero partito in  volo  per  Parigi.  Nella

    toilette  di  Orly  mi ero sbarazzato della barba e avevo ritirato dal

    deposito la borsa che  conteneva  il  passaporto  intestato  a  Harold

    Delville  Fletcher.  Poi  mi ero imbarcato su un volo della Pan Am per

    Sydney, in Australia.

    Il "Wave Dancer" mi era costato centoventicinquemila sterline e con la

    coperta stipata di barili di carburante l'avevo condotto fino a  Saint

    Mary,  con  un  viaggio  di  duemila miglia in cui avevamo imparato ad

    amarci.

    A Saint Mary avevo acquistato dieci ettari di pace e  avevo  costruito

    con  le  mie  stesse mani un bungalow...  quattro stanze,  un tetto di

    paglia e un'ampia  veranda,  circondato  dalle  palme  sulla  spiaggia

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    bianca.  A  parte  le  occasioni in cui ero stato costretto a fare del

    contrabbando, da allora mi ero mantenuto sulla retta via.

    Quando i ricordi si esaurirono era ormai tardi e la marea saliva sulla

    spiaggia al chiaro di luna, ma poi dormii il sonno del giusto.

    La mattina dopo furono puntuali.  Charly Materson  guidava  un  gruppo

    efficiente.  Il  taxi  li depositò in cima al molo mentre io tenevo il

    "Dancer" parallelo alla banchina,  con i due motori che  gorgogliavano

    dolcemente.

    Li  osservai venire,  concentrandomi sul terzo membro del gruppo.  Non

    era quello che mi aspettavo.  Era alto e snello,  con  un  largo  viso

    cordiale  e  morbidi capelli scuri.  A differenza degli altri aveva il

    viso e  le  braccia  abbronzati  e  i  denti  grandi  e  bianchissimi.

    Indossava  calzoncini  di  tela  jeans e una maglietta bianca sopra le

    ampie spalle slanciate e  le  braccia  possenti  da  nuotatore.  Capii

    all'istante chi avrebbe usato l'attrezzatura da immersione.

    Portava a tracolla una grossa sacca sportiva di tela verde. La portava

    senza  sforzo,  anche  se mi accorsi che era pesante,  e chiacchierava

    allegramente con i due compagni,  che gli rispondevano a  monosillabi.

    Lo affiancavano come un paio di guardie del corpo.

    Quando  arrivarono alla mia altezza alzò gli occhi su di me e vidi che

    era giovane e impaziente. In lui c'era un'eccitazione,  un'aspettativa

    che mi fecero pensare a me stesso dieci anni prima.

    «Salve» esclamò sorridendo, un largo sorriso facile e amichevole, e io

    mi accorsi che era un giovanotto straordinariamente attraente.

    «Salve» ribattei,  trovandolo subito simpatico,  incuriosito dalla sua

    presenza nel branco di lupi.  Sotto la  mia  direzione  salparono  gli

    ormeggi e da questo breve esercizio appresi che il ragazzo era l'unico

    di loro che avesse familiarità con le barche di piccolo cabotaggio.

    Appena  lasciammo  il  porto,  lui  e  Materson  salirono sul ponte di

    comando.  Materson si era  lievemente  colorito  e  aveva  il  respiro

    irregolare per il leggero esercizio fisico. Presentò il nuovo venuto.

    «Questo è Jimmy» mi disse appena ebbe ripreso fiato.  Ci stringemmo la

    mano e calcolai che non aveva superato di molto i vent'anni. A vederlo

    da vicino non ebbi motivo di correggere la mia  impressione  iniziale.

    Aveva  uno  sguardo  franco  e leale,  occhi grigio-mare e una stretta

    salda e asciutta.

    «E' un gioiello di barca, comandante» mi disse,  il che era più o meno

    come dire a una madre che il suo bambino è magnifico.

    «Non se la cava troppo male.»

    «Quanto è lunga... sui tredici metri?»

    «Tredici metri e settanta» risposi, apprezzandolo ancora di più.

    «Jimmy  le  darà le direttive» mi disse Materson.  «Lei seguirà i suoi

    ordini.»

    «Bene» ribattei, e Jimmy arrossì un po' sotto l'abbronzatura.

    «Niente ordini, signor Fletcher, le dirò solo dove vogliamo andare.»

    «Bene, Jim, io vi ci porterò.»

    «Appena saremo al largo dell'isola, punti a ovest.»

    «Fin dove intendete arrivare, in quella direzione?» chiesi.

    «Vogliamo  incrociare  lungo  la  costa   del   continente   africano»

    intervenne Materson.

    «Magnifico» esclamai.  «Grandioso.  Nessuno vi ha detto che laggiù non

    mettono fuori lo zerbino per dare il benvenuto agli estranei?»

    «Ce ne resteremo al largo.»

    Riflettei  un  istante,   esitando,   tentato  di  tornare   al   molo

    dell'Ammiragliato e sbarcare tutta la compagnia.

    «Dove volete andare... a nord o a sud della foce del fiume?»

    «A nord» rispose Jimmy, e questo modificò la proposta in meglio. A sud

    del  fiume  pattugliavano  le  coste con gli elicotteri ed erano molto

    permalosi in  fatto  di  acque  territoriali.  Non  mi  ci  sarei  mai

    avventurato alla luce del giorno.

    A  nord  c'era  una  scarsa  attività  costiera.   Esisteva  una  sola

    motovedetta,  a Zinballa,  ma  quando  i  motori  erano  in  grado  di

    funzionare,  il  che  si  verificava  per pochi giorni alla settimana,

    l'equipaggio era per lo più fuori combattimento a  causa  del  potente

    liquore di palma distillato lungo la costa. Quando equipaggio e motori

    funzionavano  all'unisono,  potevano  raggiungere  al massimo quindici

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    nodi,  mentre il "Dancer" poteva arrivare a venticinque ogni volta che

    glielo chiedevo.

    Il  mio  asso  nella  manica  era che avrei potuto guidare il "Dancer"

    attraverso il labirinto di barriere coralline e di isole in una  notte

    senza luna e nel pieno di un monsone, mentre sapevo per esperienza che

    il  comandante  della motovedetta evitava questa sorta di stravaganze.

    Anche in un giorno di sole e in piena bonaccia,  preferiva la quiete e

    la  pace  della  baia  di  Zinballa.  Avevo  sentito dire che soffriva

    terribilmente il mal di mare e ricopriva il suo incarico attuale  solo

    perché  lo teneva lontano dalla capitale,  dove in qualità di ministro

    del governo era stato  coinvolto  in  uno  scandaletto  relativo  alla

    scomparsa di grosse somme di aiuti finanziari stranieri.

    Dal mio punto di vista, era l'uomo ideale per quell'incarico.

    «D'accordo»  conclusi,  rivolto a Materson.  «Ma quanto mi chiedete vi

    costerà altri duecentocinquanta dollari  al  giorno.  Un'indennità  di

    rischio.

    «Lo temevo» ribatté lui piano.

    Portai il "Dancer" al largo, vicino al faro di Oyster Point.

    Era una mattinata limpida, con un cielo alto e sereno in cui le nuvole

    stazionarie  che  segnalavano  la  posizione  di  ogni gruppo di isole

    torreggiavano in grandi colonne soffici di un bianco accecante.

    Il solenne incedere degli alisei attraverso  l'oceano  era  interrotto

    dal  baluardo  del continente africano sul quale s'infrangevano.  Qui,

    nel canale interno, ne incontrammo lo strascico,  e bufere saltuarie e

    colpi  di  vento  improvvisi  si  avventarono  cupi  sulle acque verde

    pallido, spruzzando di bianco la superficie.  Il "Dancer" se la godeva

    un mondo, trovava una scusa per dimenarsi e sculettare.

    «Cercate  qualcosa  di  preciso...  o  state  solo dando un'occhiata?»

    chiesi con fare disinvolto, e Jimmy si voltò per dirmi tutto.  Fremeva

    di   eccitazione   e   quando   apri  la  bocca  i  suoi  occhi  grigi

    scintillavano.

    «Diamo  solo  un'occhiata»  intervenne  Materson  con  un   campanello

    d'allarme  nella  voce  e un espressione brusca di avvertimento,  e la

    bocca di Jimmy si richiuse.

    «Conosco queste acque. Conosco ogni isola, ogni barriera. Potrei farvi

    risparmiare parecchio tempo... e un po' di denaro.»

    «E' molto gentile da parte sua»  mi  ringraziò  Materson  con  pesante

    ironia. «Ma credo che sapremo cavarcela da soli.»

    «Siete  voi  che  pagate.» Mi strinsi nelle spalle,  e Materson lanciò

    un'occhiata a Jimmy,  piegò la testa ordinandogli  di  seguirlo  e  lo

    guidò   giù   sul  ponte  di  poppa.   Rimasero  vicini  accanto  alla

    battagliola,  e Materson gli parlò in tono basso ma serio per un  paio

    di  minuti.  Vidi  Jimmy  arrossire  vivacemente,  la  sua espressione

    passare dalla costernazione a un broncio infantile, e intuii che stava

    ricevendo una severa tirata d'orecchi  in  materia  di  discrezione  e

    sicurezza.

    Quando  tornò sul ponte di comando ribolliva di collera e per la prima

    volta notai la linea decisa  della  mascella.  Non  era  solo  un  bel

    ragazzo, conclusi.

    Evidentemente su ordini di Materson,  Guthrie,  il braccio, uscì dalla

    cabina e spostò  il  grosso  sedile  girevole  da  pesca  in  modo  da

    fronteggiare  il  ponte.  Ci si stravaccò,  emanando anche in ozio una

    promessa di violenza, come un leopardo in riposo, e rimase a guardare,

    una gamba appoggiata sul bracciolo e la giacca di lino con il  pesante

    oggetto in tasca ripiegata in grembo.

    "Che nave allegra", osservai fra me, e portai fuori il "Dancer" fra le

    isole seguendo una bella rotta pulita nelle acque verde pallido,  dove

    le barriere coralline erano in agguato sotto la superficie come mostri

    malevoli e le isole erano orlate di  sabbia  corallina  di  un  bianco

    abbagliante come la neve e incoronate di folta vegetazione verde cupo,

    sulla  quale  i  tronchi  delle  palme  svettavano  con  le loro curve

    aggraziate, le cime scosse dai deboli residui degli alisei.

    Fu una giornata lunga in cui  incrociammo  a  caso,  e  io  tentai  di

    carpire qualche indizio sullo scopo della spedizione. Ma Jimmy, cui la

    ramanzina  di  Materson  bruciava  ancora,  era  cupo  e taciturno.  A

    intervalli chiedeva dei cambiamenti di rotta,  dopo che io avevo fatto

    il  punto  sulla  carta  nautica a grande scala che aveva tirato fuori

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    dalla sacca.

    Anche se non c'era nessun segno estraneo sulla carta,  esaminandola di

    sottecchi  riuscii  a  capire che eravamo interessati a un'area che si

    trovava da quindici a trenta miglia a nord del delta del fiume  Rovuma

    e  circa  sedici  miglia  al  largo.  Una  zona  che comprendeva circa

    trecento isole,  di dimensioni  variabili  da  pochi  ettari  a  molti

    chilometri quadrati... un enorme pagliaio in cui trovare il loro ago.

    Io  mi  accontentavo  di starmene appollaiato sul ponte del "Dancer" e

    correre in silenzio lungo le vie del mare, godendomi la sensazione del

    ponte sotto i piedi e osservando l'attività delle  creature  marine  e

    degli uccelli.

    Sul  sedile  da  pesca il cuoio capelluto di Mike Guthrie cominciava a

    brillare attraverso il sottile strato di capelli, come strisce di luci

    al neon rosso scarlatto.

    "Cuoci,  bastardo",  pensai allegramente,  e trascurai di metterlo  in

    guardia  contro  il sole tropicale finché non fummo diretti verso casa

    nel crepuscolo.  Il giorno dopo  era  sfigurato  da  vesciche  bianche

    sparse  sui  lineamenti gonfi e violacei e si riparava la testa con un

    largo cappello di tela,  ma il viso gli brillava  come  l'oblò  di  un

    transatlantico.

    A mezzogiorno della seconda giornata non ne potevo già più.  Jimmy era

    di scarsa compagnia perché,  anche se aveva recuperato un po' del  suo

    buonumore, era tanto preoccupato della sicurezza che rifletteva trenta

    secondi perfino prima di accettare un caffè.

    Più  per  avere  qualcosa  da  fare che per mangiare del pesce a cena,

    quando vidi un branco di piccoli sgombri che attaccavano un  banco  di

    sardine davanti a noi, lasciai la ruota a Jimmy.

    «La  tenga  su  questa  rotta» gli dissi,  e calai sul ponte di poppa.

    Guthrie mi sorvegliò diffidente mentre davo un'occhiata nella cabina e

    notavo che Materson aveva aperto il mio bar e si stava  preparando  un

    gin  and  tonic.  A  settecentocinquanta  dollari al giorno non potevo

    negarglielo.  In due giorni non aveva mai messo il  naso  fuori  della

    cabina.

    Tornai al piccolo ripostiglio degli utensili,  scelsi un paio di esche

    di piume e le lanciai fuori bordo.  Quando incrociammo  la  rotta  del

    banco  presi uno sgombro e lo tirai su che guizzava,  brillando dorato

    al sole.

    Poi riavvolsi le lenze e le riposi,  passai la lama  del  mio  pesante

    coltello  sulla  mola per affilare il taglio e spaccai il ventre dello

    sgombro dall'orifizio anale fino  alle  branchie,  tirando  fuori  una

    manciata di interiora sanguinolente che gettai nella scia.

    Subito  un  paio  di  gabbiani  che roteavano sopra di noi stridettero

    avidi e si tuffarono sugli avanzi.  Il loro  eccitamento  ne  richiamò

    altri  e  in pochi minuti a poppa ce ne fu un intero stormo stridulo e

    svolazzante.

    Il frastuono che facevano non era tanto  forte  però,  da  coprire  lo

    scatto  metallico  proprio  alle  mie spalle e il suono inconfondibile

    dell'otturatore di un'automatica che veniva tirato indietro e lasciato

    andare per caricare e armare. Mi mossi per puro istinto.  Senza il mio

    intervento  cosciente,  il  grosso  coltello  da esche roteò nella mia

    destra mentre passavo senza  soluzione  di  continuità  a  una  solida

    presa, mi giravo e mi gettavo sul ponte in un solo movimento, frenando

    la  caduta  con  i talloni e il braccio sinistro mentre il coltello si

    sollevava sopra  la  spalla  destra  e  io  mi  preparavo  a  lanciare

    nell'istante in cui avessi inquadrato il bersaglio.

    Mike  Guthrie aveva nella destra una grossa auto matica.  Un'antiquata

    calibro 45 della marina,  un'arma da killer,  che  poteva  aprire  nel

    petto  di  un  uomo  un  foro  in  cui  sarebbe potuto passare un taxi

    londinese.

    Due cose salvarono Guthrie dal  ritrovarsi  infilzato  allo  schienale

    come una farfalla dalla lunga lama del mio coltello.  Primo,  il fatto

    che la .45 non era puntata su di me e,  secondo,  l'espressione comica

    di stupore sul suo viso scarlatto.

    Mi  trattenni  dal lanciare il coltello,  bloccando il gesto istintivo

    con un grande sforzo di volontà,  e ci fissammo  negli  occhi.  Allora

    capì  quanto  ci  era  arrivato  vicino  e il sorriso che si sforzò di

    mettere insieme con le labbra gonfie,  riarse dal sole,  fu tremolo  e

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    poco  convincente.  Io  mi  alzai e piantai il coltello nel tavolo per

    tagliare le esche.

    «Faccia un favore a se stesso» gli dissi piano. «Eviti di giocare alle

    mie spalle con quell'affare.»

    Allora lui scoppiò a ridere,  di nuovo sicuro di sé.  Girò il sedile e

    mirò fuori bordo.  Sparò due volte, con un boato forte che sovrastò il

    pulsare dei motori del "Dancer",  e la zaffata di cordite fu  spazzata

    via dal vento.

    Due  dei  gabbiani  che  roteavano  esplosero  in scoppi grotteschi di

    sangue e di penne, ridotti in poltiglia dalle pesanti pallottole, e il

    resto dello stormo si disperse con strida di panico.  Il modo  in  cui

    gli  uccelli  erano rimasti dilaniati mi fece capire che Guthrie aveva

    caricato con  pallottole  esplosive,  un'arma  più  selvaggia  di  una

    carabina a canne mozze.

    Roteò  sulla  sedia per guardarmi in faccia e soffiò nella canna della

    pistola,  alla maniera di John Wayne.  Sparare con un'arma di  calibro

    così pesante era un capriccio.

    «Bella prodezza» applaudii,  girandomi verso la scaletta del ponte, ma

    Materson era ritto sulla soglia della cabina con il suo gin in mano  e

    quando feci un passo indietro parlò a bassa voce.

    «Ora  so  chi  è lei» disse con quella sua voce dolce e ronzante.  «Ci

    aveva dato da pensare, eravamo convinti di conoscerla.»

    Lo fissai e lui si rivolse a Guthrie, dietro di me.

    Guthrie scosse la testa.  Credo che non si  fidasse  della  sua  voce.

    «Allora portava la barba, pensaci bene... una foto segnaletica.»

    «Cristo»  esclamò  Guthrie.  «Harry  Bruce!»  Provai  un lieve choc al

    sentir pronunciare quel nome ad  alta  voce  dopo  tanti  anni.  Avevo

    sperato che fosse dimenticato per sempre.

    «Roma» aggiunse Materson. «La rapina dell'oro.»

    «L'aveva  organizzata  lui.»  Guthrie  fece  schioccare le dita.  «Ero

    sicuro di conoscerlo. E' stata la barba a trarmi in inganno.»

    «Penso che lor signori abbiano sbagliato indirizzo» ribattei con  tono

    freddo,  in  un tentativo disperato,  ma intanto riflettevo in fretta,

    cercando di valutare questa informazione fresca fresca.  Avevano visto

    una  foto  segnaletica...  Dove?  Quando?  Erano  uomini della legge o

    dall'altro  lato  della  barricata?   Avevo  bisogno  di   tempo   per

    riflettere... e mi arrampicai su fino al ponte.

    «Mi spiace» borbottò Jimmy,  quando gli tolsi la ruota.  «Avrei dovuto

    dirglielo che aveva una pistola.»

    «Già» risposi.  «Forse sarebbe stato meglio.» La mia mente galoppava e

    la  prima  svolta  che  prese  fu  lungo  il sentiero dell'illegalità.

    Dovevano sparire. Avevano mandato all'aria la mia elaborata copertura,

    mi avevano stanato e c'era  una  sola  via  d'uscita  sicura.  Guardai

    indietro  sul ponte di poppa,  ma sia Materson sia Guthrie erano scesi

    sottocoperta.

    Un incidente,  eliminarli tutti e due in un sol colpo;  a bordo di una

    barca  c'erano  parecchi modi in cui un tipo inesperto poteva farsi il

    peggiore dei mali possibile. Dovevano sparire.

    Poi guardai Jimmy e lui mi sorrise.

    «Lei si muove alla svelta» osservò.  «Per poco Mike non se  la  faceva

    sotto, credeva proprio di beccarsi quel coltello nello stomaco.»

    "Anche il ragazzo?",  mi chiesi... se eliminavo gli altri due, avrebbe

    dovuto sparire anche lui.  Poi d'un tratto  provai  la  stessa  nausea

    fisica che avevo conosciuto per la prima volta tanto tempo prima,  nel

    villaggio del Biafra.

    «Tutto bene,  comandante?» chiese pronto Jimmy.  Dovevo aver  lasciato

    trasparire dall'espressione i miei pensieri.

    «Sto benissimo, Jim» risposi. «Perché non va a prendere una lattina di

    birra?»

    Mentre  era  dabbasso  raggiunsi  la  mia decisione.  Avrei stretto un

    accordo. Ero certo che non volevano veder sbandierare in piazza i loro

    affari.  Avrei barattato discrezione  con  discrezione.  Probabilmente

    nella cabina di sotto stavano arrivando alla stessa conclusione.

    Bloccai  la  ruota  e  mi  diressi senza far rumore verso l'angolo del

    ponte,  assicurandomi che i miei passi  non  fossero  avvertiti  nella

    cabina sottostante.

    Lì  il  ventilatore incanalava aria fresca nella presa d'aria sopra il

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    tavolo  della  cabina  principale.  Avevo  scoperto  che  il  tubo  di

    ventilazione costituiva un portavoce abbastanza efficace,  che portava

    il suono di lì fino al ponte.

    Tuttavia l'efficacia di questo congegno di  ascolto  dipendeva  da  un

    gran  numero  di  fattori,  in primo luogo la direzione e la forza del

    vento e la posizione precisa di chi parlava nella cabina sottostante.

    Il vento era a nostro favore e soffiava nell'apertura del ventilatore,

    cancellando frammenti della conversazione nella  cabina.  Per  fortuna

    Jimmy  doveva  essersi messo proprio sotto la presa d'aria,  perché la

    sua voce mi arrivava forte quando il rombo del vento non la soffocava.

    «Perché non glielo chiedete adesso?» E la risposta giunse confusa, poi

    il vento soffiò e quando cadde parlava di nuovo Jimmy.

    «Se lo fate stasera, dove...» e il vento ruggì «...  per avere la luce

    dell'alba  allora  dovremo...»  Tutta la discussione pareva vertere su

    tempi e luoghi e mentre mi chiedevo per un istante che cosa sperassero

    di ottenere lasciando il porto all'alba,  lui lo ripeté.  «Se la  luce

    dell'alba è dove...» Tesi le orecchie per cogliere le parole seguenti,

    ma  il  vento  le cancellò per dieci secondi,  poi: «...  non riesco a

    capire perché non possiamo...» stava protestando Jimmy e a  un  tratto

    la voce di Mike Guthrie mi arrivò nitida e aspra. Doveva essere andato

    a  mettersi  vicinissimo  a  Jimmy,  probabilmente in atteggiamento di

    minaccia.

    «Sta' a sentire,  ragazzo,  lascia sbrigare a noi questa  parte  della

    faccenda.  Il  tuo compito è di trovare quel maledetto affare e finora

    non te la sei cavata troppo bene.»

    Dovevano essersi spostati di nuovo,  perché  le  loro  voci  divennero

    confuse.  Sentii  aprirsi  la  porta  scorrevole che dava sul ponte di

    poppa e mi diressi in fretta al timone,  allentando la maniglia che lo

    tratteneva proprio mentre la testa di Jimmy compariva oltre l'orlo del

    ponte.

    Mi  tese  la  birra,  e ora sembrava più rilassato.  Dai suoi modi era

    sparito il riserbo. Mi sorrise con aria cordiale e fiduciosa.

    «Il signor Materson dice che per oggi basta.  Dobbiamo  puntare  verso

    casa.»

    Invertii  la  rotta  del  "Dancer"  per  tornare  da ovest,  superando

    l'imboccatura di Turtle Bay,  e potei vedere la mia capanna stagliarsi

    fra  le palme.  Sentii un gelo improvviso,  presagio di sconfitta.  Il

    destino aveva deciso un nuovo  giro  di  carte  e  il  gioco  era  più

    pesante, la posta era troppo alta per i miei gusti, ma ormai non c'era

    modo di tirarmi indietro.

    Con  tutto  ciò,  vinsi  il gelo dello sconforto e mi rivolsi a Jimmy.

    Avrei approfittato del suo nuovo atteggiamento di fiducia per  tentare

    di carpire tutte le informazioni possibili.

    Chiacchierammo  di  cose senza importanza durante il percorso lungo il

    canale fino al porto grande.  Era chiaro che gli avevano detto che non

    ero  più sulla lista nera.  Stranamente il fatto che avessi un passato

    criminale mi rendeva più accettabile. Ora potevano regolarsi.  Avevano

    trovato una leva,  così potevano manovrarmi...  anche se ero piuttosto

    sicuro che non  avevano  spiegato  nei  minimi  particolari  tutta  la

    questione al giovane James.

    Evidentemente  era  un  sollievo per lui comportarsi in modo naturale.

    Era un tipo cordiale e aperto,  senza un filo di  astuzia.  Ne  faceva

    fede  il  fatto  che  mentre il suo cognome era stato nascosto come un

    segreto militare, lui portava al collo una catenella d'argento con una

    piastrina che avvertiva i soccorritori che il portatore,  J.A.  NORTH,

    era allergico alla penicillina.

    Ormai  aveva  dimenticato tutte le sue precedenti riserve e pian piano

    gli estorsi piccoli frammenti di informazioni che in  futuro  potevano

    tornarmi  utili.  In base alla mia esperienza è proprio quello che non

    sai che può nuocerti sul serio.

    Scelsi   l'argomento   che   pensavo   l'avrebbe   fatto    capitolare

    definitivamente.

    «Vede  quella  barriera  attraverso  il  canale,  laggiù  dove  l'onda

    s'infrange adesso?  Quella è la Devil Fish Reef  e  ci  sono  quaranta

    metri di profondità dalla parte del mare. E' un posto frequentatissimo

    da  certe  vecchie  cernie davvero enormi.  L'anno scorso laggiù ne ho

    presa una che pesava più di duecento chili.»

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    «Duecento...» esclamò.  «Dio  mio,  sono  quasi  quattrocentocinquanta

    libbre.»

    «Già, uno poteva infilargli in bocca la testa e le spalle.»

    Le  ultime riserve scomparvero.  Aveva frequentato i corsi di storia e

    filosofia a Cambridge,  ma passava troppo tempo in mare e aveva dovuto

    mollare. Ora gestiva una piccola impresa di attrezzature da immersione

    e  da  recupero  che gli dava da vivere e gli permetteva di immergersi

    per la maggior parte della settimana.  Svolgeva  la  sua  attività  da

    privato  e  aveva  dei  contatti con il governo e la marina per alcuni

    lavori.

    Più di una volta si lasciò sfuggire il nome "Sherry" e  io  tastai  il

    terreno con cautela.

    «E' la sua ragazza o sua moglie?»

    Lui sorrise.

    «Mia sorella,  una sorella maggiore,  ma è un tipo in gamba... tiene i

    registri e bada alla bottega» rispose in  un  tono  che  non  lasciava

    dubbi  su  quello  che  James  pensava di tenere i registri e stare al

    banco.  «E' una formidabile esperta di conchiglie e ne ricava  duemila

    sterline  all'anno.» Ma non spiegò perché si era messo nella compagnia

    equivoca che ora  frequentava,  né  che  cosa  stava  combinando  agli

    antipodi  del  suo  negozio di articoli sportivi.  Li lasciai sul molo

    dell'Ammiragliato e portai il "Dancer" al bacino della Shell per  fare

    rifornimento prima di notte.

    Quella sera avevo arrostito alla griglia lo sgombro, avevo cotto nella

    brace  un  paio  di  grosse  patate  dolci con tutta la buccia e stavo

    innaffiando la cena con una birra fredda,  seduto sulla veranda  della

    capanna ad ascoltare la risacca, quando vidi i fari avvicinarsi fra le

    palme.

    Il  taxi  parcheggiò  vicino  al  mio furgoncino e l'autista rimase al

    volante,  mentre i passeggeri salivano  i  gradini  fino  al  portico.

    Avevano lasciato James all'Hilton e ora erano solo in due...  Materson

    e Guthrie.

    «Da bere?» Indicai le bottiglie e il ghiaccio sul tavolinetto. Guthrie

    versò del gin per tutti e due e Materson sedette di fronte a me  e  mi

    osservò finire il pesce.

    «Ho  fatto qualche telefonata» disse quando spinsi da parte il piatto.

    «E mi dicono che Harry Bruce è scomparso nel giugno di cinque anni  fa

    e da allora non si è più fatto vivo.  Ho chiesto in giro e ho scoperto

    che Harry Fletcher è arrivato qui nel porto grande a vele spiegate tre

    mesi dopo... senza scalo da Sydney, in Australia.»

    «Davvero?» Mi tolsi dal dente una spina di pesce e  accesi  un  sigaro

    dell'isola, lungo e nero.

    «Un'altra cosa, qualcuno che lo conosceva bene mi dice che Harry Bruce

    ha  una  cicatrice  di coltello sul braccio sinistro» disse con la sua

    voce carezzevole,  e io lanciai uno sguardo  involontario  alla  linea

    sottile  come  un capello che guarniva il muscolo del mio avambraccio.

    Con gli anni  si  era  ristretta  e  appiattita,  ma  spiccava  ancora

    bianchissima sulla pelle scura brunita dal sole.

    «Be',  è una straordinaria coincidenza» osservai,  tirando una boccata

    dal sigaro.  Era forte e aromatico,  sapeva di  mare,  di  sole  e  di

    spezie. Ora non ero preoccupato... volevano venire a patti.

    «Già» convenne Materson,  guardandosi in giro con aria studiata.  «Lei

    si è sistemato bene, Fletcher. Un bel posticino,  non è vero?  Proprio

    bello e comodo.»

    «Ci si stufa a morte di lavorare per vivere» ammisi.

    «... o di spaccare rocce, o di cucire i sacchi della posta.»

    «Immagino di sì.»

    «Domani il ragazzo le farà delle domande. Cerchi di essere gentile con

    lui,  Fletcher. Quando ce ne andremo potrà dimenticare di averci visti

    e noi ci  scorderemo  di  fare  parola  a  qualcuno  di  questa  buffa

    coincidenza.»

    Dopo  la  conversazione che avevo sentito nella cabina del "Dancer" mi

    aspettavo che chiedessero di partire presto,  la mattina dopo,  perché

    la luce dell'alba sembrava importante per i loro piani. Invece nessuno

    dei due vi accennò e quando se ne furono andati io capii che non avrei

    dormito,  così  feci una passeggiata lungo la sabbia seguendo la curva

    della baia fino a Mutton Point per osservare la luna  levarsi  fra  le

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    palme. Restai seduto lì fin dopo mezzanotte.

    La mattina dopo il canotto era scomparso dal molo,  ma Hambone, l'uomo

    del traghetto,  mi portò a forza di  remi  all'ormeggio  del  "Dancer"

    prima  del  levar  del  sole,  e  mentre  accostavamo  vidi una sagoma

    familiare aggirarsi sul ponte  di  poppa  e  il  canotto  legato  alla

    murata.

    «Ehi,  Chubby.» Saltai a bordo. «Che c'è, la tua signora ti ha buttato

    fuori dal letto?»

    La coperta del "Dancer" risplendeva bianca perfino nella luce scarsa e

    tutte le parti metalliche erano lucidate a specchio.  Doveva essere lì

    da un paio d'ore; Chubby ama il "Dancer" quasi quanto me.

    «Sembrava  un  gabinetto pubblico,  Harry» brontolò.  «E' un branco di

    maiali quello  che  hai  a  bordo»  e  sputò  rumorosamente  oltre  la

    fiancata.  «Non  hanno  rispetto  per  una barca,  ecco come stanno le

    cose.»

    Aveva del caffè pronto, forte e aromatico come solo lui sa farlo, e lo

    bevemmo seduti nel salone.  Chubby aggrottò tetro la fronte  e  soffiò

    sul liquido nero fumante. Aveva voglia di dirmi qualcosa.

    «Come sta Angelo?»

    «Accontenta le vedove di Rawano» borbottò.  L'isola non fornisce posti

    di lavoro sufficienti per tutti i giovani  abili...  perciò  molti  di

    loro  s'imbarcano con un contratto triennale per la stazione guida dei

    satelliti e la base dell'aeronautica militare,  sull'isola di  Rawano.

    Si lasciano dietro le giovani mogli, le vedove di Rawano, e le ragazze

    isolane sono giustamente celebrate per l'alta temperatura del sangue e

    il  carattere  cordiale.  «Quell'Angelo  si  farà  andare  in acqua il

    cervello... non fa altro, giorno e notte, da lunedì.»

    Nel suo brontolio riconobbi più di una traccia d'invidia.  La  signora

    Chubby  gli  teneva  le  briglie  corte...  lui  riprese a sorseggiare

    rumorosamente il caffè.

    «Come va con i clienti, Harry?»

    «I soldi sono buoni.»

    «Non stai pescando,  Harry.» Mi guardò.  «Ti osservo  dalla  cima  del

    Coolie  Peak,  amico,  non  ti  avvicini  nemmeno  al  canale...  stai

    lavorando verso riva.»

    «Esatto, Chubby.» Lui riportò la sua attenzione sul caffè.

    «Dammi retta. Harry. Sorvegliali.  Sta' bene attento.  Sono farabutti,

    quei due. Non so il giovane... ma gli altri sono brutta gente.»

    «Starò attento, Chubby.»

    «Conosci  la  ragazza nuova dell'albergo...  Marion?  Quella che hanno

    assunto per la stagione?» Annuii, era una ragazzina graziosa,  snella,

    dalle  belle gambe lunghe,  sui diciannove anni,  con i capelli neri e

    lucidi,  le lentiggini,  gli occhi arditi e un  sorriso  impertinente.

    «Be',  ieri  sera  è  uscita col biondo,  quello con la faccia rossa.»

    Sapevo che a volte Marion combinava gli affari col piacere e forniva a

    ospiti selezionati dell'albergo prestazioni che  non  rientravano  nel

    servizio.  Sull'isola  questo genere di attività non comportava nessun

    marchio d'infamia.

    «Sì» incoraggiai Chubby.

    «L'ha picchiata, Harry. Le ha fatto molto male.» Chubby prese un altro

    sorso di caffè.  «Poi le ha dato tanto denaro che lei  non  ha  potuto

    andare alla polizia.»

    Ora  Mike  Guthrie  mi  piaceva  ancor  meno.  Solo una bestia avrebbe

    abusato  di  una  ragazza  come  Marion.  La  conoscevo  bene.   Aveva

    un'innocenza, un'infantile accettazione della vita, che rendeva la sua

    promiscuità  stranamente  attraente.  Ricordavo di aver pensato che un

    giorno o l'altro avrei potuto vedermi costretto a uccidere  Guthrie...

    e tentai di non lasciar svanire il pensiero.

    «E' brutta gente, Harry. Ho pensato che era meglio che lo sapessi.»

    Mi aiutò a portare il "Dancer" al molo dell'Ammiragliato e poi alzò le

    vele  diretto  a  casa,  mugugnando  e  borbottando  oscure minacce...

    Incrociò  Jimmy  che  veniva  in  direzione  opposta  e   gli   scoccò

    un'occhiata tanto malevola che avrebbe dovuto incenerirlo all'istante.

    Jimmy era solo, fresco in viso e vivace.

    «Salve,  comandante»  esclamò  saltando  sul ponte del "Dancer",  e io

    scesi nella cabina con lui e versai il caffè per tutte e due.

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    «Il signor Materson dice che lei ha delle domande da farmi, vero?»

    «Senta,  signor  Fletcher,   vorrei  farle  capire  che  non  era  mia

    intenzione  offenderla  non  parlandole  prima.  Non ero io...  ma gli

    altri.»

    «Certo» lo rassicurai. «Tutto a posto, Jimmy.»

    «La cosa più sensata sarebbe stata chiedere il suo aiuto  molto  tempo

    prima,  invece di girare a vuoto come abbiamo fatto.  Comunque ora gli

    altri hanno deciso tutt'a un tratto che va bene.»

    Mi aveva appena detto molto di più di  quanto  immaginasse  e  dovetti

    rivedere  la  mia  opinione  sul giovane James.  Era chiaro che era in

    possesso di informazioni e che non le  aveva  comunicate  agli  altri.

    Erano la sua garanzia,  e probabilmente aveva insistito per vedermi da

    solo allo scopo di mantenere intatta la sua polizza di assicurazione.

    «Comandante, stiamo cercando un'isola, un'isola ben precisa. Non posso

    dirle il perché, mi dispiace.»

    «Non fa niente,  Jimmy.  Va benissimo così.» "Che cosa ne sarà di  te,

    James North" mi chiesi a un tratto. "Che sorte ha in serbo per te quel

    branco  di  lupi,  una  volta  che li avrai guidati a questa tua isola

    speciale?  Sarà qualcosa di gran lunga  meno  piacevole  dell'allergia

    alla penicillina?"

    Guardai  quel bel viso giovane e provai per lui un insolito slancio di

    affetto...  forse era per la sua giovinezza e innocenza,  per il senso

    di  eccitazione  col  quale  considerava questo vecchio mondo stanco e

    crudele.  Lo invidiavo e lo ammiravo per  questo,  e  non  mi  piaceva

    l'idea di vederlo rotolare nel fango.

    «Jim,  fino  a  che  punto  lei conosce bene i suoi amici?» gli chiesi

    piano e lui fu colto di sorpresa, poi quasi subito si mise in guardia.

    «Abbastanza bene» rispose prudente. «Perché?»

    «Li conosce da meno di un mese» dissi,  come se lo sapessi,  e vidi la

    conferma nei suoi occhi.  «E io conosco tipi del genere da quando sono

    al mondo.»

    «Non  vedo  che  cosa  c'entra,   signor  Fletcher.»  Ora   si   stava

    irrigidendo,  lo  trattavo  come  un bambino e questo non gli andava a

    genio.

    «Stia a sentire, Jim. Si scordi di quest'affare, qualunque sia.  Lasci

    perdere e torni alla sua bottega e all'impresa di recupero.»

    «E' pazzesco» ribatté lui. «Lei non capisce.»

    «Capisco, Jim. Sul serio. Ho percorso la stessa strada e lo so bene.»

    «So badare a me stesso. Non si preoccupi per me.» Sotto l'abbronzatura

    era  arrossito  fino  alla  radice  dei  capelli  e i suoi occhi grigi

    brillavano di sfida.  Ci guardammo negli occhi per qualche  istante  e

    capii  che  stavo  sprecando  tempo  e  fatica.  Se qualcuno mi avesse

    parlato in questo tono quando avevo  la  sua  età,  l'avrei  giudicato

    rimbecillito.

    «D'accordo, Jim» conclusi. «Lascerò perdere, ma ora lei sa come stanno

    le cose. Solo, ci vada coi piedi di piombo, ecco tutto.»

    «Okay,  signor Fletcher.» Si rilassò lentamente e poi sorrise, col suo

    sorriso irresistibile. «Grazie, comunque.»

    «Sentiamo di quest'isola» suggerii, e lui lanciò un'occhiata intorno a

    sé nella cabina.

    «Saliamo sul ponte» proposi,  e uscito all'aria aperta  lui  prese  un

    mozzicone  di  matita  e un blocknotes dall'armadietto sopra il tavolo

    delle carte.

    «Secondo i miei calcoli si trova al largo della costa africana da  sei

    a dieci miglia, e da dieci a trenta miglia a nord della foce del fiume

    Rovuma...»

    «Questo significa un territorio immenso, Jim... come forse avrà notato

    nei giorni scorsi. Che altro sa?»

    Esitò  un  po'  più  a lungo,  prima di sganciare a malincuore qualche

    altra moneta del suo gruzzolo.  Prese la matita e tracciò  sul  blocco

    una linea orizzontale.

    «Al  livello  del  mare...»  spiegò,  e  poi sopra la linea disegnò un

    profilo irregolare che partiva dal basso e quindi s'innalzava  ripido,

    formando  tre cime distinte prima di interrompersi bruscamente «...  e

    questo è il profilo che mostra  dal  mare.  Le  tre  colline  sono  di

    basalto vulcanico, roccia nuda con scarsa vegetazione.»

    «"I  Tre Vecchi"» la riconobbi subito «...  ma lei si sbaglia di molto

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    negli altri calcoli, dista più di venti miglia dalla costa.»

    «Ma in vista della terraferma?» chiese subito. «Dev'essere così.»

    «Certo,  dalla cima delle colline  si  vede  molto  lontano»  precisai

    mentre  lui  strappava  il foglio dal blocco e lo lacerava con cura in

    frammenti, che gettò nell'acqua del porto.

    «Quante miglia a nord del fiume?» Si voltò a guardarmi in faccia.

    «Grosso modo sessanta o settanta.» E lui apparve pensieroso.

    «Sì, potrebbe andare. Potrebbe corrispondere,  dipende da quanto tempo

    ci vuole...» Non terminò la frase,  stava seguendo il mio consiglio di

    procedere con prudenza. «Può portarci laggiù, comandante?»

    Annuii.  «Ma è un  lungo  viaggio  ed  è  meglio  essere  preparati  a

    pernottare sul battello.»

    «Andrò  a prendere gli altri» ribatté,  ancora una volta impaziente ed

    eccitato.  Ma sul molo si volse a  guardare  il  ponte.  «A  proposito

    dell'isola,  dell'aspetto che ha e di tutto il resto, non ne parli con

    gli altri, d'accordo?»

    «Va bene,  Jim» risposi sorridendo.  «Stia tranquillo.» Scesi per dare

    un'occhiata alla carta nautica dell'Ammiragliato. "I Tre Vecchi" erano

    il  punto  più  alto  di  una  catena  di basalto,  una lunga barriera

    rocciosa che  correva  parallela  alla  terraferma  per  trecentoventi

    chilometri.  Scompariva  sotto  il livello dell'acqua,  ma affiorava a

    intervalli,  costituendo un punto fermo fra le spruzzatine  irregolari

    di corallo, isole sabbiose e secche.

    Era  segnalata  come  disabitata  e  priva  di  acqua  e gli scandagli

    mostravano l'esistenza di un gran numero di profondi canali attraverso

    la barriera che la circondava.  Anche se era  molto  a  nord  del  mio

    territorio  di  pesca  abituale,  avevo visitato la zona l'anno prima,

    facendo da guida a una spedizione  di  biologi  marini  dell'UCLA  che

    studiavano  le  abitudini  riproduttive  delle tartarughe verdi che lì

    abbondavano.

    Ci eravamo accampati per tre giorni su un'altra  isola,  separata  dai

    Tre Vecchi da un canale scavato dalla marea,  dove c'era un ancoraggio

    permanente in una laguna chiusa e acqua salmastra ma  potabile  in  un

    pozzo di pescatori fra le palme.  Visti dall'ancoraggio,  i Tre Vecchi

    mostravano esattamente lo stesso profilo che Jimmy aveva disegnato per

    me, ecco perché l'avevo riconosciuta con tanta prontezza.

    Mezz'ora dopo arrivò tutta la  comitiva;  assicurato  da  cinghie  sul

    tetto  del  taxi  c'era  un oggetto voluminoso,  protetto da un telone

    impermeabile verde.  Assoldarono un paio di  isolani  sfaccendati  per

    trasportare questo e i bagagli lungo il molo,  fino al punto in cui li

    aspettavo io.

    Collocarono il fagotto di tela sul ponte di prua,  senza svolgerlo,  e

    io  non feci domande.  La pelle del viso di Guthrie cominciava a venir

    via a strati, lasciando esposta la carne viva. Ci aveva spalmato sopra

    della crema bianca.  Io lo immaginai mentre  sbatacchiava  la  piccola

    Marion  da una parte all'altra del suo appartamento all'Hilton,  e gli

    sorrisi.

    «Ha proprio un aspetto magnifico.  Mai pensato di concorrere al titolo

    di  Miss  Universo?»  e  lui mi fulminò di sotto la tesa del cappello,

    prendendo posto sul sedile da pesca.  Durante il  viaggio  verso  nord

    bevve birra dalla lattina e usò i vuoti come bersaglio, colpendoli con

    la  grossa  pistola  mentre  cadevano  e  sobbalzavano  nella scia del

    "Dancer".

    Poco prima di mezzogiorno cedetti a Jimmy la ruota del timone e  scesi

    per  usare  la  toilette sotto coperta.  Mi accorsi che Materson aveva

    aperto il bar e tirato fuori la bottiglia di gin.

    «Quanto ci vuole ancora?» chiese,  sudato e  congestionato  nonostante

    l'aria condizionata.

    «All'incirca  un'altra  ora»  risposi,  e  pensai che Materson sarebbe

    finito alcolizzato,  a giudicare dal modo in cui reggeva i  liquori  a

    mezzogiorno. Comunque, il gin l'aveva addolcito un po' e io, il solito

    opportunista, gli feci sganciare altre trecento sterline come anticipo

    sul  mio  compenso,  prima di salire a guidare il "Dancer" nell'ultima

    tappa attraverso il canale a nord che portava ai Tre Vecchi.

    Le tre cime apparvero nella foschia dell'afa, di un grigio spettrale e

    funesto, come se fluttuassero incorporee sul canale.  Jimmy esaminò le

    cime  col binocolo,  poi l'abbassò e si volse verso di me,  al settimo

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    cielo.

    «Sembra proprio quella giusta,  comandante» e scese a  precipizio  sul

    ponte di poppa. Salirono tutti e tre sul ponte di prua, oltrepassarono

    il  carico  avvolto  nel  telone  e  rimasero appoggiati al parapetto,

    spalla a spalla, a fissare l'isola oltre il braccio di mare, mentre io

    risalivo pian piano il canale.

    Avevamo la marea a favore e fui ben lieto di sfruttare il suo abbrivio

    per accostare alla punta orientale dei Tre Vecchi  e  approdare  sulla

    spiaggia  sotto il picco più vicino.  Questa costa ha un dislivello di

    marea di cinque metri e diciotto centimetri all'equinozio di primavera

    ed è poco saggio avventurarsi in acque basse col riflusso.  E'  facile

    ritrovarsi  in  una  secca mentre le acque ti scorrono via di sotto la

    chiglia.

    Jimmy prese a prestito la mia bussola da polso e la mise nel suo zaino

    insieme con la carta,  un thermos  d'acqua  gelata  e  un  flacone  di

    pastiglie  di  sale preso dalla cassetta dei medicinali.  Mentre io mi

    avvicinavo con cautela alla spiaggia,  Jimmy  e  Materson  si  tolsero

    scarpe, calze e pantaloni.

    Quando  il Dancer batté dolcemente la chiglia sulla dura sabbia bianca

    della spiaggia io alzai la voce: «Okay,  andate» e con Jimmy in  testa

    scesero  la  scaletta  che  avevo  calato dalla fiancata del "Dancer".

    L'acqua gli arrivava alle ascelle e James  tenne  lo  zaino  sopra  la

    testa mentre guadavano verso la spiaggia.

    «Due  ore!» gli gridai dietro.  «Se ci mettete di più potete dormire a

    terra. Non tornerò a prendervi con la bassa marea.»

    Jimmy agitò la  mano  e  sorrise.  Io  feci  macchina  indietro  e  mi

    allontanai  con prudenza,  mentre loro due raggiungevano la spiaggia e

    saltellavano goffamente per infilarsi pantaloni  e  scarpe  e  poi  si

    addentravano fra i boschetti di palme, scomparendo alla vista.

    Dopo aver incrociato dieci minuti, sbirciando in giù nell'acqua chiara

    come  un  torrente  di  montagna,  scorsi  sul fondo l'ombra scura che

    cercavo e calai un'ancora leggera.

    Mentre Guthrie osservava con interesse  m'infilai  una  maschera  e  i

    guanti  e mi tuffai oltre la murata con una piccola rete da ostriche e

    una pesante leva.  Sotto di noi c'erano dodici  metri  d'acqua  e  fui

    lieto  di scoprire che avevo ancora fiato sufficiente per immergermi e

    staccare in un solo tuffo una retata di grossi molluschi  bivalve.  Li

    sgusciai  sul  ponte  di  poppa  e poi,  ricordando gli ammonimenti di

    Chubby,  gettai fuori bordo i gusci vuoti e ramazzai con cura il ponte

    prima  di  portare  giù in cambusa un secchio di molluschi dalla carne

    dolce.  Finirono in una casseruola con  vino  e  aglio,  sale  e  pepe

    macinato  e  appena un pizzico di peperoncino rosso.  Regolai il fuoco

    basso e misi il coperchio sulla pentola.

    Quando tornai sul ponte Guthrie era ancora seduto sul sedile da pesca.

    «Cosa c'è che non va,  il grande  capo  si  annoia?»  gli  chiesi  con

    sollecitudine.  «Non ci sono ragazzine da prendere a calci?» Socchiuse

    gli occhi riflettendo.  Intuii che cercava di individuare la mia fonte

    di informazioni.

    «Lei ha una gran boccaccia, Bruce. Un giorno o l'altro qualcuno gliela

    chiuderà.» Ci scambiammo qualche altra piacevolezza,  tutte più o meno

    dello stesso livello, ma servì a passare il tempo finché le due figure

    distanti apparvero sulla spiaggia e agitarono  la  mano,  salutando  a

    gran voce. Io salpai l'ancora e andai a prenderli.

    Appena furono a bordo convocarono Guthrie e si radunarono sul ponte di

    prua per una delle loro riunioni di gruppo.  Erano molto eccitati, più

    di tutti Jimmy,  che gesticolava e indicava il  canale,  parlando  con

    voce  bassa  ma decisa.  Una volta tanto parevano tutti d'accordo,  ma

    quando ebbero finito di discutere restava solo un'ora di luce e io  mi

    rifiutai  di  acconsentire alle richieste di Materson di continuare le

    esplorazioni quella sera.  Non avevo nessuna voglia di brancolare  nel

    buio   con   la   bassa   marea.   Portai  risolutamente  il  "Dancer"

    all'ancoraggio sicuro nella laguna oltre il canale e  quando  il  sole

    tramontò  sotto  l'orizzonte  infuocato  il  "Dancer"  era  saldamente

    ormeggiato a due pesanti ancore e io ero seduto sul ponte a godermi la

    fine della giornata e il primo scotch della sera.  Sotto di me,  nella

    cabina   principale,   si   sentiva   l'interminabile  mormorio  delle

    discussioni.  Lo ignorai,  senza sprecarmi nemmeno a usare il condotto

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    di  ventilazione,  finché  le  prime zanzare non arrivarono dall'altro

    lato della laguna e cominciarono a  ronzarmi  intorno  alle  orecchie.

    Scesi dabbasso e al mio ingresso la conversazione languì.

    Feci  addensare  il  sugo  e servii la mia casseruola di molluschi con

    patate dolci al forno e insalata  di  ananas  e  tutti  mangiarono  in

    religioso silenzio.

    «Dio mio, questo è ancora meglio della cucina di mia sorella» commentò

    Jimmy  alla  fine.  Io  gli  sorrisi.  Sono  piuttosto fiero delle mie

    capacità culinarie e il giovane James era chiaramente un "gourmet".

    Dopo mezzanotte regnava un gran silenzio,  turbato solo  dal  sommesso

    sciabordare  della  marea  contro  la  murata  del  "Dancer"...  e  in

    lontananza dal rombo della risacca sulla  barriera  esterna.  Arrivava

    possente   e   alta  dall'oceano  aperto  e  s'infrangeva  tuonando  e

    schiumeggiando  sul  corallo  di  Gunfire  Reef,   la  Barriera  della

    Cannonata.  Il  nome  era  ben  scelto,  il rumore sordo e profondo ne

    scuoteva le viscere proprio come le salve regolari di un cannone.

    Il chiaro di luna inondava il canale di barbagli  d'argento  e  faceva

    risaltare  le  cupole  calve  delle  cime  dei  Tre Vecchi,  facendole

    brillare come avorio.  Ai loro piedi le  nebbie  della  notte  che  si

    levavano dalla laguna guizzavano, torcendosi come anime in pena.

    A  un  tratto  colsi  alle  mie spalle il fruscio di un movimento e mi

    girai di scatto. Guthrie mi aveva seguito, silenzioso come un leopardo

    a caccia.  Portava solo un paio di slip e al chiaro  di  luna  il  suo

    corpo  era bianco,  muscoloso e snello.  La grossa calibro 45 nera gli

    penzolava lungo la coscia destra.  Ci guardammo un attimo negli  occhi

    prima che io mi rilassassi.

    «Sai,  tesoro,  devi proprio rassegnarti. Non sei affatto il mio tipo»

    gli dissi,  ma nel mio sangue c'era un fiotto di adrenalina e avevo la

    voce roca.

    «Quando  verrà il momento di farti il culo,  userò questa» ribatté lui

    sollevando l'automatica e sogghignò.

    Facemmo colazione prima dell'alba e io portai sul ponte la  mia  tazza

    di  caffè  per berla mentre risalivamo il canale verso il mare aperto.

    Materson era sotto coperta e Guthrie era  abbandonato  sul  sedile  da

    pesca.  Jimmy era in piedi accanto a me e mi esponeva le richieste del

    giorno.

    Era teso dall'eccitazione, pareva che fremesse come un giovane cane da

    caccia che ha appena fiutato la selvaggina.

    «Voglio prendere  rilevamenti  delle  cime  dei  Tre  Vecchi»  spiegò.

    «Voglio usare la sua bussola da polso e dovrò ricorrere al suo aiuto.»

    «Mi  dia le coordinate,  Jim,  io farò il punto e la porterò sul posto

    giusto» ribattei.

    «Facciamo a modo mio,  comandante»  ribatté  lui  imbarazzato,  e  nel

    rispondere non potei reprimere un moto d'irritazione.

    «D'accordo,   allora,  boy-scout.»  Lui  arrossì  e  si  diresse  alla

    ringhiera di babordo per osservare le cime attraverso la  lente  della

    bussola.  Passarono  all'incirca  dieci  minuti  prima che parlasse di

    nuovo.

    «Possiamo virare di due gradi a babordo, ora, comandante?»

    «Certo che possiamo» gli replicai sorridendo «ma questo ci  porterebbe

    dritti  filati  a fracassarci all'estremità di Gunfire Reef e la barca

    si sfonderebbe.»

    Ci vollero altre due ore di brancolamenti nel  labirinto  di  barriere

    prima  che  riuscissi  a  portare  il  "Dancer"  fino  in  mare aperto

    attraverso il canale e fare il giro all'indietro per accostarmi da est

    a Gunfire Reef.

    Era come giocare a nascondino: Jimmy gridava "fuoco" o  "acqua"  senza

    fornirmi  le  due  coordinate che mi avrebbero permesso di condurre il

    "Dancer" sul punto preciso che stava cercando.

    Qui al largo le onde marciavano in processione maestosa  verso  terra,

    diventando  più  alte  e  minacciose man mano che il fondo saliva.  Il

    "Dancer" rollava e dondolava mentre puntavamo sulla barriera esterna.

    Nel punto in cui le onde incontravano la barriera di corallo,  la loro

    dignità si trasformava in furia improvvisa, ribollivano ed esplodevano

    in  giganteschi  spruzzi  di schiuma,  riversandosi selvaggiamente sul

    corallo con  la  forza  esplosiva  dell'impatto.  Poi  si  ritiravano,

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    scoprendo  le  terribili  zanne nere,  in una cascata d'acqua bianca e

    spumeggiante che si rovesciava dalla barriera,  mentre l'onda seguente

    muoveva all'attacco, incurvando il grande dorso liscio per il prossimo

    assalto.

    Jimmy  mi  faceva  dirigere  costantemente a sud,  lungo una rotta che

    convergeva gradualmente con la barriera,  e intuii che  eravamo  molto

    vicini  al  suo  obiettivo.  Sbirciava  con  impazienza  attraverso la

    bussola, prima l'una e poi l'altra vetta dei Tre Vecchi.

    «Avanti così, comandante» esclamò. «La faccia avanzare piano su quella

    rotta.»

    Io guardai avanti,  distogliendo  per  pochi  istanti  gli  occhi  dal

    corallo   minaccioso,   e   osservai   l'onda  successiva  caricare  e

    infrangersi...  tranne che in un punto stretto,  cinquecento metri più

    avanti. Qui il frangente manteneva la sua forma e continuava a correre

    senza ostacoli verso terra.  Ai lati la cresta si rompeva sul corallo,

    ma in quell'unico punto c'era un varco.

    A un tratto mi ricordai le vanterie di Chubby.

    "Avevo appena diciannove anni quando tirai fuori  dalla  tana  il  mio

    primo pesce a Gunfire Break.  Nessun altro voleva venire a pescare con

    me...  non posso dire di biasimarli.  Non ci  tornerei  nemmeno  io...

    adesso ho un po' più di cervello."

    Gunfire Break... di colpo capii che era lì che eravamo diretti. Tentai

    di  ricordare  con  precisione  che  cosa  mi  aveva  detto  Chubby in

    proposito.

    "Se entri dalla parte del mare circa due  ore  prima  dell'alta  marea

    punta verso il centro del varco,  finché non arrivi all'altezza di una

    grossa vecchia testa di corallo a tribordo,  la riconoscerai quando la

    vedi;  passaci più vicino che puoi e poi accosta tutto a tribordo e ti

    ritroverai in un grosso tratto profondo  nascosto  proprio  dietro  la

    barriera  principale.  Più  resti  al  riparo della barriera meglio è,

    amico..." Mi pareva quasi di vederlo, Chubby,  nella sua fase loquace,

    al  pub  del Lord Nelson,  che si vantava di essere uno dei pochissimi

    uomini che fossero passati da  Gunfire  Break.  "Non  c'è  ancora  che

    tenga,  laggiù, devi stare ai remi per rimanere al centro del varco...

    la fossa di Gunfire Break è profonda, amico, altro che,  ma i pesci là

    dentro  sono  grossi,  enormi.  Un giorno ne ho presi quattro e il più

    piccolo pesava duecento chili.  Avrei potuto prenderne di più,  ma  il

    tempo  era  scaduto.  A Gunfire Break non si può restare più di un'ora

    dopo l'alta marea...  l'acqua viene risucchiata  attraverso  il  varco

    come se togliessero un tappo a tutto il maledetto mare.  Si esce dalla

    stessa via per cui si entra,  solo che all'uscita devi pregare un  po'

    più  forte...  perché  hai una tonnellata di pesce a bordo e tre metri

    d'acqua  in  meno  sotto  la  chiglia.   C'è  un'altra  via  d'uscita,

    attraverso  un  canale  sul  retro  della scogliera.  Ma di quella non

    voglio nemmeno parlare. L'ho tentata una volta sola."

    Ora stavamo puntando direttamente sul varco,  Jimmy ci stava  portando

    proprio tra le fauci del Break.

    «Okay,  Jim»  gridai.  «Fine della corsa.» Aprii la manetta e presi il

    largo, prima di girarmi per fronteggiare la collera di Jimmy.

    «C'eravamo quasi, accidenti a lei» gridò con violenza. «Avremmo potuto

    avvicinarci un po' di più.»

    «Hai dei problemi lassù, ragazzo?» gridò Guthrie dal ponte di poppa.

    «No,  va tutto bene» gridò di rimando Jimmy e  poi  si  rivolse  a  me

    inferocito. «Lei è sotto contratto, signor Fletcher...»

    «Voglio mostrarle una cosa,  James...» e lo portai al tavolo di rotta.

    Il punto era segnalato sulla carta nautica  dell'Ammiragliato  con  un

    solo  scandaglio laconico di cinquantaquattro metri: non c'erano né il

    nome né istruzioni per la navigazione.  In un attimo aggiunsi a matita

    i  rilevamenti  delle due vette estreme dei Tre Vecchi dal varco e poi

    usai il goniometro per misurare l'angolo che sottendevano.

    «Esatto?» gli chiesi, e lui fissò le mie cifre.

    «E' giusto, vero?» insistetti, e lui annuì riluttante.

    «Sì, il posto è questo» ammise,  e io seguitai a descrivergli il Break

    in tutti i dettagli.

    «Ma dobbiamo entrare di lì» disse lui alla fine del mio discorso, come

    se non ne avesse sentito nemmeno una parola.

    «Non c'è niente da fare» risposi.  «L'unico posto che m'interessa, ora

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    come ora,  è il porto grande dell'isola  di  Saint  Mary»  e  misi  il

    "Dancer"  su  quella  rotta:  Per  quanto mi riguardava l'ingaggio era

    finito.

    Jimmy scomparve giù per la scaletta e tornò pochi minuti  dopo  con  i

    rinforzi, Materson e Guthrie, entrambi infuriati e offesi.

    «Di'  soltanto una parola,  e io stacco il braccio a questo bastardo e

    glielo spezzo sulla testa» disse Mike Guthrie, pregustando la scena.

    «Il ragazzo dice che lei si tira  indietro»  incalzò  Materson.  «Ora,

    questo non va... mi spiego?»

    Illustrai  ancora  una  volta  i  rischi  di  Gunfire  Break e loro si

    calmarono all'istante.

    «Mi porti più vicino che può... il resto della strada lo farò a nuoto»

    propose Jimmy, ma io risposi direttamente a Materson.

    «Lo perderebbe, questo è poco ma sicuro. Vuole correre il rischio?»

    Lui non rispose, ma intuii che per loro Jimmy era troppo prezioso.

    «Mi lasci provare» insistette  Jimmy,  ma  Materson  scosse  la  testa

    irritato.

    «Se  non  possiamo  passare dal varco,  mi lasci almeno fare una corsa

    lungo la barriera con la slitta» riprese Jimmy,  e  allora  capii  che

    cosa c'era sotto l'involto di tela sul ponte di prua.

    «Solo  un  paio  di  passaggi lungo il bordo anteriore della barriera,

    oltre l'ingresso del varco.» Ora  stava  supplicando,  e  Materson  mi

    guardò con aria interrogativa. Non capita spesso di vedersi offrire su

    un  piatto  d'argento  occasioni  del genere.  Sapevo che avrei potuto

    portare il "Dancer" a un tiro di sputo dal corallo senza pericolo,  ma

    corrugai la fronte con aria preoccupata.

    «Correrei  un'infinità di rischi...  ma se potessimo accordarci su una

    piccola indennità...»

    Avevo Materson in pugno e gli  estorsi  un  giorno  in  più  di  nolo,

    cinquecento dollari, pagamento anticipato.

    Mentre  noi  concludevamo  l'affare,  Guthrie aiutava Jimmy a liberare

    dall'involucro la slitta e a trasportarla fino al ponte di poppa.

    Io intascai il mio rotolo di banconote e andai a sistemare i  cavi  da

    traino.  La slitta era un toboga ben costruito di acciaio inossidabile

    e plastica.  Al posto dei pattini da neve  aveva  delle  tozze  alette

    direzionali,  timone e stabilizzatori,  manovrati da una corta leva di

    comando posta sotto lo schermo di perspex del pilota.

    Il muso era munito di un anello per accogliere il cavo da  traino  col

    quale  avrei  rimorchiato  la  slitta  nella scia del "Dancer".  Jimmy

    doveva stendersi bocconi dietro  lo  schermo  trasparente,  respirando

    aria  compressa  dai  due  serbatoi  gemelli inseriti nel telaio della

    slitta. Sul cruscotto c'erano indicatori di profondità e di pressione,

    bussola direzionale e cronometro. Con la barra di comando Jimmy poteva

    controllare la  profondità  d'immersione  della  slitta  e  deviare  a

    sinistra o a destra rispetto alla poppa del Dancer.

    «Un vero gioiellino» osservai, e lui arrossi di piacere.

    «Grazie, comandante, l'ho costruito con le mie mani.» Stava indossando

    la  spessa  muta di neoprene nero e mentre aveva la testa infilata nel

    cappuccio aderente io mi chinai a esaminare  il  marchio  di  fabbrica

    fissato al telaio della slitta mandando a memoria la scritta.

    NORTH'S UNDERWATER WORLD

    5, PAVILION ARCADE

    BRIGHTON - SUSSEX

    Mi  raddrizzai  proprio  mentre il suo viso spuntava dall'apertura del

    cappuccio.

    «Cinque nodi è  una  buona  velocità  di  traino,  comandante.  Se  si

    manterrà  a  cento metri dalla scogliera,  potrò deviare all'esterno e

    seguire il contorno del corallo.»

    «Benissimo, Jim.»

    «Se mando in superficie un segnale giallo,  lo ignori,  indica solo un

    ritrovamento  e  ci  torneremo più tardi...  ma se ne mando uno rosso,

    allora sono nei guai,  cerchi di allontanarsi dalla barriera e mi tiri

    su a bordo.»

    Annuii.  «Ha  tre ore» lo avvisai.  «Poi la marea comincerà a defluire

    dal varco e dovremo filarcela.»

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    «Dovrebbe bastare» convenne.

    Guthrie e io sollevammo oltre la murata la slitta, che s'immerse bassa

    nell'acqua. Jimmy si calò e prese posto dietro lo schermo,  provando i

    comandi,  sistemandosi  la  maschera  e  il boccaglio del respiratore.

    Respirò rumorosamente e poi alzò i pollici.

    Io salii svelto sul ponte  e  aprii  le  manette.  Il  "Dancer"  prese

    velocità  e  Guthrie filò da poppa lo spesso cavo di nylon,  mentre la

    slitta  si  allontanava   alle   nostre   spalle.   Se   ne   andarono

    centocinquanta  metri  di  gomena,  prima  che  la slitta risalisse in

    superficie e cominciasse a seguirci.

    Jimmy agitò la mano,  e io spinsi il "Dancer" a una velocità  costante

    di  cinque  nodi.  Descrissi  ampi  circoli,  poi  accostai  verso  la

    barriera,  affrontando le grosse ondate  al  traverso,  tanto  che  il

    "Dancer" rollava pericolosamente.

    Jimmy  agitò di nuovo la mano e lo vidi spingere in avanti la barra di

    comando centrale della slitta.  Ci fu uno spumeggiare d'acqua lungo le

    alette direzionali,  poi a un tratto il veicolo puntò il muso in giù e

    affondò in fretta sotto la superficie. L'angolazione del cavo di nylon

    cambiò rapidamente via via  che  la  slitta  scendeva  e  poi  deviava

    nettamente verso la barriera.

    La tensione impressa al cavo lo faceva vibrare come una freccia quando

    colpisce il bersaglio, sprizzando acqua dalle fibre.

    Correvamo lentamente in direzione parallela alla barriera, passando di

    fronte al varco.  Io osservavo il corallo con rispetto,  senza correre

    rischi,  e  immaginavo  Jimmy,  sotto  la  superficie,  che  scivolava

    silenzioso  sul  fondo,  deviando  per  rasentare  l'alta  muraglia di

    corallo sottomarino.  Doveva essere una  sensazione  esaltante,  e  lo

    invidiai,  ripromettendomi  di scroccare una corsa sulla slitta appena

    se ne fosse presentata l'occasione.

    Arrivammo all'altezza del passaggio,  lo superammo  e  proprio  allora

    sentii Guthrie gridare.

    Lanciai subito un'occhiata verso poppa e vidi il grosso pallone giallo

    sobbalzare sulla nostra scia.

    «Ha trovato qualcosa» urlò Guthrie.

    Per  segnalare  la  posizione,  Jimmy  aveva  mollato una sottile fune

    piombata e una lampadina a scintilla aveva gonfiato automaticamente il

    pallone giallo di diossido di carbonio.

    Io continuai a procedere a velocità costante  lungo  la  scogliera,  e

    quattrocento metri più avanti l'angolo del cavo di traino diminuì e la

    slitta sbucò in superficie in un ribollire d'acqua.

    Deviai  allontanandomi  dalla  scogliera a distanza di sicurezza e poi

    scesi per aiutare Guthrie a recuperare la slitta.

    Jimmy si arrampicò sul ponte di poppa e quando si tolse la maschera le

    labbra gli tremavano e gli occhi grigi scintillavano.  Prese  Materson

    per  un  braccio e lo trascinò nella cabina,  allagando il ponte tanto

    amato da Chubby.

    Guthrie e io addugliammo il cavo,  poi issammo la slitta sul ponte  di

    poppa. Io tornai sul ponte di comando e guidai il "Dancer" in un lento

    ritorno verso l'ingresso di Gunfire Break.

    Materson  e  Jimmy  risalirono  sul  ponte  prima  che ci arrivassimo.

    Materson era stato contagiato dall'eccitazione di Jimmy.

    «Il ragazzo vuole tentare il recupero di un oggetto.» La sapevo troppo

    lunga per chiedere di che si trattava.

    «Di quali dimensioni?» chiesi invece,  guardando  l'orologio.  Avevamo

    un'ora  e  mezzo  prima che la marea cominciasse a defluire turbolenta

    dal passaggio.

    «Non molto grande» mi assicurò  Jimmy.  «Al  massimo  una  ventina  di

    chili.»

    «Sicuro,  James?  Non di più?» Non ero certo che il suo entusiasmo non

    minimizzasse lo sforzo necessario.

    «Lo giuro.»

    «Vuole assicurarci un galleggiante?»

    «Sì,  lo solleverò con un galleggiante per poi trainarlo lontano dalla

    barriera.»

    Feci  indietreggiare  con  cautela il "Dancer" verso il pallone giallo

    che scherzava spensierato fra le irose mascelle di corallo del Break.

    «Più avanti non vado» gridai  rivolto  al  ponte  di  poppa,  e  Jimmy

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    accettò con un cenno della mano.

    Con  l'andatura  goffa  di  un'anitra  si  diresse  a  poppa e sistemò

    l'attrezzatura.  Aveva preso due galleggianti,  più la coperta di tela

    della slitta, e si era assicurato al cavo di nylon.

    Lo  vidi  rilevare  la  posizione del segnale giallo con la bussola da

    polso,  poi alzò ancora una volta gli occhi  verso  di  me,  prima  di

    saltare all'indietro e sparire.

    Il  suo  respiro  regolare  esplose  sotto  la poppa in un'eruzione di

    bollicine bianche, poi cominciò a muoversi verso la barriera.  Guthrie

    filò il cavo dietro di lui.

    Manovrando  le  macchine  io mantenevo il "Dancer" in posizione,  a un

    centinaio di metri dalla punta meridionale del Break.

    Lentamente le bollicine di Jimmy si avvicinarono al segnale  giallo  e

    poi  continuarono  a  infrangersi  contro il pallone.  Stava lavorando

    sott'acqua  e  lo  immaginai  mentre  fissava  i  galleggianti   vuoti

    all'oggetto con le cinghie di nylon.  Sarebbe stato un lavoro ingrato,

    con  il  risucchio  della  corrente  che  gli  strappava  di  mano  le

    voluminose  borse.  Una volta sistemate le cinghie poteva cominciare a

    riempire le sacche con l'aria compressa delle bombole.

    Se la sua valutazione delle dimensioni  era  esatta,  sarebbe  bastato

    gonfiarle di poco per sollevare dal fondo l'oggetto misterioso,  e una

    volta libero potevamo trainarlo  in  una  zona  più  sicura  prima  di

    issarlo a bordo.

    Per  quaranta  minuti  tenni  il  "Dancer" in posizione costante,  poi

    tutt'a un tratto  due  grosse  sfere  verdi  scintillanti  ruppero  la

    superficie  a  poppa.  Le  sacche d'aria erano a galla...  Jimmy aveva

    recuperato la sua preda.

    Subito la sua testa incappucciata affiorò accanto  ai  galleggianti  e

    lui  sollevò  in  alto  il braccio destro.  Il segnale di cominciare a

    trainare.

    «Pronto?» gridai a Guthrie sul ponte di poppa.

    «Pronto!» Aveva assicurato il cavo e io mi allontanai dalla  barriera,

    lentamente  e  con  prudenza  per  evitare  di capovolgere le sacche e

    riversare fuori l'aria che le faceva galleggiare.

    A cinquecento metri dalla barriera,  spensi i motori  del  "Dancer"  e

    andai ad aiutare a issare a bordo il nuotatore e i galleggianti verdi.

    «Resti  dove  si  trova»  ringhiò  Materson  quando  mi avvicinai alla

    scaletta, e io mi strinsi nelle spalle e tornai al timone.

    "All'inferno tutti",  pensai,  accendendomi un sigaro...  ma non potei

    reprimere  un fremito di eccitazione mentre loro facevano accostare le

    sacche alla murata e poi le portavano verso prua.

    Aiutarono Jimmy a salire a bordo e lui  si  scrollò  dalle  spalle  le

    pesanti  bombole  d'aria  compressa,  lasciandole  cadere  sul ponte e

    spingendo la maschera sulla fronte.

    La sua voce,  stridula e  acuta,  mi  arrivò  chiaramente  mentre  ero

    appoggiato al parapetto.

    «Tombola!» gridò.

    «Attento!»   lo  ammonì  Materson;   James  s'interruppe  e  tutti  mi

    guardarono, sollevando il viso verso il ponte.

    «Non fate caso a me, ragazzi» sorrisi agitando allegramente il sigaro.

    Mi voltarono le spalle per confabulare fra loro.  Jimmy bisbigliava  e

    Guthrie  esclamò:  «Gesù  Cristo!»  a voce alta,  assestando una pacca

    sulle spalle di Materson,  poi tutti si  misero  a  schiamazzare  e  a

    ridere  affollandosi  alla  battagliola  e  cominciarono a sollevare a

    bordo le sacche e il loro carico.  Lo fecero goffamente:  il  "Dancer"

    rollava forte e io mi chinai in avanti divorato dalla curiosità.

    La mia delusione e la mia contrarietà furono intense quando mi accorsi

    che  Jimmy  aveva preso la precauzione di avvolgere la sua preda nella

    copertura di tela della slitta.  A bordo era arrivato un fagotto zuppo

    e informe, stretto da rotoli di cavo di nylon.

    Era  pesante,  lo  si intuiva dal modo in cui lo maneggiavano,  ma non

    voluminoso: aveva le dimensioni di una valigetta.

    Lo posarono sul ponte e vi fecero capannello intorno, felici. Materson

    mi sorrise.

    «Okay, Fletcher. Venga a dare un'occhiata.»

    Fu un piano ben congegnato,  lui giocò sulla  mia  curiosità  come  un

    pianista da camera sul pianoforte.  A un tratto mi assalì un desiderio

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    irresistibile di sapere che cosa avevano strappato al mare. Mi piantai

    fra  i  denti  il  sigaro  precipitandomi  giù  per  la   scaletta   e

    affrettandomi verso il gruppo.  Ero a metà del ponte di prua,  proprio

    allo scoperto, e Materson sorrideva ancora quando disse piano: «Ora!».

    Solo allora capii che era un tranello,  e  la  mia  mente  cominciò  a

    muoversi così in fretta che tutto parve avvenire al rallentatore.

    Vidi nel pugno di Guthrie la massa nera e maligna della .45 sollevarsi

    lentamente per mirare al mio ventre.  Mike Guthrie era nella posizione

    classica  del  tiratore,   il  braccio  destro   teso,   e   sorrideva

    socchiudendo gli occhi screziati e mirando lungo la grossa canna.

    Scorsi  il  bel  viso  di  Jimmy North stravolto dall'orrore,  lo vidi

    protendersi per  afferrare  il  braccio  che  teneva  la  pistola,  ma

    Materson,  sempre  sorridendo,  lo  spinse  rudemente  di  lato  e lui

    barcollò, sospinto lontano dal rollio seguente del "Dancer".

    Io riflettevo con straordinaria lucidità  e  prontezza,  non  era  una

    concatenazione di pensieri ma una serie di immagini simultanee. Pensai

    con  quanta precisione mi avevano gettato il laccio,  un colpo da veri

    professionisti.

    Pensai quant'ero stato presuntuoso a tentare di concludere affari  con

    un branco di lupi. Per loro era più facile sparare che trattare.

    Pensai  che  avrebbero  eliminato Jimmy,  ora che aveva assistito alla

    scena.  Quella doveva essere stata la loro intenzione fin dall'inizio.

    Mi dispiaceva. Il ragazzo aveva finito col diventarmi simpatico.

    Pensai  al pesante proiettile esplosivo di piombo tenero sparato dalla

    .45,  a come avrebbe lacerato il bersaglio,  colpendolo con una  forza

    d'urto di novecento chili.

    L'indice  di Guthrie si piegò sul grilletto e io cominciai a lanciarmi

    verso il parapetto accanto a me con il  sigaro  ancora  in  bocca,  ma

    sapevo che era troppo tardi.

    La  pistola  nelle mani di Guthrie sobbalzò e vidi la canna mandare un

    bagliore pallido alla luce del sole.  Il rombo  dell'esplosione  e  la

    pesante  pallottola  di  piombo mi colpirono nello stesso istante.  Il

    frastuono mi assordò,  facendomi scattare la testa all'indietro,  e il

    sigaro  saltò  alto  nell'aria  lasciando  una scia di scintille.  Poi

    l'impatto del proiettile mi fece piegare in due, espellendo l'aria dai

    polmoni,  e mi  tolse  il  terreno  di  sotto  i  piedi,  scagliandomi

    all'indietro finché il parapetto del ponte non mi colpì alle reni.

    Non sentivo dolore,  solo quel terribile choc che m'intontiva.  Era al

    torace, ne ero certo,  e sapevo che doveva avermi aperto uno squarcio.

    Era una ferita mortale,  ero certo anche di questo,  e mi aspettavo di

    perdere  i  sensi.   Mi   aspettavo   di   svenire,   di   precipitare

    nell'oscurità.

    Invece  il  parapetto  mi  colpì  alla schiena e io feci una capriola,

    precipitando a capofitto oltre la murata, e il pronto abbraccio gelido

    del mare mi avvolse.  Mi sentii rinvigorito e aprii  gli  occhi  sulle

    nuvole  argentee  di  bollicine  e  sul verde chiaro della luce solare

    filtrata dalla superficie.

    Avevo i polmoni vuoti,  per effetto  dell'impatto  del  proiettile,  e

    l'istinto mi diceva di salire subito in superficie in cerca d'aria, ma

    sorprendentemente  avevo  ancora  la  mente  lucida  e  capii che Mike

    Guthrie mi avrebbe fatto saltare le cervella non appena fossi salito a

    galla.  Rotolai e m'immersi,  scalciando goffamente,  e scesi sotto lo

    scafo del "Dancer".

    Con  i  polmoni vuoti fu un tragitto interminabile: il ventre liscio e

    bianco del "Dancer" passò lentamente sopra di me e io tirai avanti con

    disperazione, stupito di avere ancora forza nelle gambe.

    A un tratto m'inghiottì il buio, una nuvola soffice, rosso scuro, e io

    fui quasi sopraffatto dal panico,  pensando di aver perso la  vista...

    finché a un tratto non m'accorsi che era il mio sangue.  Enormi nuvole

    fluttuanti di sangue che  macchiavano  l'acqua.  Minuscoli  pesciolini

    zebrati  saettavano alla cieca nella nuvola,  inghiottendo avidamente.

    Allungai un pugno,  ma il braccio  sinistro  non  rispondeva.  Pendeva

    inerte al mio fianco e il sangue si diffondeva intorno a me come fumo.

    Nel  braccio  destro  avevo ancora forza e avanzai,  passando sotto la

    chiglia  del  "Dancer"  e  risalendo  verso  la   lontana   linea   di

    galleggiamento.

    Appena  venni su vidi il cavo da traino di nylon che pendeva da poppa;

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    un doppino penzolava sotto la superficie e io lo  afferrai,  pieno  di

    gratitudine.

    Emersi  sotto  la  poppa  del "Dancer" e aspirai l'aria dolorosamente,

    sentendo i polmoni come intorpiditi;  in bocca l'aria aveva un  sapore

    di rame vecchio, ma la mandai giù.

    Avevo ancora la mente lucida.  Io mi trovavo sotto la poppa, il branco

    di lupi era a prua; la carabina era sotto il portello del motore nella

    cabina principale.

    Mi protesi più su che potevo e mi avvolsi intorno al polso  destro  un

    tratto  del cavo di nylon,  sollevai le ginocchia e posai le punte dei

    piedi  sulla  striscia  ruvida  della  linea  di  galleggiamento   del

    "Dancer".

    Sapevo  di avere forze sufficienti per un solo tentativo,  non di più.

    Dovevo riuscire.  Li sentii gridare fra loro dall'alto della prua,  le

    voci  rese  acute  dall'ira,  ma  li  ignorai  e raccolsi tutte le mie

    riserve di energia.

    Mi tirai su con tutt'e due le gambe e l'unico braccio buono. Lo sforzo

    mi fece vedere le stelle e al posto del petto mi sembrava di avere una

    massa insensibile,  ma riuscii a uscire dall'acqua e caddi di traverso

    sul parapetto di poppa,  restando sospeso lì come un sacco vuoto su un

    recinto di filo spinato.

    Per qualche secondo rimasi disteso,  finché la vista mi si  schiarì  e

    sentii  il  fiotto  caldo  di  sangue  scorrermi  lungo il fianco e il

    ventre. Il fluire del sangue mi galvanizzò.  Mi accorsi di quanto poco

    tempo  avevo  prima  che  l'emorragia  mi  facesse  piombare nel buio.

    Scalciai con forza selvaggia e ruzzolai a capofitto sul  tavolato  del

    ponte  di  poppa,  battendo  la  testa sull'orlo del sedile da pesca e

    lasciandomi sfuggire un grugnito per il nuovo dolore.

    Restai disteso di fianco e detti un'occhiata al mio corpo.  Quello che

    vidi mi terrorizzò: perdevo grosse gocce di sangue denso,  che stavano

    formando una pozza sotto di me.

    Mi aggrappai al ponte,  trascinandomi verso la cabina,  e raggiunsi il

    mancorrente vicino alla porta.

    Con  un  altro  sforzo  immane  mi  tirai in piedi,  aiutandomi con un

    braccio, sorretto da gambe già deboli e molli.

    Lanciai in fretta un'occhiata oltre l'angolo della cabina,  giù  lungo

    il  ponte  di  prua  fino  al  punto  in cui i tre uomini erano ancora

    riuniti.

    Jimmy North stava lottando per affibbiarsi di nuovo  sulle  spalle  le

    bombole  d'aria  compressa;  il  suo  viso era una maschera d'orrore e

    d'indignazione  e  quando  gridò  contro  Materson  la  sua  voce  era

    stridula.

    «Pazzi assassini sanguinari,  andrò giù a trovarlo. Andrò a recuperare

    il suo corpo...  e,  quant'è vero Iddio,  vi vedrò impiccati  tutti  e

    due.»

    Nonostante   le   mie   condizioni  sentii  un  impeto  improvviso  di

    ammirazione per il coraggio del ragazzo.  Non credo che gli fosse  mai

    passato per la testa di essere anche lui sulla lista.

    «E'  stato  un  omicidio,  un  omicidio  a sangue freddo» gridò,  e si

    rivolse al parapetto, sistemandosi la maschera sulla faccia.

    Materson lanciò un'occhiata a Guthrie: il  ragazzo  teneva  le  spalle

    voltate, e lui annuì.

    Tentai di gridare un avvertimento, ma il grido mi si strozzò in gola e

    Guthrie si accostò alle spalle di Jimmy.  Stavolta non commise errori.

    Appoggiò la canna della grossa .45 alla base del cranio di Jimmy e  lo

    sparo fu attutito dal cappuccio di neoprene della muta.

    Il cranio di Jimmy si afflosciò,  frantumato dal passaggio del pesante

    proiettile,  che fuoriuscì dal vetro della maschera da  immersione  in

    una  nuvola di frammenti.  La forza dell'impatto sbalzò Jimmy oltre la

    murata e il corpo cadde in acqua di fianco  alla  nave.  Poi  calò  il

    silenzio, in cui l'eco dello sparo sembrò confondersi con il suono del

    vento e dell'acqua.

    «Andrà  a  fondo»  disse  con  calma  Materson.   «Aveva  una  cintura

    zavorrata...  piuttosto dovremmo  cercare  di  trovare  Fletcher.  Non

    voglio che torni a galla con quel foro di pallottola nel petto.»

    «Ha  schivato...  quel  bastardo  ha  schivato...  non l'ho colpito in

    pieno...  protestò Guthrie,  poi  non  lo  sentii  più.  Le  gambe  mi

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    cedettero  e caddi lungo disteso sul tavolato del ponte di poppa.  Ero

    nauseato dallo choc, dall'orrore e dal rapido defluire del sangue.

    Avevo assistito a un'infinità di morti violente, ma quella di Jimmy mi

    aveva colpito come nessun'altra. A un tratto sentii che c'era una cosa

    sola da fare prima che la morte sopraffacesse anche me.

    Cominciai a strisciare verso il portello della sala macchine. Il ponte

    bianco si stendeva davanti a me come  il  deserto  del  Sahara,  e  io

    cominciavo  a  sentire  la  mano  di  piombo  di un'immensa stanchezza

    posarsi sulla mia spalla.

    Sentii i loro passi sul ponte e il mormorio delle loro  voci.  Stavano

    tornando a poppa.

    «Dieci  secondi,  ti  prego,  Dio»  bisbigliai.  «tutto  quello che mi

    serve.» Ma sapevo che era  inutile.  Sarebbero  entrati  nella  cabina

    molto tempo prima che raggiungessi il portello...  eppure mi trascinai

    disperatamente in quella direzione.

    Poi a un tratto i passi s'interruppero,  mentre le voci  continuavano.

    Si  erano  fermati  a chiacchierare sul ponte e io sentii un'ondata di

    sollievo perché avevo raggiunto il portello del motore.

    Ora lottavo con i cavigliotti. Parevano saldati e mi accorsi di quanto

    fossi debole, ma sentii serpeggiare,  sotto la stanchezza,  il fremito

    rivitalizzante della rabbia.

    Mi contorsi strisciando e sferrai un calcio contro i cavigliotti,  che

    cedettero di colpo.  Misi da parte la debolezza e  mi  sollevai  sulle

    ginocchia.  Mentre  mi  chinavo  sul  portello,  una pioggia di sangue

    fresco cadde sul ponte immacolato.

    «Alla faccia tua,  Chubby»,  pensai incoerentemente,  e feci leva  per

    issare il portello.  Si sollevò con lentezza tormentosa,  pesante come

    piombo,  e sentii le prime fitte lancinanti al petto mentre i  tessuti

    lesi si laceravano.

    Il  portello  ricadde all'indietro con un tonfo sordo e subito le voci

    sul ponte tacquero: me li figurai con le orecchie tese.

    Caddi disteso sul ventre,  frugando febbrilmente sotto coperta,  e  la

    mia mano destra si chiuse sul calcio della carabina.

    «Vieni!»  Si  sentì  un'esclamazione  forte  e  riconobbi  la  voce di

    Materson e subito dopo il martellare di passi in corsa lungo il  ponte

    verso poppa.

    Tirai  stancamente  la  carabina,  ma  sembrava  incastrata ai ganci e

    resisteva ai miei sforzi.

    «Cristo! Il ponte è pieno di sangue» gridò Materson.

    «Fletcher» gli fece eco Guthrie. «E' salito a bordo da poppa.»

    Proprio allora la carabina venne via e io  per  poco  non  la  lasciai

    cadere  nella  sala  macchine,  ma  riuscii  a  trattenerla  il  tempo

    necessario per rotolare al sicuro.

    Mi sedetti con l'arma in grembo e tolsi la sicura col pollice;  sudore

    e  acqua salata mi scorrevano sugli occhi offuscandomi la vista mentre

    tenevo d'occhio l'ingresso della cabina.

    Materson entrò di corsa senza vedermi, poi si fermò e mi fissò a bocca

    aperta.  Aveva il viso rosso per lo sforzo e l'agitazione  e  alzò  le

    mani,  allargandole  davanti  a  sé  in  un  gesto di difesa mentre io

    sollevavo la carabina.  Il diamante che  portava  al  mignolo  ammiccò

    allegro.

    Sollevai la carabina dalle ginocchia con una mano sola,  e il suo peso

    immenso mi atterrì.  Quando  la  canna  fu  puntata  contro  Materson,

    premetti il grilletto.

    Con  un  rombo  fragoroso  e  continuo  la  carabina sputò una raffica

    ininterrotta di pallottole e il  rinculo  spostò  in  alto  la  canna,

    facendo scorrere il torrente di fuoco dall'inguine di Materson su fino

    al ventre e al torace. Lo proiettò all'indietro contro la paratia e lo

    tagliò  in  due  come  il  colpo  di un coltello che sventra un pesce,

    mentre danzava una breve e grottesca danza di morte.

    Sapevo di non dover scaricare la carabina,  c'era ancora Mike  Guthrie

    da sistemare,  ma non ero in grado di allentare la presa sul grilletto

    e  le  pallottole  straziarono  il  corpo  di  Materson,  sfondando  e

    frantumando  il  legname  della  paratia.  Poi a un tratto sollevai il

    dito.  Il torrente di pallottole cessò e Materson cadde di schianto in

    avanti.

    Guthrie  si  tuffò  giù  per  la  scaletta di boccaporto della cabina,

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    accovacciandosi con il braccio destro proteso in fuori,  e mi sparò un

    colpo solo mentre me ne stavo seduto al centro della cabina.

    Aveva  tutto  il  tempo  che voleva per prendere la mira ma lo fece in

    fretta, spaventato e disorientato.  Lo scoppio mi rintronò nei timpani

    e  la  pesante  pallottola  fendette  l'aria  contro  la  mia guancia,

    mancandomi di un soffio. Il rinculo fece scattare in alto la pistola e

    mentre lui l'abbassava per il colpo seguente,  io mi lanciai di lato e

    sollevai la carabina.

    Doveva  esserci  rimasto  un  solo proiettile nella culatta,  ma fu un

    colpo fortunato.  Non presi la  mira,  ma  mi  limitai  a  premere  il

    grilletto mentre la canna si alzava.

    Colpì   Guthrie   nella   piega   del   gomito   destro,   spappolando

    l'articolazione,  e la pistola gli volò all'indietro sopra la  spalla,

    percorse  rimbalzando  il ponte e urtò con un tonfo sugli ombrinali di

    poppa.

    Guthrie piroettò di fianco,  il braccio contorto  in  modo  innaturale

    appeso  all'articolazione rotta,  e nello stesso istante il percussore

    della carabina scattò a vuoto.

    Ci fissammo l'un l'altro,  entrambi  feriti  in  modo  grave,  ma  col

    vecchio antagonismo ancora vivo fra noi. Fu quello a darmi la forza di

    alzarmi sulle ginocchia e dirigermi verso di lui,  lasciando cadere la

    carabina scarica.

    Guthrie grugnì e si allontanò,  stringendosi con  la  mano  valida  il

    braccio spappolato. Barcollò verso la .45 che giaceva negli ombrinali.

    Vidi  che  non  c'era  modo  di  fermarlo.  Non  era  ferito a morte e

    probabilmente sapeva sparare altrettanto bene con la sinistra.  Eppure

    feci  il  mio  ultimo  tentativo  e  mi  trascinai  oltre  il corpo di

    Materson, uscendo sul ponte di poppa proprio mentre Guthrie si chinava

    per raccogliere la pistola.

    Allora il "Dancer" venne in mio aiuto,  impennandosi come  un  cavallo

    selvaggio,  colpito  da  un'onda anomala.  Fece perdere l'equilibrio a

    Guthrie  e  la  pistola  scivolò  via  sul  ponte.  Lui  si  girò  per

    rincorrerla, scivolò nel sangue che avevo versato sul ponte di poppa e

    cadde.

    Piombò  a corpo morto,  inchiodando sotto di sé il braccio fracassato.

    Gridò,  rotolò sulle ginocchia e  cominciò  a  strisciare  rapidamente

    dietro la lucente pistola nera.

    Contro  la  paratia esterna del ponte di poppa le lunghe fiocine erano

    ritte nella loro rastrelliera come una serie di stecche  da  biliardo,

    lunghe  tre  metri,   con  i  grandi  uncini  d'acciaio  all'estremità

    superiore.

    Chubby  aveva  affilato  le  punte  come  stiletti.  Erano  fatte  per

    penetrare a fondo nel corpo di un pesce d'alto mare, e la violenza del

    colpo  faceva  staccare la punta dall'asta.  Allora il pesce si poteva

    tirare a bordo con il tratto di  pesante  cavo  di  nylon  fissato  al

    gancio.

    Guthrie  aveva  quasi raggiunto la pistola quando io abbattei il fermo

    della rastrelliera e tirai giù una delle fiocine.

    Guthrie impugnò la sua pistola  con  la  sinistra,  maneggiandola  con

    destrezza  da  prestigiatore  per  migliorare  la presa,  e mentre lui

    concentrava sull'arma tutta la sua attenzione io mi  risollevai  sulle

    ginocchia e alzai con una mano la fiocina,  bilanciandola bene in alto

    e puntando alla schiena curva di Guthrie.  Appena il gancio si abbassò

    su  di  lui  spinsi  con  forza  la fiocina,  conficcandogliela fra le

    costole per tutta la sua lunghezza,  affondando l'acciaio lucente fino

    alla  curva.  Il  colpo  lo spinse giù sul ponte e ancora una volta la

    pistola gli cadde di mano e il rollio della barca la spinse lontano da

    lui.

    Ora stava gridando,  un lamento acuto da  agonizzante,  con  l'acciaio

    conficcato  a  fondo  nelle carni.  Io spinsi più forte,  con una mano

    sola,  tentando di farla penetrare nel cuore o in  un  polmone,  e  il

    gancio  si staccò dall'asta.  Guthrie rotolò attraverso il ponte verso

    la pistola.  La cercò tentoni,  freneticamente,  e io  lasciai  cadere

    l'asta  della  fiocina e cercai altrettanto freneticamente la fune per

    trattenerlo.

    Una volta avevo visto due lottatrici battersi in una  pozza  di  fango

    nero  in un night-club del quartiere di Saint Pauli ad Amburgo...  ora

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    Guthrie e io recitavamo la stessa  scena,  ma  invece  che  nel  fango

    lottavamo in un bagno di sangue.  Sdrucciolammo e rotolammo sul ponte,

    sbattacchiati senza pietà dal movimento del "Dancer" fra le onde.

    Guthrie finalmente si indeboliva,  aggrappandosi con la mano  sana  al

    grande gancio conficcato nel suo corpo, e al rollio seguente riuscii a

    passargli  intorno  al  collo  un cappio di fune e a ottenere un saldo

    punto d'appoggio puntando un piede contro la base del sedile da pesca.

    Poi tirai con tutta la forza e decisione che mi restavano.

    A un tratto,  con un solo rantolo esplosivo,  la lingua gli uscì dalla

    bocca,  il  corpo  si  rilassò,  le gambe rimasero inerti,  e la testa

    ciondolò avanti e indietro seguendo il rollio del "Dancer".

    Ormai ero esausto al punto da non curarmi più di niente. La mano mi si

    aprì di sua iniziativa e la  fune  mi  sfuggì.  Caddi  all'indietro  e

    chiusi gli occhi. L'oscurità calò su di me come un sudario.

    Quando  ripresi  conoscenza  mi  pareva  di  avere  il  viso ustionato

    dall'acido,  avevo le labbra  gonfie  e  la  sete  infuriava  come  un

    incendio in una foresta.  Ero rimasto disteso supino per sei ore sotto

    il sole tropicale, che mi aveva scottato senza pietà.

    Rotolai adagio su un fianco e mi lamentai debolmente:  il  mio  torace

    era tutto un dolore. Rimasi immobile un po' per lasciarlo placare, poi

    cominciai a esplorare la ferita.

    La  pallottola  era  penetrata  attraverso  il  bicipite  del  braccio

    sinistro, mancando l'osso, ed era fuoruscita dal tricipite, aprendo un

    grosso foro d'uscita. Subito dopo era affondata di lato nel torace.

    Ansimando per lo sforzo individuai e sondai col dito la ferita.  Aveva

    sfiorato  una  costola,  sentivo  che  l'osso  esposto era incrinato e

    frastagliato nel punto in cui il proiettile aveva colpito ed era stato

    deviato,  lasciando schegge di piombo e frammenti d'osso  nella  carne

    maciullata. Era penetrato nel grosso muscolo della schiena... e uscito

    sotto la scapola, dove adesso c'era un foro piuttosto grande.

    Ricaddi all'indietro sul ponte,  ansimando e lottando contro ondate di

    nausea e di vertigine.  La mia esplorazione aveva  fatto  scorrere  di

    nuovo  il  sangue,  ma almeno sapevo che la pallottola non era entrata

    nella cavità del torace. C'era ancora qualche possibilità.

    Mentre riposavo mi guardai intorno con gli occhi annebbiati.  Avevo  i

    capelli  e  gli abiti incrostati di sangue secco,  e il ponte di poppa

    era coperto da uno strato di sangue,  annerito e lucente o vischioso e

    coagulato.

    Guthrie era disteso sulla schiena,  con il gancio della fiocina ancora

    conficcato nel corpo e la corda intorno al collo.  I gas gli si  erano

    già  formati  nel  ventre,  conferendogli  un  aspetto gonfio da donna

    gravida.

    Mi sollevai sulle ginocchia e cominciai  a  strisciare.  Il  corpo  di

    Materson  bloccava per metà l'ingresso della cabina,  squarciato dalle

    pallottole come se fosse stato straziato da un avvoltoio.

    Io lo superai strisciando e  mi  accorsi  di  piagnucolare  forte  nel

    vedere la ghiacciaia dentro il bar.

    Bevvi   tre   lattine   di  Coca-Cola,   ansimando  e  soffocando  per

    l'impazienza, versandomi sul petto la bibita gelata, gemendo e tirando

    su col naso a ogni sorso.  Poi mi distesi di nuovo a riposare,  chiusi

    gli occhi e mi augurai solo di dormire per sempre.

    "Dove  diavolo  sono?"  La  domanda mi colpì come uno choc,  facendomi

    riscuotere.  Il "Dancer" era alla deriva lungo  una  costa  insidiosa,

    disseminata di barriere e di secche.

    Mi  tirai in piedi e raggiunsi il ponte di poppa incrostato di sangue.

    Sotto di  noi  scorreva  il  blu  violaceo  cupo  della  corrente  del

    Mozambico  e  intorno  si stendeva un orizzonte sgombro,  sul quale le

    schiere massicce di nuvole s'innalzavano alte fino al  cielo  azzurro.

    La marea e il vento ci avevano spinti lontano a est, avevamo spazio in

    quantità.

    Le  gambe  mi  cedettero e forse dormii un po'.  Quando mi svegliai mi

    sentivo più lucido, ma la ferita si era irrigidita terribilmente. Ogni

    gesto era un tormento.  A quattro  zampe  raggiunsi  la  doccia,  dove

    tenevo  la  cassetta  del  pronto  soccorso.  Mi  strappai di dosso la

    camicia e versai una soluzione concentrata di acriflavina nelle cavità

    delle ferite.  Poi le tamponai alla bell'e meglio con una  medicazione

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    chirurgica  e assicurai il tutto col cerotto meglio che potevo,  ma lo

    sforzo era stato eccessivo e  mi  abbattei  privo  di  conoscenza  sul

    pavimento di linoleum.

    Mi svegliai con la testa leggera, debole come un neonato.

    Preparare  un'imbracatura per il braccio ferito fu uno sforzo immane e

    il  percorso  fino  al  ponte  fu  un  interminabile  susseguirsi   di

    vertigini, dolore e nausea.

    I motori del "Dancer" si avviarono al primo colpo, dolci come sempre.

    «Portami a casa,  tesoro» bisbigliai,  inserendo il pilota automatico.

    Gli fornii una direzione approssimativa.  Il "Dancer" assunse la rotta

    e  il  buio  m'inghiottì  nuovamente.  Caddi  lungo disteso sul ponte,

    accogliendo a braccia aperte l'oblio che mi sommergeva.

    Forse a riscuotermi fu il cambiamento  del  passo  del  "Dancer".  Non

    calava  né  rollava più all'unisono con le grosse ondate del Canale di

    Mozambico,  ma se ne  andava  tranquillamente  a  spasso  in  un  mare

    riparato. Il crepuscolo scendeva in fretta.

    Rigido, mi trascinai al timone. Feci appena in tempo, perché diritto a

    prua,  nella  luce morente,  s'intravedeva terra.  Chiusi di scatto la

    manetta del "Dancer" e spensi i motori. La barca si sollevò e ondeggiò

    dolcemente nell'acqua bassa.  Riconobbi la sagoma della  terra...  era

    Big Gull Island.

    Avevamo  mancato  il canale del porto grande,  la mia rotta puntava un

    po' troppo a sud,  ed eravamo incappati nel gruppetto più  meridionale

    di minuscoli atolli che formavano l'arcipelago di Saint Mary.

    Aggrappandomi al timone per trovare sostegno sbirciai in avanti.

    L'involto  di  tela era ancora sul ponte di poppa e di colpo capii che

    dovevo sbarazzarmene.  In quel momento le ragioni  non  erano  chiare.

    Avvertii  confusamente  che  era  una  carta alta nel gioco in cui ero

    stato coinvolto.  Sapevo che non avrei osato portarlo in pieno  giorno

    nel porto grande. Già tre uomini erano stati uccisi per questo... e io

    mi  ero fatto spappolare mezzo torace.  Racchiuso in quel telone c'era

    qualche incantesimo potente.

    Impiegai quindici minuti a raggiungere il ponte di prua e  svenni  due

    volte  lungo  il  tragitto.  Quando raggiunsi strisciando l'involto di

    tela singhiozzavo forte a ogni movimento.

    Per un'altra mezz'ora tentai debolmente di svolgere la tela  rigida  e

    sciogliere  i  grossi nodi di nylon.  Con una sola mano e le dita così

    intorpidite e deboli da  non  riuscire  a  chiudersi,  era  un'impresa

    disperata e il buio era sempre in agguato nella mia testa. Avevo paura

    di svenire con l'involto ancora a bordo.

    Disteso sul fianco, sfruttai gli ultimi raggi del sole al tramonto per

    rilevare  le  coordinate  dell'estremità  dell'isola,  prendendo  come

    riferimento un gruppetto di palme e la cima del rilievo...  facendo il

    punto con cura.

    Poi  aprii  la parte mobile della battagliola di prua da cui di solito

    tiravamo a bordo i pesci grossi e trascinai il  fagotto  di  tela,  vi

    misi  sopra  i  piedi e lo spinsi oltre la murata.  Cadde con un tonfo

    pesante e le gocce mi schizzarono in faccia.

    I miei sforzi avevano riaperto le ferite e il sangue fresco  inzuppava

    la  rozza  fasciatura.  Ripresi  la  traversata del ponte ma non ce la

    feci.  Svenni per l'ultima volta appena arrivato in fondo al ponte  di

    poppa.

    Mi svegliarono il sole del mattino e un gracidio roco, ma quando aprii

    gli occhi il sole pareva velato, oscurato come da un'eclisse. La vista

    mi tradiva,  e quando tentai di muovermi non ne ebbi la forza. Giacevo

    schiacciato sotto il peso della debolezza e del  dolore.  Il  "Dancer"

    era  inclinato  in  un  angolo  assurdo,  probabilmente  arenato sulla

    spiaggia.

    Alzai gli occhi sull'alberatura sopra di me.  C'erano tre gabbiani dal

    dorso nero,  grossi come tacchini, posati in fila sulla traversa dello

    straglio.  Torsero il capo di lato per  guardarmi:  avevano  il  becco

    giallo  chiaro  e  potente.  La parte superiore terminava in una punta

    ricurva di un rosso ciliegia vivace. Mi osservavano con gli occhi neri

    lucenti e si lisciavano le penne con impazienza.

    Tentai di gridare per scacciarli ma le mie labbra  si  rifiutarono  di

    muoversi.  Ero completamente indifeso e sapevo che presto mi avrebbero

    attaccato agli occhi. Andavano pazzi per gli occhi.

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    Uno dei gabbiani si fece ardito e allargando le ali  planò  sul  ponte

    accanto  a  me.  Ripiegò  le  ali,  zampettò  un  po'  più vicino e ci

    fissammo.  Tentai ancora di gridare,  ma dalla gola non mi uscì nessun

    suono  e il gabbiano zampettò ancora in avanti,  poi allungò il collo,

    aprì quel becco maligno e lanciò un roco stridio minaccioso. Io sentii

    tutto il mio corpo torturato ritrarsi inorridito.

    A un tratto il tono dei gabbiani che stridevano  cambia  e  l'aria  si

    riempì  del  frullo  delle  loro  ali.  L'uccello  che tenevo d'occhio

    stridette ancora, ma stavolta per la delusione, e si alzò in volo.

    Seguì un lungo silenzio,  mentre giacevo sul ponte coperto di listelli

    duri,  lottando  per respingere le ondate di oscurità che tentavano di

    sopraffarmi.  Poi a un tratto sentii  un  suono  indistinto  lungo  la

    murata.

    Girai  di  nuovo  la  testa  per affrontarlo e in quel momento un viso

    color cioccolato comparve all'altezza del ponte  e  mi  fissò  da  una

    distanza di mezzo metro.

    «Oh Signore!» disse una voce familiare. «E' lei, signor Harry?»

    Più  tardi  seppi  che  Henry Wallace,  un cacciatore di tartarughe di

    Saint Mary,  si  era  accampato  sugli  atolli  e  alzandosi  dal  suo

    pagliericcio  aveva visto il "Wave Dancer" arenato sul banco di sabbia

    della laguna,  con sopra un nugolo di gabbiani che bisticciavano.  Era

    arrivato  a  guado fino al banco e si era arrampicato sulla murata per

    dare un'occhiata al mattatoio che era diventato il ponte di poppa  del

    "Dancer".

    Avrei  voluto  dirgli quant'ero felice di vederlo e promettergli birra

    gratis per il resto della sua vita...  ma invece cominciai a piangere,

    grossi  lacrimoni  che  colavano lenti.  Non avevo nemmeno la forza di

    singhiozzare.

    «Per un graffietto del genere» si stupì MacNab.  «Perché tutte  queste

    storie?» e affondò con decisione la sonda.

    Io rimasi senza fiato mentre combinava qualcos'altro alla mia schiena;

    se  ne  avessi  avuto la forza sarei sceso dal lettino dell'ospedale e

    gli avrei ficcato quella sonda dove ritenevo che in quel momento fosse

    il posto più appropriato. Invece gemetti piano.

    «Suvvia,  dottore.  Non le hanno insegnato niente sulla morfina e roba

    del genere, al tempo in cui avrebbero dovuto negarle la laurea?»

    MacNab  fece  il  giro  del  lettino  per  guardarmi  in  faccia.  Era

    grassoccio e congestionato in viso, sulla cinquantina, con i capelli e

    i  baffi  brizzolati.   Il  suo  fiato  avrebbe  potuto  servirmi   da

    anestetico.

    «Harry,  ragazzo  mio,  quella roba costa cara...  comunque,  lei è un

    paziente della mutua o un cliente privato?»

    «Ho appena cambiato condizione... sono un cliente privato.»

    «E ha fatto benissimo» approvò MacNab.  «Un  uomo  col  suo  prestigio

    nella comunità» e accennò col capo all'infermiera.  «Benissimo allora,

    mia cara,  somministri al signor Harry un grano di morfina  prima  che

    procediamo.» Mentre aspettava che lei preparasse l'iniezione seguitò a

    risollevarmi il morale. «Ieri sera le abbiamo messo in corpo tre litri

    di sangue, era proprio rimasto a secco. L'ha bevuto come una spugna.»

    Be', non si può pretendere che a Saint Mary eserciti un luminare della

    scienza  medica.  Ero  tentato  di  prestar fede alle voci secondo cui

    MacNab era in società con l'agenzia di pompe funebri di Fred Coker.

    «Quanto tempo ha intenzione di tenermi qui, dottore?»

    «Non più di un mese.»

    «Un mese?» Lottai per tirarmi a sedere e due infermiere si  lanciarono

    su  di  me  per  trattenermi,  cosa che non richiese un grande sforzo.

    Riuscii a malapena a sollevare la testa. «Non posso permettermelo. Mio

    Dio,  siamo proprio nel pieno della stagione.  Ho un nuovo cliente che

    arriva la prossima settimana...»

    L'infermiera si affrettò con la siringa.

    «...  Sta  cercando di rovinarmi?  Non posso permettermi di perdere un

    solo cliente...»

    L'infermiera mi colpì con l'ago.

    «Harry,  vecchio mio,  la stagione  può  scordarsela.  Non  tornerà  a

    pescare»  e  riprese a estirparmi pezzetti d'osso e schegge di piombo,

    zufolando allegramente in sordina.  La morfina attutiva il dolore,  ma

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    non  la  mia  disperazione.  Se  il "Dancer" e io perdevamo metà della

    stagione non avremmo proprio potuto tirare avanti. Ancora una volta mi

    avevano ridotto sul lastrico. Dio, come odiavo il denaro.

    MacNab mi avvolse in bende bianche e aggiunse l'ultimo tocco al quadro

    radioso del mio futuro.

    «Mio caro Harry,  lei perderà in parte  l'uso  del  braccio  sinistro.

    Probabilmente sarà sempre un po' rigido e debole, e le resterà qualche

    bella  cicatrice da mostrare alle ragazze.» Finì di sistemare la benda

    e si rivolse all'infermiera.  «Cambi  la  medicazione  ogni  sei  ore,

    spennelli  la  zona  con Eusol e gli dia la solita dose di aureomicina

    ogni quattro ore.  Stasera tre Mogadon e domani  passerò  a  visitarlo

    facendo  il  giro  delle  corsie.»  Si  volse a sorridermi con i denti

    guasti sotto i baffi grigi arruffati.  «Fuori della porta c'è tutto il

    corpo  di polizia che aspetta.  Ora dovrò lasciarli entrare.» Si avviò

    alla porta, poi si fermò per ridacchiare di nuovo. «Li ha conciati per

    le feste,  quei due,  infilzandoli con  la  fiocina  come  polli  allo

    spiedo. Ben fatto, mio caro Harry.»

    L'ispettore  Daly  era inguainato in un'impeccabile divisa color kaki,

    inamidata e immacolata,  e cinturone e bandoliere  di  cuoio  parevano

    tirati a specchio.

    «Buonasera,   signor   Fletcher.   Sono   venuto  a  stendere  la  sua

    deposizione. Spero che si senta abbastanza in forze.»

    «Mi sento d'incanto, ispettore.  Non c'è niente come una pallottola in

    corpo per rimettere uno in sesto.»

    Daly  si rivolse all'agente che lo seguiva e gli accennò di portare la

    sedia accanto al letto;  mentre lui si sedeva e metteva a  portata  di

    mano il blocco,  l'agente mi disse piano: «Mi spiace vederla in questo

    stato, signor Harry.»

    «Grazie, Wally, ma avresti dovuto vedere gli altri.»

    Wally era nipote di Chubby e sua madre mi faceva il bucato. Era un bel

    giovanottone scuro di pelle e forte come un toro.

    «Li ho visti» rispose con un sorriso. «Accidenti!»

    «Se lei è pronto,  signor Fletcher»  interloquì  Daly,  seccato  dallo

    scambio di battute «possiamo procedere.»

    «Spari  pure»  dissi  io: avevo già la mia storia bell'e pronta.  Come

    tutte le buone storie,  era la pura e sacrosanta verità,  con  qualche

    omissione.  Non  accennai  alla preda che James North aveva portato in

    superficie e che io avevo ributtato in mare al largo di Big Gull... né

    rivelai a Daly in quale punto avevamo condotto le ricerche. Lui voleva

    saperlo, naturalmente. Continuava a battere su quel tasto.

    «Che cosa stavano cercando?»

    «Non ne ho idea. Stavano bene attenti a non farmelo capire.»

    «Dov'è successo tutto questo?» insistette.

    «Nel braccio di mare oltre Herring Bone Reef, a sud di Rastafa Point.»

    «Saprebbe riconoscere il punto esatto in cui si sono immersi?»

    «Non credo,  perlomeno non senza uno scarto di alcune miglia.  Io  non

    facevo che seguire le istruzioni.»

    Per la frustrazione, Daly si tormentò con i denti i baffi serici.

    «D'accordo,  lei  afferma  che l'hanno aggredita senza preavviso» e io

    annuii. «Perché l'hanno fatto...  E perché avrebbero dovuto tentare di

    ucciderla?»

    «Per la verità non ne abbiamo mai discusso.  Non ho avuto occasione di

    chiederglielo.» Cominciavo a sentirmi di nuovo esausto e debole e  non

    volevo  continuare  a  parlare,  per  paura  di  commettere un errore.

    «Quando Guthrie ha cominciato a spararmi addosso con quel cannone, non

    mi è sembrato che avesse voglia di fare due chiacchiere.»

    «Questo non è uno scherzo, Fletcher» ribatté lui seccato,  e io suonai

    il campanello accanto al letto.  L'infermiera doveva essere rimasta in

    attesa proprio dietro la porta.

    «Infermiera, mi sento male.»

    «Ora deve andare,  ispettore.» La ragazza affrontò come una chioccia i

    due  poliziotti  e li condusse via dalla corsia.  Poi tornò indietro a

    sistemarmi i cuscini.

    Era un cosino molto grazioso,  con enormi occhi scuri,  e la sua  vita

    sottile  era  circondata  da  una  cintura stretta che sottolineava il

    petto florido e ben  modellato,  sul  quale  spiccavano  distintivi  e

    medaglie.   Lucidi  riccioli  castani  le  sfuggivano  dal  berrettino

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    impertinente.

    «Posso sapere il suo nome, infermiera?» bisbigliai con voce roca.

    «May.»

    «Com'è che non l'ho mai vista in giro?» chiesi mentre si  chinava  sul

    mio letto per rimboccarmi le lenzuola.

    «Si vede che non aveva gli occhi aperti, signor Harry.»

    «Be',  ora  li  ho  aperti.»  Il davanti della fresca camicetta bianca

    dell'uniforme era a pochi centimetri dal mio naso. Lei si raddrizzò in

    fretta.

    «Qui dicono di lei che è un vero demonio» ribatté.  «Ora  so  che  non

    raccontano  frottole.»  Ma sorrideva.  «Ora dorma.  Deve rimettersi in

    forze.»

    «Sì, ne riparleremo» risposi, e lei rise forte.

    Nei tre giorni seguenti ebbi parecchio tempo  per  riflettere,  perché

    non   erano   ammessi  visitatori  finché  non  fosse  stata  conclusa

    l'inchiesta ufficiale.  Daly teneva un agente di guardia  fuori  della

    mia  camera  e  non  c'erano dubbi sul fatto che ero stato accusato di

    omicidio premeditato.

    Avevo una stanza fresca e piena di luce,  con una splendida vista  sui

    prati  e sugli alti alberi di banano dalle foglie scure,  e ancora più

    in là sulle imponenti mura di pietra del forte, con i cannoni disposti

    lungo i bastioni.  Il vitto era ottimo con una quantità di pesce e  di

    frutta,  e  May  ed  io  stavamo diventando buoni,  se non addirittura

    intimi,  amici.  Mi procurò perfino di contrabbando una  bottiglia  di

    Chivas Regal,  che tenevamo nascosta nella padella. Da lei appresi che

    tutta l'isola era in subbuglio per il  carico  che  il  "Wave  Dancer"

    aveva riportato nel porto grande. Mi riferì che il giorno dopo avevano

    seppellito Materson e Guthrie nel vecchio cimitero.  I cadaveri non si

    conservano a lungo, a quelle latitudini.

    In quei tre giorni decisi che l'involto che avevo gettato in  mare  al

    largo  di  Big Gull doveva restare lì.  Intuivo che d'ora in poi avrei

    avuto addosso molti occhi ed ero in netto svantaggio.  Io  non  sapevo

    chi  fosse  in  osservazione  e  non sapevo perché.  Mi sarei defilato

    finché non avessi scoperto da quale parte poteva arrivare la  prossima

    pallottola.   Il  gioco  non  mi  piaceva.  Loro  potevano  eliminarmi

    facilmente,  e io mi sarei dovuto attenere a una linea di condotta che

    rientrasse nelle mie possibilità.

    Pensai  molto  anche  a  Jimmy  North,  e  ogni  volta  che mi sentivo

    addolorato senza motivo cercavo di convincermi che  era  un  estraneo,

    che per me non significava niente ma non ci riuscivo. Questa è una mia

    debolezza  da  cui ho sempre dovuto difendermi.  Mi lascio coinvolgere

    emotivamente con troppa facilità. Per evitare complicazioni,  tento di

    andare  avanti da solo,  e dopo anni di pratica ho raggiunto una certa

    abilità.  E' raro,  di questi tempi,  che qualcuno riesca a  penetrare

    nella mia corazza come aveva fatto Jimmy North.

    Il  terzo  giorno  mi  sentii molto più forte.  Potevo mettermi seduto

    senza assistenza e senza soffrire troppo.

    L'inchiesta ufficiale si tenne nella mia  stanza  d'ospedale.  Fu  una

    seduta  a  porte  chiuse,  cui  presenziarono  solo  i  capi  dei rami

    legislativo, giudiziario ed esecutivo del governo di Saint Mary.

    Il presidente in persona, vestito come sempre in nero, con una camicia

    bianca e un'aureola di capelli  candidi  intorno  alla  testa  pelata,

    presiedeva la seduta.  Lo assisteva il giudice Harkness, alto, sottile

    e  brunito  dal  sole  fino  ad  assumere  un  color  mogano,   mentre

    l'ispettore Daly rappresentava l'esecutivo.

    Il  primo  pensiero  del  presidente  fu per il mio benessere e il mio

    stato di salute. Ero uno dei suoi ragazzi.

    «E' sicuro di non sentirsi stanco adesso, signor Harry? Qualunque cosa

    lei voglia, non deve che chiederla, capito?  Siamo venuti qui solo per

    ascoltare  la  sua  versione,  ma  desidero  dirle  fin  d'ora  di non

    preoccuparsi. Non le succederà niente.»

    L'ispettore  Daly  assunse  un'aria   afflitta,   vedendo   dichiarare

    innocente  il  suo  prigioniero  prima  ancora  che  fosse iniziato il

    processo.

    Così ripetei  la  mia  storia,  col  presidente  che  faceva  commenti

    incoraggianti o ammirati ogni volta che mi fermavo a riprendere fiato,

    e quando finii scosse la testa in segno di meraviglia.

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    «Tutto  quel  che posso dire,  signor Harry,  è che non sono molti gli

    uomini che avrebbero avuto la forza e il coraggio di fare  quello  che

    ha fatto lei contro quei delinquenti, non è vero, signori?»

    Il giudice Harkness ne convenne di cuore, ma l'ispettore Daly non aprì

    bocca.

    «Ed  erano  autentici  gangster»  aggiunse  il  presidente.   «Abbiamo

    trasmesso a Londra le loro impronte e oggi abbiamo saputo  che  quegli

    uomini  erano  venuti  qui  sotto falso nome ed erano ben conosciuti a

    Scotland Yard. Gangster, tutti e due.» Il presidente guardò il giudice

    Harkness. «Qualche domanda, giudice?»

    «Non credo, signor presidente.»

    «Bene.» Il presidente annuì con aria giuliva. «E lei, ispettore?» Daly

    esibì una lista dattiloscritta.  Il presidente non fece nessuno sforzo

    per nascondere la sua irritazione.

    «Il  signor Fletcher è ancora convalescente.  Spero che le sue domande

    siano davvero importanti.»

    L'ispettore Daly esitò e il presidente proseguì in tono brusco: «Bene,

    allora siamo tutti d'accordo.  Il verdetto è di morte accidentale.  Il

    signor  Fletcher  ha  agito  per  legittima  difesa e di conseguenza è

    prosciolto da ogni imputazione.  Non gli verrà mossa nessuna  accusa».

    Si rivolse al cancelliere nell'angolo.  «Ha scritto tutto?  La batta a

    macchina e ne mandi una copia al mio ufficio per la firma.» Si alzò  e

    si  avvicinò  al  mio capezzale.  «Ora si rimetta alla svelta,  signor

    Harry.  La aspetto  a  cena  al  palazzo  del  Governo,  appena  starà

    abbastanza  bene.  La  mia  segretaria  le  manderà un invito formale.

    Voglio sentire di nuovo tutta la storia.»

    La prossima volta che comparirò davanti a una giuria,  come certamente

    avverrà,  spero di ottenere la stessa considerazione. Poiché ero stato

    riconosciuto ufficialmente innocente  mi  fu  consentito  di  ricevere

    visite.

    Chubby  e  la  sua  signora vennero insieme,  addobbati coi loro abiti

    migliori. Conoscendo il mio debole,  la signora Chubby aveva preparato

    una delle sue splendide torte di banane.

    Chubby  era diviso fra il sollievo nel rivedermi vivo e l'indignazione

    per i danni che avevo inflitto al "Wave Dancer".  Mi fulminò  col  suo

    cipiglio feroce, cominciando a snocciolarmi le sue lamentele.

    «Non  ci  sarà  mai  verso  di  far  tornare  pulito quel ponte.  Si è

    impregnato  proprio,   amico.   E  quella  tua  dannata  carabina   ha

    sbriciolato  la paratia della cabina.  Io e Angelo ci stiamo lavorando

    da tre giorni, ormai, e ce ne vorranno ancora parecchi.»

    «Mi spiace,  Chubby,  la prossima volta che sparo a qualcuno prima  lo

    metterò  sull'attenti  vicino  al parapetto.» Sapevo che quando Chubby

    avesse finito le riparazioni il danno non si sarebbe notato.

    «Quando esci,  comunque?  Laggiù sulla corrente c'è un gran viavai  di

    pesci grossi, Harry.»

    «Sarò fuori molto presto, Chubby. Fra una settimana al massimo.»

    Chubby  sbuffò.  «Hai sentito che Fred Coker ha annullato tutti i tuoi

    ingaggi per il resto della  stagione?  Ha  detto  che  eri  gravemente

    ferito e ha passato le prenotazioni al signor Coleman.»

    Allora  persi  la  pazienza.  «Di' a Fred Coker di venire qui e al più

    presto!» gridai.

    Dick Coleman aveva un  accordo  con  l'albergo  Hilton.  Loro  avevano

    finanziato  l'acquisto  di due grosse imbarcazioni,  che Coleman aveva

    affidato a un  paio  di  capitani  d'importazione.  Nessuno  dei  suoi

    battelli  faceva  buona  pesca,  non  ne  avevano  la stoffa.  Coleman

    incontrava molte difficoltà per trovare clienti,  e io  indovinai  che

    Fred  Coker  aveva  ricevuto  un  lauto  compenso per passargli le mie

    prenotazioni. Coker arrivò la mattina dopo.

    «Signor Harry, il dottor MacNab mi aveva detto che per questa stagione

    lei non avrebbe potuto pescare.  Non potevo deludere i clienti,  fanno

    ottomila  chilometri di volo per trovarla in un letto d'ospedale.  Non

    potevo farlo... ho la mia reputazione cui badare.»

    «Signor Coker,  la sua reputazione puzza come uno di quei cadaveri che

    lei  tiene nel retrobottega» gli dissi,  e lui mi fissò con occhi miti

    dietro gli occhiali cerchiati d'oro;  ma  naturalmente  aveva  ragione

    lui,  sarebbe  passato  parecchio  tempo  prima che potessi portare il

    "Dancer" sulla rotta dei grossi pesci.

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    «Ora non si scaldi,  signor Harry.  Appena starà meglio  le  procurerò

    qualche ingaggio redditizio.»

    Parlava  di  nuovo  di  contrabbando;  la  sua provvigione per un solo

    viaggio poteva arrivare a settecentocinquanta dollari. Con quel lavoro

    potevo cavarmela anche  nelle  mie  attuali  condizioni  precarie,  si

    trattava  solo di guidare il "Dancer" avanti e indietro...  finché non

    capitavano guai.

    «Se lo scordi, signor Coker.  Gliel'ho già detto,  d'ora in poi vado a

    pesca  e  basta»  e lui annuì sorridendo e proseguì come se non avesse

    sentito.

    «Ho ricevuto richieste insistenti da parte  di  uno  dei  suoi  vecchi

    clienti.»

    «Corpi?  Casse?» domandai. "Corpi" indicava il trasporto illegale da o

    per il continente africano di esseri umani,  uomini politici  in  fuga

    con  lo  squadrone della morte alle calcagna...  o viceversa aspiranti

    politici che tentavano di operare cambiamenti radicali nel loro paese.

    Le casse di solito contenevano prodotti  letali  ed  era  un  traffico

    unilaterale. Ai vecchi tempi lo chiamavano contrabbando di armi.

    Coker  scosse  la testa e disse: «Cinque,  sei» alludendo alla vecchia

    filastrocca infantile:  «Cinque,  sei,  tonti  e  babbei».  In  questo

    contesto  "babbei"  erano zanne d'avorio.  Una massiccia operazione di

    caccia  di  frodo   altamente   organizzata   stava   sistematicamente

    cancellando  l'elefante  africano  dalle riserve e dalle terre tribali

    dell'Africa orientale.  L'Oriente costituiva per l'avorio  un  mercato

    insaziabile e redditizio. Erano necessari un battello veloce e un buon

    comandante  per  trasportare il prezioso carico fuori dall'estuario di

    un fiume,  attraverso le pericolose acque interne,  fino al largo  nel

    punto  in cui uno dei grossi battelli d'alto mare a vela latina era in

    attesa sulla corrente del Mozambico.

    «Signor Coker» gli dissi in tono stanco «sono certo che sua madre  non

    ha mai saputo il nome di suo padre.»

    «Si  chiamava  Edward,  signor  Harry»  ribatté  lui  con  un  sorriso

    prudente.  «Ho  detto  al  cliente  che  il  prezzo  era  salito.  Con

    l'inflazione e il costo della nafta.»

    «Quanto?»

    «Settemila  dollari  a viaggio.» Il che non era tanto quanto sembrava,

    dopo che Coker ne aveva detratto il quindici per cento  e  altrettanto

    era  finito  in  tasca  all'ispettore  Daly,  abbassandogli la vista e

    diminuendogli l'udito. Per di più Chubby e Angelo ricevevano sempre un

    premio straordinario di cinquecento dollari ciascuno per notte.

    «Se lo scordi,  signor Coker» dissi  in  tono  poco  convincente.  «Mi

    procuri  solo  un  paio di clienti che vogliono pescare.» Ma sapevo di

    non potercela fare.

    «Appena lei sarà abbastanza in forma per pescare,  ci  penseremo.  Nel

    frattempo, quando vuol fare la prima corsa notturna? Diciamo fra dieci

    giorni  a  partire  da  oggi?  Ci sarà l'alta marea di primavera e una

    buona luna.»

    «D'accordo» accettai rassegnato. «Fra dieci giorni.»

    Una volta presa una decisione concreta,  parve che la guarigione delle

    mie ferite accelerasse. Al momento della sparatoria ero stato in piena

    forma,  il  che  era  un vantaggio,  e i fori spalancati nel braccio e

    nella schiena cominciarono miracolosamente a rimarginarsi.

    Il sesto giorno raggiunsi una pietra miliare nella mia  convalescenza.

    L'infermiera  May  mi  stava facendo il bagno,  con un catino di acqua

    saponata  e  una  salvietta,   quando  si  verificò  una   monumentale

    dimostrazione del mio vigore fisico.  Perfino io, che non ero estraneo

    al fenomeno, rimasi impressionato, mentre May era tanto emozionata che

    la sua voce si ridusse a un bisbiglio roco.

    «Oh Signore!» mormorò. «Certo che ha ripreso le forze.»

    «Infermiera,  pensa che dovrebbero andare sprecate?» le chiesi,  e lei

    scosse vigorosamente la testa.

    Da  allora  cominciai  a  considerare  con  maggiore  ottimismo le mie

    condizioni,  e com'era prevedibile il segreto avvolto  nel  telone  al

    largo  di  Big  Gull  riprese a tormentarmi.  Sentivo vacillare i miei

    buoni propositi.

    "Ci darò soltanto un'occhiata" mi dissi.  "Quando sarò sicuro  che  le

    acque si sono calmate."

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    Ormai mi concedevano di restare alzato per alcune ore di seguito, e mi

    sentivo irrequieto e ansioso di accelerare la guarigione.  Neanche gli

    sforzi generosi di  May  riuscivano  a  smorzare  l'impeto  delle  mie

    energie che si risvegliavano. MacNab ne rimase impressionato.

    «Si  rimarginano  bene,  vecchio  mio.  Si  stanno chiudendo che è una

    bellezza... ancora una settimana.»

    «Una settimana un corno!» ribattei con decisione.  Fra  una  settimana

    avrei  compiuto  la  mia  scorribanda notturna.  Coker aveva sistemato

    tutto senza difficoltà... e io ero quasi in bolletta. Avevo un bisogno

    disperato di quella spedizione.

    La mia ciurma veniva ogni sera a trovarmi e a riferire  sui  progressi

    delle  riparazioni  al  "Dancer".  Una  volta  Angelo arrivò prima del

    solito: era vestito con la sua tenuta di  gala,  stivali  da  rodeo  e

    tutto il resto, ma era stranamente calmo e aveva compagnia.

    La  ragazza  che  lo accompagnava era la giovane maestra d'asilo della

    scuola statale giù al forte.  La conoscevo abbastanza da scambiare con

    lei  un  sorriso  per  strada.  Un  giorno  la  signora  Eddy mi aveva

    riassunto in una frase il suo carattere.

    «E' una brava ragazza, quella Judith. Non frivola e leggera come certe

    altre. Sarà una brava moglie per qualche fortunato.»

    Era anche attraente,  con una figura alta  e  flessuosa,  vestita  con

    garbo in modo tradizionale, e mi salutò timidamente.

    «Come va, signor Harry?»

    «Salve,  Judith.  E'  stata gentile a venire» e guardai Angelo,  senza

    riuscire a reprimere  un  sorriso.  Lui  non  poté  sostenere  il  mio

    sguardo, e arrossì fino alla radice dei capelli, cercando le parole.

    «Io e Judith pensiamo di sposarci» sbottò alla fine. «Volevamo fartelo

    sapere, capo.»

    «Crede  di  riuscire a tenerlo sotto controllo,  Judith?» esclamai con

    una risata deliziata.

    «Aspetti e vedrà» rispose lei,  con un lampo  negli  occhi  scuri  che

    rendeva superflua la domanda.

    «E' magnifico...  farò un discorso al vostro matrimonio» promisi loro.

    «Lascerà che Angelo continui a lavorare per me?»

    «Non mi sognerei mai di impedirglielo» mi assicurò Judith. «Con lei ha

    un ottimo lavoro.»

    Si trattennero per un'altra ora e quando  uscirono  provai  una  fitta

    d'invidia.  Doveva essere una bella sensazione avere qualcuno... oltre

    a se stessi.  Pensai che un giorno,  se mai avessi trovato la  persona

    giusta,  avrei potuto tentare.  Poi liquidai quell'idea,  rialzando la

    guardia.  C'era un'infinità di  donne...  e  niente  ti  garantiva  di

    scegliere quella giusta.

    MacNab  mi  dimise  con due giorni d'anticipo.  I vestiti mi pendevano

    dalle spalle  ossute,  avevo  perso  quasi  dodici  chili  di  peso  e

    l'abbronzatura era impallidita in un giallo sporco; avevo delle grosse

    ombre  scure  sotto  gli  occhi  e  mi  sentivo  ancora debole come un

    neonato. Avevo il braccio al collo e le ferite erano ancora aperte, ma

    potevo cambiare da solo la medicazione.

    Angelo portò il furgoncino all'ospedale e rimase ad  aspettare  mentre

    salutavo May sugli scalini.

    «E' stato un piacere conoscerti, Harry.»

    «Vieni al bungalow, qualche volta. Arrostirò sulla griglia un'infinità

    di pesci e berremo un po' di vino.»

    «Il mio contratto scade la prossima settimana.  Poi tornerò a casa, in

    Inghilterra.»

    «Sii felice, capito?» le raccomandai.

    Angelo mi accompagnò all'Ammiragliato e insieme a Chubby  trascorremmo

    un'ora a esaminare le riparazioni sul "Dancer".

    I ponti erano bianchi come la neve, e loro avevano sostituito tutte le

    parti  in  legno  della  paratia  del salone,  un magnifico esempio di

    falegnameria in cui non riuscii a trovare neanche una pecca.

    Portammo la barca lungo il canale fino a Mutton Point, e fu un piacere

    sentirla navigare leggera sotto i piedi e udire il borbottio  sommesso

    dei motori.  Tornammo a casa nel crepuscolo per legarla agli ormeggi e

    starcene seduti al buio sul ponte, bevendo birra e chiacchierando.

    Annunciai loro che avevamo  in  programma  un  viaggio  per  la  notte

    successiva  e mi chiesero per dove e quale fosse il carico.  Questo fu

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    tutto... era stabilito e non ci furono discussioni.

    «E' ora di andare» disse alla fine Angelo.  «Vado  a  prendere  Judith

    alla scuola serale» e tornammo a riva col canotto.

    C'era  una  Land  Rover  della  polizia  parcheggiata  vicino  ai  mio

    camioncino,  sul retro dei magazzini di ananas,  e Wally,  il  giovane

    agente, scese appena ci avvicinammo. Salutò suo zio e poi si rivolse a

    me.

    «Mi  spiace  infastidirla,  signor  Harry,  ma  l'ispettore Daly vuole

    vederla al forte. Dice che è urgente.»

    «Dio» brontolai. «Potrà aspettare fino a domani.»

    «Dice di no,  signor Harry.» Wally  aveva  un  tono  di  scusa  e  per

    accontentarlo cedetti.

    «Okay,  ti seguirò con il furgoncino... ma prima dobbiamo accompagnare

    Chubby e Angelo.»

    Pensai che probabilmente Daly voleva mercanteggiare sul suo  compenso.

    Di  solito  ci pensava Fred Coker,  ma mi feci l'idea che Daly volesse

    alzare il prezzo del suo onore.

    Guidando con una sola mano e reggendo  il  volante  con  un  ginocchio

    mentre  cambiavo  con  la  mano sana,  seguii i fanalini di coda rossi

    della Land Rover di Wally,  superai sferragliando il ponte levatoio  e

    parcheggiai nel cortile del forte.

    Le  imponenti mura di pietra erano state costruite con il lavoro degli

    schiavi verso la metà del diciottesimo secolo e dagli ampi bastioni il

    lungo cannone da trentasei  libbre  era  puntato  verso  il  canale  e

    l'ingresso al porto grande.

    Un'ala  veniva usata come quartier generale della polizia,  prigione e

    arsenale... il resto era occupato da uffici governativi e appartamenti

    presidenziali e statali.

    Salimmo gli scalini della facciata fino all'ufficio  della  polizia  e

    Wally  mi  fece  strada  attraverso  una  porta  secondaria e lungo un

    corridoio giù per gli scalini,  un altro corridoio,  altri scalini  di

    pietra.

    Finora  non  ero mai stato quaggiù,  ed ero incuriosito.  Le pareti di

    pietra in questo punto dovevano  avere  uno  spessore  di  almeno  sei

    metri: probabilmente si trattava dell'antica polveriera.  Mi aspettavo

    quasi che Frankenstein fosse in agguato dietro la massiccia  porta  di

    quercia  munita  di  borchie  di ferro e patinata dal tempo,  in fondo

    all'ultimo corridoio. La superammo.

    Non era Frankenstein,  ma poco ci mancava.  Ci  aspettava  l'ispettore

    Daly,  con  un  altro  dei suoi agenti.  Notai subito che portavano il

    manganello.  La stanza era vuota,  fatta eccezione per  un  tavolo  di

    legno  e quattro sedie da ufficio.  Le pareti erano di pietra grezza e

    il pavimento era lastricato.

    In fondo alla stanza una porta ad arco conduceva a una fila di  celle.

    La luce era fornita da lampadine nude da cento watt,  appese a un filo

    elettrico nero che correva allo scoperto lungo il  soffitto  sostenuto

    da  travi.  Le  lampadine  proiettavano ombre scure negli angoli della

    stanza di forma irregolare.

    Sul tavolo era posata la mia carabina FN. La fissai senza capire.

    Alle mie spalle Wally chiuse la porta di quercia.

    «Signor Fletcher, è sua quest'arma?»

    «Lo sa maledettamente bene»  risposi  seccato.  «Dove  vuole  arrivare

    Daly?»

    «Harold  Delville  Fletcher,  la  dichiaro  in arresto per il possesso

    illegale di armi da fuoco di categoria A. Tanto per capirci, un fucile

    automatico tipo Fabrique Nationale,  serie quattro uno sei tre due uno

    cinque privo di licenza.»

    «Le  ha dato di volta il cervello» esclamai,  scoppiando a ridere.  La

    risata non gli piacque.  Le labbra piccole e molli sotto  i  baffi  si

    contrassero  come quelle di un bambino imbronciato e lui fece un cenno

    col capo ai suoi agenti.  Avevano ricevuto istruzioni e uscirono dalla

    porta di quercia.

    Sentii scattare i chiavistelli e restai solo con Daly.  Stava in piedi

    a una buona distanza da me, all'altro capo della stanza...  e la falda

    della sua fondina era slacciata.

    «Sua eccellenza lo sa, Daly?» gli chiesi, sempre sorridendo.

    «Sua  eccellenza  ha  lasciato  Saint  Mary  alle  quattro  di  questo

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    pomeriggio per assistere alla conferenza dei capi del  Commonwealth  a

    Londra. Non tornerà prima di due settimane.»

    Smisi di sorridere.  Sapevo che era vero. «Nel frattempo ho ragione di

    credere che la sicurezza dello Stato sia in pericolo.»

    Ora sorrideva lui,  un sorriso  sottile  e  circoscritto  alla  bocca.

    «Prima di procedere voglio convincerla che faccio sul serio.»

    «Ci credo» gli assicurai.

    «Ho due settimane con lei da solo,  qui,  Fletcher. Queste pareti sono

    molto spesse, può fare quanto chiasso vuole.»

    «Lei è un povero disgraziato.»

    «Le restano solo due modi  per  andarsene  di  qui.  O  veniamo  a  un

    accordo... oppure la farò portare via da Fred Coker in una cassa.»

    «Sentiamo che affare mi propone.»

    «Voglio sapere con precisione,  e sottolineo con precisione, dov'è che

    i suoi clienti hanno effettuato le immersioni prima della sparatoria.»

    «Gliel'ho detto...  in un punto al largo di Rastafa Point.  Non saprei

    indicarle la posizione esatta.»

    «Fletcher,   lei  conosce  il  posto  al  millimetro.  Sono  pronto  a

    scommetterci la "sua" pelle.  Non si lascerebbe sfuggire  un'occasione

    del genere.  Lo sa.  Io lo so... e loro lo sapevano, ecco perché hanno

    cercato di eliminarla.»

    «Ispettore, vada a farsi fottere» scattai.

    «Quel che è certo è che non era affatto vicino a  Rastafa  Point.  Lei

    stava  lavorando  a  nord  di  qui,   verso  la  terraferma.  La  cosa

    m'interessava... ho ricevuto dei rapporti sui suoi movimenti.»

    «Era un punto al largo di Rastafa Point» ripetei ostinato.

    «Benissimo» annuì. «Spero che lei non sia duro come la dà a intendere,

    Fletcher,  altrimenti sarà una  faccenda  lunga  e  penosa.  Prima  di

    cominciare,  però,  la  avverto  di  non  farmi perdere tempo con dati

    falsi. La terrò qui finché non avrò controllato... ho due settimane.»

    Ci fissammo, e la pelle cominciò ad accapponarsi. Capii che Peter Daly

    pregustava   quest'occasione.   Su   quelle   labbra   sottili   c'era

    un'espressione ghiotta e negli occhi uno sguardo torbido.

    «In   Malesia   ho   acquistato  una  certa  esperienza  in  fatto  di

    interrogatori... Soggetto affascinante. Ci sono tanti aspetti.  Spesso

    sono  i  tipi  duri  e  ostinati  a cedere per primi,  mentre le mezze

    calzette resistono all'infinito...»

    Erano parole dettate dall'eccitazione;  vedevo bene che lo solleticava

    l'idea  di  infliggere dolore.  Il ritmo del suo respiro era cambiato,

    più rapido e profondo, sulle guance aveva un colorito acceso.

    «...  naturalmente ora lei non è  in  piena  forma  fisica,  Fletcher.

    Probabilmente  la  sua capacità di resistenza al dolore è diminuita di

    molto dopo le  sue  recenti  disavventure.  Non  credo  che  ci  vorrà

    molto...»

    Pareva che gli dispiacesse.  Raccolsi le mie forze,  irrigidendomi per

    balzargli addosso.

    «No» scattò lui.  «Non lo faccia,  Fletcher.» Posò la mano sul  calcio

    della  pistola.  Era  distante cinque metri.  Io avevo un solo braccio

    sano,  ero debole,  dietro di me avevo una porta chiusa a chiave e due

    agenti armati... abbassai le spalle, rilassandomi.

    «Così  va  meglio.» Sorrise di nuovo.  «Ora penso che la ammanetteremo

    alle sbarre di una cella e poi potremo metterci al lavoro.  Quando  ne

    avrà  avuto abbastanza dovrà soltanto dirlo.  Credo che troverà il mio

    piccolo impianto elettrico rudimentale ma efficace.  E'  una  semplice

    batteria  d'automobile da dodici volts: aggancio i morsetti alle parti

    sensibili del corpo...»

    Si allungò all'indietro e per la prima volta notai il pulsante  di  un

    campanello  elettrico incassato nella parete.  Lo premette e io sentii

    il campanello squillare fioco oltre la porta di quercia.

    I chiavistelli scattarono all'indietro e i due agenti rientrarono.

    «Portatelo fino alle celle»  ordinò  Daly,  e  gli  agenti  esitarono.

    Intuii che erano nuovi a questo genere di operazioni.

    «Avanti»  scattò  Daly,  e  loro  mi  si affiancarono.  Wally posò con

    leggerezza la mano sul mio braccio ferito e io mi lasciai  guidare  in

    avanti verso le celle... e Daly.

    Volevo avere una possibilità di attaccarlo, almeno una.

    «Come sta la mamma, Wally?» chiesi con disinvoltura.

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    «Sta benissimo, signor Harry» mormorò imbarazzato.

    «Ha ricevuto il regalo che le ho mandato per il suo compleanno?»

    «Sì, l'ha ricevuto.» Era distratto proprio come speravo.

    Eravamo  arrivati all'altezza di Daly;  lui era ritto sulla soglia che

    dava accesso alle celle,  in  attesa  che  passassimo,  battendosi  il

    frustino contro la coscia.

    Gli agenti mi trattenevano con rispetto,  senza stringere,  incerti, e

    io feci un passo di lato sbilanciando leggermente Wally, poi piroettai

    indietro, liberandomi.

    Nessuno di loro se l'aspettava e prima che si accorgessero  di  quello

    che  stavo  facendo io avevo percorso i tre passi che mi separavano da

    Daly...  e gli avevo piantato il ginocchio destro nel corpo con  tutto

    il  mio  peso.  Lo  presi  proprio  in  mezzo  alle  gambe,  un  colpo

    magnificamente centrato.  Qualunque prezzo  dovessi  pagare  per  quel

    piacere, sarebbe stato sempre troppo basso.

    Daly fu proiettato a quaranta centimetri buoni dal terreno,  e ricadde

    all'indietro abbattendosi contro le sbarre.  Poi si piegò in  due,  le

    mani strette sulla parte inferiore del corpo con un grido fievole,  un

    suono simile al vapore che esce da una  pentola  a  pressione.  Mentre

    ricadeva  io  presi  la mira per assestargli un altro colpo in faccia,

    volevo fargli saltare i denti con un calcio in bocca...  ma gli agenti

    si  erano  ripresi  e  saltarono in avanti per allontanarmi.  Stavolta

    furono rudi e mi torsero il braccio.

    «Non avrebbe dovuto farlo,  signor Harry» gridò Wally furioso.  Le sue

    dita mi affondavano nel bicipite e io digrignai i denti.

    «Il  presidente  in  persona mi ha prosciolto,  Wally.  Tu lo sai» gli

    gridai di rimando.  E  Daly  si  raddrizzò,  il  viso  contorto  dallo

    spasimo, continuando a tenersi la parte colpita.

    «Questa  è  una  montatura.»  Sapevo  di  avere solo pochi secondi per

    parlare, Daly barcollava verso di me, brandendo il frustino,  la bocca

    spalancata come per trovare la voce.

    «Se mi ficca in quella cella mi ucciderà, Wally!»

    «Silenzio!» stridette Daly.

    «Non oserebbe farlo se il presidente...»

    «Silenzio!  Silenzio!» Brandì il frustino, che sibilò come un cobra in

    un colpo trasversale.  Aveva mirato deliberatamente alle mie ferite  e

    la canna flessibile scattò intorno a me come un colpo di pistola.

    Il   dolore   fu  superiore  a  ogni  previsione  e  io  mi  contorsi,

    impennandomi involontariamente nella loro presa. Mi trattennero.

    «Silenzio!» Daly era isterico di dolore e di rabbia.  Vibrò  un  altro

    colpo, e la canna penetrò a fondo nella carne ancora semicicatrizzata.

    Stavolta gridai.

    «Ti ammazzerò, bastardo.» Daly barcollò all'indietro, ancora contratto

    per il dolore, e cercò tastoni la pistola nella fondina.

    Quello  che avevo sperato ora accadde.  Wally mi lasciò andare e balzò

    in avanti.

    «No» gridò. «Questo no.»

    Con la sua mole torreggiava sulla figura snella e ingobbita di Daly  e

    con una sola mano bruna bloccò il suo gesto.

    «Levati di mezzo. E' un ordine» gridò Daly, ma Wally sganciò il laccio

    dal calcio della pistola e lo disarmò.  Indietreggiò con la pistola in

    mano.

    «Ti costerà caro» ringhiò Daly. «E' tuo dovere...»

    «Conosco il mio dovere, ispettore» Wally parlò con semplice dignità «e

    non è assassinare i prigionieri.» Poi si rivolse a me.  «Signor Harry,

    lei farebbe meglio a uscire di qui.»

    «Stai liberando un prigioniero...» ansimò Daly. «Bada, ti rovinerò.»

    «Non  ho visto nessun mandato di cattura» tagliò corto Wally.  «Appena

    il presidente firmerà un mandato, noi riporteremo subito qui il signor

    Harry.»

    «Bastardo» ansimò Daly, e Wally si rivolse a me.

    «Vada!» ordinò. «Presto!»

    Il viaggio fino al mio bungalow mi sembrò interminabile: ogni sobbalzo

    sulla pista mi si ripercuoteva nel petto.  Se una cosa  avevo  appreso

    dalle  piacevolezze  della  serata,  era  che  la mia idea iniziale si

    rivelava esatta: qualunque cosa contenesse quel fagotto  al  largo  di

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    Big Gull, era in grado di cacciare un individuo pacifico come me in un

    mare di guai.

    Non  ero  tanto  ingenuo  da  credere  che  l'ispettore  Daly  avrebbe

    rinunciato all'idea d'interrogarmi.  Non appena si fosse  ripreso  dal

    calcio  che  avevo  affibbiato  al suo apparato riproduttivo,  avrebbe

    fatto un altro tentativo di collegarmi  all'impianto  d'illuminazione.

    Mi  chiesi  se Daly agiva in proprio o aveva dei soci...  e decisi che

    era solo e cercava di cogliere l'occasione al volo.

    Parcheggiai il furgoncino nel cortile del mio bungalow e  uscii  sulla

    veranda.  La  signora Chubby era venuta a spazzare e riordinare mentre

    ero via.  C'erano dei fiori freschi in un vasetto  di  marmellata  sul

    tavolo  del  soggiorno,  ma,  quel che più importava,  nel frigorifero

    c'erano uova e pancetta, pane e burro.

    Mi tolsi di dosso la camicia insanguinata e la fasciatura. Il frustino

    mi aveva lasciato sul petto dei grossi cordoni in rilievo e le  ferite

    erano un disastro.

    Feci  la  doccia e applicai una nuova fasciatura,  poi,  nudo in piedi

    accanto al fornello, mi preparai una padella piena di uova strapazzate

    e pancetta e mentre cuocevano mi versai un whisky molto  abbondante  e

    lo bevvi a scopo terapeutico.

    Ero  troppo  stanco  per infilarmi tra le lenzuola e mentre cadevo sul

    letto mi chiesi se ce l'avrei  fatta  a  compiere  la  corsa  notturna

    secondo i programmi. Fu il mio ultimo pensiero prima dell'alba.

    Dopo  aver  fatto  un'altra  doccia  e  ingoiato due analgesici con un

    bicchiere di succo di ananas gelato e  mangiato  un'altra  padella  di

    uova  per  colazione,  decisi  che  la  risposta era sì.  Ero rigido e

    indolenzito,  ma potevo lavorare.  A mezzogiorno andai  in  città,  mi

    fermai  all'emporio di "Ma" Eddy per le provviste e poi proseguii fino

    all'Ammiragliato.

    Chubby e Angelo erano già a bordo e il "Dancer" era accostato al molo.

    «Ho riempito i serbatoi ausiliari,  Harry» mi informò Chubby.  «Ne  ha

    per almeno mille miglia.»

    «Hai tirato fuori le reti da carico?» gli chiesi, e lui annuì.

    «Sono  nel  ripostiglio  principale delle vele.» Avremmo usato le reti

    per imbarcare il voluminoso carico d'avorio.

    «Non scordarti di prendere una  giacca...  farà  freddo  laggiù  sulla

    corrente con questo vento che tira.»

    «Non ti preoccupare,  Harry.  Sei tu che dovresti riguardarti.  Amico,

    sembri  quello  di  dieci  giorni  fa.   Hai  l'aria  di  un  cadavere

    ambulante.»

    «Mi sembra di essere bellissimo, Chubby.»

    «Sì»  borbottò lui.  «Come mia suocera.» Poi cambiò argomento.  «Cos'è

    successo alla tua carabina?»

    «Ce l'ha la polizia.»

    «Vuoi dire che prendiamo  il  mare  senza  un  pezzo  d'artiglieria  a

    bordo?»

    «Non ne abbiamo mai avuto bisogno.»

    «C'è sempre una prima volta» borbottò. «Così mi sentirò proprio nudo.»

    La mania di Chubby per le armi non mancava mai di divertirmi.

    A  dispetto di tutte le prove che gli presentavo a discarico,  lui non

    riusciva a liberarsi dalla convinzione che la velocità e la portata di

    un proiettile dipendessero dalla forza che si esercitava  nel  premere

    il  grilletto...  e  intendeva che i suoi proiettili viaggiassero alla

    massima velocità e alla massima distanza.

    La forza selvaggia che imprimeva loro avrebbe deformato  un'arma  meno

    robusta  dell'FN.  Era  anche  afflitto  da  un'assoluta incapacità di

    tenere gli occhi aperti al momento dello sparo.

    L'avevo visto mancare uno squalo tigre lungo quattro metri e  mezzo  a

    distanza di tre metri con un intero caricatore da venti colpi.  Chubby

    Andrews non avrebbe mai battuto Bisley,  ma con tutto  ciò  aveva  una

    passione  istintiva  per  le  armi da fuoco e gli oggetti che facevano

    bang.

    «Sarà una passeggiata, una vera gita di piacere, vedrai, Chubby» e lui

    incrociò le dita per allontanare la jella e ciabattò via per  lucidare

    gli ottoni già brillanti del "Dancer", mentre io scendevo a terra.

    L'ufficio dell'agenzia di viaggi di Fred Coker era deserto e io suonai

    il campanello sulla scrivania. Lui fece capolino dal retrobottega.

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    «Benvenuto  signor  Harry.»  Si era tolto giacca e cravatta e aveva le

    maniche arrotolate;  alla cintura portava un grembiule di gomma rossa.

    «Chiuda la porta d'ingresso, per favore, e passi di qua.»

    La  stanza sul retro era in netto contrasto con l'ufficio sul davanti,

    con la vistosa carta da parati e i vivaci poster  di  viaggi.  Era  un

    lungo stanzone in penombra. Lungo una parete erano ammucchiate bare di

    pino da poco prezzo. Il carro funebre era parcheggiato in fondo, oltre

    le doppie porte.  Dietro una tetra tenda di tela in un angolo c'era un

    tavolo di marmo con delle scanalature lungo i  bordi  e  un  tubo  per

    dirigere il fluido dalle scanalature in un secchio sul pavimento.

    «Entri,  si  sieda.  Ecco  una sedia.  Mi scusi se continuo a lavorare

    mentre parlò. Devo averlo pronto per le quattro di oggi pomeriggio.»

    Lanciai un'occhiata al cadaverino nudo sulla lastra.  Era una  bambina

    di  circa  sei  anni  dai lunghi capelli scuri.  Uno sguardo mi bastò:

    spostai la sedia dietro lo schermo in modo da  vedere  solo  la  testa

    calva  di  Coker,  e  accesi  un  sigaro.  Nella stanza c'era un odore

    pesante di fluido per imbalsamare che prendeva alla gola.

    «Ci si abitua, signor Harry.» Fred Coker aveva notato il mio disgusto.

    «Ha preso  gli  accordi?»  Non  intendevo  discutere  il  suo  macabro

    mestiere.

    «E' tutto sistemato» mi assicurò.

    «S'è accordato con il nostro amico al forte?»

    «E' tutto a posto.»

    «Quando l'ha visto?» insistetti;  volevo sapere di Daly. M'interessava

    molto il suo stato di salute.

    «L'ho visto stamane, signor Harry.

    «Come stava?»

    «Sembrava normale.» Coker interruppe il suo lugubre lavoro e mi guardò

    con aria interrogativa.

    «Era in piedi, camminava, ballava, cantava, faceva capriole?»

    «No. Stava seduto e non era troppo di buonumore.»

    «Tutto quadra.» Risi e le mie ferite mi sembrarono migliorate.  «Ma ha

    preso la bustarella?»

    «Sì.»

    «Bene, allora l'accordo vale ancora.»

    «Come le ripeto, è tutto a posto.»

    «Lasci fare a me, signor Coker.»

    «Il  punto di raccolta è alla foce del torrente Salsa,  dove s'immette

    nel canale a sud dell'estuario del  Duza.»  Annuii,  era  accettabile.

    C'era un buon canale e il terreno sulle rive era soddisfacente.

    «Il  segnale  di  riconoscimento  saranno  due  lanterne...  una sopra

    l'altra, piazzate sulla riva proprio alla foce. Lei risponderà con due

    lampi,  ripetuti a intervalli di trenta secondi,  e quando si spegnerà

    la lanterna inferiore, potrà gettare l'àncora. Capito?»

    «Bene.» Era tutto soddisfacente.

    «Dalle chiatte le forniranno la manodopera per scaricare.»

    Annuii, poi chiesi: «Sanno che la bassa marea è alle tre... e che devo

    essere fuori del canale prima di quell'ora?».

    «Sì, signor Harry. Ho detto che devono finire di scaricare prima delle

    due.»

    «Allora d'accordo. E il punto di scarico?»

    «Il punto di scarico sarà venticinque miglia a est di Rastafa Point.»

    «Bene.»  Potevo  controllare  i  rilevamenti col faro di Rastafa.  Era

    comodo e semplice.

    «Consegnerà la merce a una goletta con la vela latina,  una di  quelle

    grosse.  Il  segnale  di  riconoscimento sarò lo stesso.  Due lanterne

    sull'albero,  lei lampeggerà due  volte  ogni  trenta  secondi,  e  la

    lampada inferiore si spegnerà.  Allora potrà scaricare.  Provvederanno

    loro alla manodopera e faciliteranno le operazioni di accostamento. Mi

    pare che sia tutto.»

    «A parte il denaro.»

    «A parte il denaro, naturalmente.» Dalla tasca anteriore del grembiule

    tirò fuori una busta. La presi schizzinosamente fra pollice e indice e

    guardai i calcoli scarabocchiati con la biro sulla busta.

    «Metà in anticipo, il resto alla consegna» specificò lui.

    Significava tremilacinquento,  meno duemila e cento per la commissione

    di  Coker e la bustarella a Daly.  Ne restavano millequattrocento,  da

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    cui dovevo dedurre il premio per Chubby e  Angelo...  un  migliaio  di

    dollari, non molto di più.

    Feci una smorfia. «Aspetterò fuori del suo ufficio alle nove di domani

    mattina, signor Coker.»

    «Avrò una tazza di caffè pronta per lei, signor Harry.»

    «Spero  che  non  sia tutto» gli dissi.  E lui rise e tornò a chinarsi

    sulla lastra di marmo.

    Ci allontanammo dal porto nel tardo pomeriggio e io lasciai una  falsa

    pista dirigendomi lungo il canale verso Mutton Point a beneficio di un

    possibile  osservatore appostato col binocolo sul Coolie Peak.  Appena

    scese il buio,  tornai alla mia vera direzione e attraverso il  canale

    interno  passammo  fra le isole,  diretti verso l'ampia foce del fiume

    Duza, aperta alla marea.

    Non c'era luna,  ma le stelle erano grandi e  la  risacca  frangendosi

    emanava  una  fosforescenza di un verde spettrale nell'ultimo bagliore

    del sole al tramonto.

    Io spinsi al massimo i motori del "Dancer", rilevando uno dopo l'altro

    i punti di riferimento: la sagoma di un atollo alla luce delle stelle,

    il solco di una barriera,  lo stesso scorrere e incresparsi dell'acqua

    mi  guidavano  attraverso  i  canali e mi segnalavano secche e fondali

    bassi.

    Angelo e Chubby erano appoggiati al parapetto del ponte accanto a  me.

    Ogni  tanto  uno  di loro andava di sotto a preparare dell'altro caffè

    nero e forte,  e bevevamo dalle tazze fumanti,  lo sguardo  fisso  nel

    buio  in  cerca  di  un  lampo di chiarore che non fosse l'infrangersi

    dell'acqua ma lo scafo di una motovedetta.

    Una volta sola Chubby ruppe il silenzio.  «Ho saputo da Wally che ieri

    sera hai avuto dei guai al forte.»

    «Un po'» ammisi.

    «Dopo, Wally ha dovuto portarlo in ospedale.»

    «Wally ha ancora il suo posto?» chiesi.

    «Per  un  pelo.  L'amico  voleva  metterlo in gattabuia,  ma Wally era

    troppo grosso.»

    Angelo intervenne.  «Judith era su all'aeroporto all'ora  del  pranzo.

    Era andata a ritirare una cassa di libri di scuola e l'ha visto salire

    sull'aereo per la terraferma.»

    «Chi?» domandai.

    «L'ispettore Daly. E' salito sull'aereo di mezzogiorno.»

    «Perché non me l'hai detto prima?

    «Non credevo che fosse importante, Harry.»

    «No» riconobbi. «Forse non lo è.»

    C'erano  una  dozzina  di  ragioni per cui Daly poteva andarsene sulla

    terraferma,  nessuna delle quali aveva lontanamente a che fare con  la

    mia attività.  Eppure mi faceva sentire a disagio... non mi andava che

    quel tipo di bestia vagasse nel sottobosco mentre  io  affrontavo  dei

    rischi.

    «Vorrei  che  avessi  portato  quel tuo arnese,  Harry» ripeté in tono

    lugubre Chubby e io non dissi niente, ma ero del suo parere.

    Il flusso della marea aveva placato il solito tumulto all'ingresso del

    canale meridionale del Duza e io lo cercai  alla  cieca  nel  buio.  I

    banchi  di  fango ai due lati erano costellati di trappole per i pesci

    piazzate dai pescatori indigeni,  che servivano almeno a delimitare il

    canale.

    Quando  fui  certo  che avevamo imboccato l'ingresso giusto,  spensi i

    motori e andammo alla deriva sulla marea che saliva. Ascoltavamo tutti

    con assoluta concentrazione,  spiando il pulsare  dei  motori  di  una

    motovedetta,  ma  si  sentì  solo  il grido di un airone notturno e lo

    scroscio di un muggine che saltava nell'acqua bassa.

    Silenziosi come spettri, risalivamo il canale per forza d'inerzia;  ai

    due lati le masse scure delle mangrovie ci assediavano e l'odore degli

    acquitrini fangosi era greve e fetido nell'aria satura di umidità.

    Il  riflesso delle stelle danzava sulla superficie scura e agitata del

    canale e a un certo punto una canoa lunga e stretta,  ricavata  da  un

    tronco   d'albero,   ci  scivolò  accanto  come  un  coccodrillo,   la

    fosforescenza raccolta sui remi dei due pescatori che tornavano  dalla

    foce.  Si  fermarono un attimo a guardarci e poi proseguirono senza un

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    saluto, scomparendo rapidi nella penombra.

    «Brutto segno» commentò Angelo.

    «Saremo già tornati a bere una birra al Lord Nelson prima che  possano

    parlare  con  qualcuno  che  conta.»  Sapevo  che la maggior parte dei

    pescatori su questa costa è gente che sa tenere la bocca chiusa, parca

    di parole come quasi tutti quelli della loro razza.  L'incontro non mi

    preoccupava.

    Guardando  avanti  vidi  avvicinarsi  la  prima  ansa  del  fiume e la

    corrente cominciò a spingere il  "Dancer"  al  largo,  verso  la  riva

    opposta.  Premetti i pulsanti dell'avviamento, i motori si ridestarono

    con un brusio sommesso e io tornai in acque più profonde.

    Risalimmo il  canale  serpeggiante,  sboccando  alla  fine  nell'ampio

    specchio  d'acqua  placido  dove  le  mangrovie  finivano e il terreno

    solido s'innalzava ai lati in lieve pendio.

    Un  miglio  più  avanti  vidi  lo  sbocco  dell'affluente  Salsa,  una

    parentesi scura nella riva, schermata da alti ciuffi piumosi di canne.

    Poco  più in là le due lanterne gemelle di segnalazione splendevano di

    una luce gialla soffusa, l'una sopra l'altra.

    «Cosa ti avevo detto, Chubby, una passeggiata.»

    «Non siamo ancora a casa.» Chubby, l'eterno ottimista.

    «Okay, Angelo. Va' a prua. Ti dirò io quando gettare l'ancora.»

    Scivolammo in avanti lungo il canale e  mi  tornarono  alla  mente  le

    parole  della  filastrocca  mentre  bloccavo  il  timone e prendevo la

    torcia per le segnalazioni dal ripostiglio sotto il parapetto.

    "Tre, quattro, topo e gatto. Cinque, sei, tonti e babbei."

    Pensai per un attimo alle centinaia di bestioni grigi che erano  morti

    a causa delle loro zanne...  e sentii un brivido di colpa serpeggiarmi

    freddo lungo la schiena al pensiero della mia complicità nel massacro.

    Ma distolsi la mente sollevando il riflettore e dirigendo  il  segnale

    convenuto a monte, verso le lanterne accese.

    Feci lampeggiare tre volte il segnale di riconoscimento in codice,  ma

    dovetti arrivare all'altezza delle lanterne di segnalazione prima  che

    quella inferiore si spegnesse di colpo.

    «Va  bene,  Angelo.  Molla»  dissi piano spegnendo i motori.  L'ancora

    affondò e la catena  corse  con  fragore  nel  silenzio.  Il  "Dancer"

    abbassò il muso e girò sull'ancora, puntando a valle.

    Chubby  andò  a  spiegare  le  reti  per  caricare,  ma  io  rimasi al

    parapetto,  a scrutare  nel  buio  la  lanterna  di  segnalazione.  Il

    silenzio era assoluto,  fatta eccezione per il tintinnio e il gracidio

    delle rane fra le canne sulle rive paludose del Salsa.

    In quel silenzio sentii, più che udire, un battito simile a quello del

    cuore di un gigante.  Mi  arrivava  attraverso  le  piante  dei  piedi

    piuttosto che dalle orecchie.

    Non  ci  si  poteva  sbagliare,  era  il  pulsare  di un diesel marino

    Allison. Sapevo che i vecchi Rolls-Royce della Seconda guerra mondiale

    erano stati smontati dalle motovedette di Zinballa e rimpiazzati dagli

    Allison, e ora il suono che sentivo era il ronzio pigro di un Allison.

    «Angelo» tentai di tenere la voce bassa,  ma  nello  stesso  tempo  di

    comunicare la mia urgenza.  «Sgancia l'ancora. Per amor del cielo! Più

    presto che puoi.»

    Per evenienze del  genere  la  catena  era  munita  di  una  sorta  di

    lucchetto e di questo ringraziai il Signore precipitandomi ai comandi.

    Mentre avviavo il motore, sentii il battito del martello mentre Angelo

    sganciava  il  gambo  del  lucchetto.  Contai  tre  colpi,  poi sentii

    l'estremità della catena piombare in acqua fuori bordo.

    «E' andata» esclamò Angelo,  e io misi in moto il "Dancer" e spinsi  i

    motori  al  massimo.  Muggirono infuriati,  e lo scroscio delle eliche

    proiettò all'indietro  un  fiotto  di  schiuma,  mentre  lo  scafo  si

    slanciava in avanti.

    Anche  se puntavamo a valle,  il "Dancer" aveva una corrente contraria

    di cinque nodi e non scattò abbastanza in fretta.

    Al di sopra del rombo dei  nostri  motori  sentii  gli  Allison  darci

    dentro,  e  dalla  foce  schermata  di canne del Salsa sbucò una lunga

    sagoma minacciosa.

    Anche alla luce delle stelle la riconobbi subito, l'ampia prua svasata

    e le belle  linee  filanti,  la  parte  centrale  snella  e  la  poppa

    squadrata...  una  delle  motovedette della marina inglese,  che aveva

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    trascorso i suoi giorni migliori sulla Manica e  ora  abbrutiva  nella

    senilità su questa costa malarica.

    Il  buio  era pietoso con lei,  nascondendo le chiazze di ruggine e la

    vernice screpolata,  ma ormai era una vecchia  signora.  In  una  gara

    leale il "Dancer" ne avrebbe fatto un boccone... ma questa non era una

    gara  leale  e  la  motovedetta  aveva  tutta la velocità e la potenza

    necessarie per sbarrarci la  strada  caricando  nel  canale  e  quando

    accese  le  luci  da  combattimento,  il  loro  bagliore ci colpì come

    qualcosa di solido.  Due fasci di un  bianco  abbagliante,  tanto  che

    dovetti sollevare una mano per proteggermi gli occhi.

    Ormai stava proprio davanti a noi, bloccando il canale, e sul ponte di

    prua  scorsi  le  sagome  confuse dei serventi accovacciati intorno al

    pezzo da tre libbre sull'ampia piattaforma girevole. La bocca sembrava

    puntata direttamente sulla mia narice  sinistra...  e  io  sentii  una

    disperazione selvaggia e profonda.

    Era  un'imboscata  programmata  ed  eseguita  con cura.  Pensai per un

    attimo di speronarla,  aveva uno scafo  di  compensato,  probabilmente

    marcio,   e   la  prua  di  fiberglass  del  "Dancer"  poteva  reggere

    all'urto...  ma con la corrente contraria il "Dancer"  non  sviluppava

    una velocità sufficiente.

    Poi  di colpo un altoparlante ruggì dal buio con un suono elettronico,

    dietro le luci da battaglia accecanti.

    «Metta in panne,  signor Fletcher,  o  sarò  costretto  ad  aprire  il

    fuoco.»

    Un  proiettile  esploso  dal pezzo da tre libbre ci avrebbe ridotto in

    briciole, e per di più era a tiro rapido. A questa distanza ci avrebbe

    trasformato in meno di dieci secondi in un relitto in fiamme.

    Chiusi le manette.

    «Saggia decisione,  signor Fletcher...  ora dia  l'ordine  di  gettare

    l'ancora nel punto in cui vi trovate» gridò roco l'altoparlante.

    «D'accordo,  Angelo»  gridai  con  voce  stanca,  e  attesi mentre lui

    sistemava e calava l'ancora di riserva. A un tratto il braccio riprese

    a farmi molto male... nelle ultime ore me n'ero dimenticato.

    «L'avevo detto che dovevamo portarci un po' di  artiglieria»  borbottò

    Chubby al mio fianco.

    «Sì,  mi  piacerebbe  vederti  sparare a quel grosso cannone,  Chubby.

    Sarebbe proprio divertente.»

    La motovedetta accostò con una manovra goffa,  tenendo ancora  puntati

    su  di  noi  cannone e luci.  Noi restammo immobili in attesa,  inermi

    sotto quel bagliore accecante.  Non volevo  pensare,  tentavo  di  non

    sentire niente... ma dentro di me una vocetta maligna mi scherniva.

    "Di' addio al "Dancer",  Harry, vecchio burlone, è arrivato il momento

    di separarvi."

    C'era più di una probabilità che nel prossimo futuro avrei  affrontato

    un  plotone d'esecuzione...  ma questo non m'impensieriva tanto quanto

    la prospettiva di perdere la barca.  Con il  "Dancer"  ero  il  signor

    Harry,  il  tipo  più  scatenato  di  Saint  Mary  e  uno dei migliori

    pescatori di marlin di questo pazzo mondo.  Senza,  ero solo  uno  dei

    tanti  miserabili  che  tentavano  di mettere insieme il pranzo con la

    cena. Avrei preferito morire.

    La motovedetta ci si affiancò a tutta velocità ammaccando il parapetto

    e grattando un metro di vernice prima di riuscire ad abbordarci.

    «Maledetti bastardi» ringhiò  Chubby,  mentre  una  mezza  dozzina  di

    figure armate,  in uniforme,  si riversavano sul nostro ponte,  in una

    folla chiassosa e indisciplinata.  Portavano  calzoni  scampanati  blu

    marino e giacchette con il colletto bianco alla marinara,  magliette a

    strisce bianche  e  blu  e  berretti  bianchi  col  pompon  rosso  sul

    cocuzzolo,  ma il taglio delle uniformi era cinese e brandivano lunghi

    fucili automatici d'assalto AK 47  con  il  caricatore  ricurvo  e  il

    calcio di legno.

    Contendendosi  il  privilegio di affibbiarci una pedata o un colpo con

    il calcio del fucile,  ci spinsero tutti e tre giù  nel  salone  e  ci

    buttarono  sulla panca contro la paratia di prua.  Sedemmo lì spalla a

    spalla,  mentre due guardie ci sovrastavano,  tenendo i mitra a  pochi

    centimetri  dal  nostro naso e le dita piegate speranzosamente intorno

    al grilletto.

    «Ora so perché mi pagavi quei cinquecento dollari, capo.» Angelo tentò

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    di volgere la cosa in scherzo e una  guardia  lo  colpì  al  viso  col

    calcio del mitra. Lui si asciugò la bocca che gli sanguinava sul mento

    e nessuno di noi scherzò più.

    Gli  altri  marinai  armati  cominciarono  a fare a pezzi il "Dancer".

    Suppongo che nelle loro intenzioni  fosse  una  perquisizione,  ma  si

    scatenarono  a  casaccio nell'alloggio,  fracassando cassetti aperti e

    frantumando pannelli.

    Uno di loro scoprì il mobile-bar e per quanto ci fossero  solo  una  o

    due  bottiglie  si  levò  un  ruggito di approvazione.  Si azzuffarono

    clamorosamente come gabbiani per qualche  avanzo,  poi  si  diedero  a

    saccheggiare   le  provviste  della  cambusa  con  ilarità  e  impegno

    adeguati.  Anche quando il comandante si  fece  assistere  da  quattro

    uomini dell'equipaggio per compiere il rischioso tragitto attraverso i

    quindici  centimetri  di  vuoto  che  separavano  la  motovedetta  dal

    "Dancer",  non si notò nessun calo nel volume di grida e di  risate  e

    nel fracasso di legname spaccato e vetri rotti.

    Il  comandante  attraversò  ansimando  il ponte e si chinò per entrare

    nella cabina principale. Là si fermò per riprendere fiato.

    Era uno degli uomini più imponenti che avessi mai visto, alto non meno

    di un metro e ottanta e  incredibilmente  grasso...  un  enorme  corpo

    gonfio,  con una pancia come un pallone di sbarramento sotto la giacca

    bianca dell'uniforme.  I bottoni d'ottone erano tesi al massimo  e  il

    sudore   gli  aveva  inzuppato  le  ascelle.   Sul  petto  portava  un

    assortimento luccicante  di  stelle  e  medaglie,  fra  cui  riconobbi

    l'American Naval Cross e la Victory Star del 1918.

    La  testa  aveva  la  forma  e  il colore di una pentola di ferro nero

    lucido, del tipo tradizionalmente usato per bollire i missionari, e un

    berretto  della  marina,  appesantito  da  galloni  d'oro,   vi  stava

    appollaiato sopra con un'inclinazione disinvolta. Il viso era percorso

    da  rivoli  lucenti  di  sudore,  mentre lui lottava rumorosamente per

    riprendere fiato e si asciugava, fissandomi con gli occhi sporgenti.

    Lentamente il suo corpo cominciò a gonfiarsi, ingigantendosi ancora di

    più,  come un grosso rospo,  finché non cominciai ad allarmarmi...  mi

    aspettavo che scoppiasse.

    Le labbra violacee,  grosse come ruote di trattore, si separarono e un

    incredibile volume di voce si  levò  dalla  caverna  rosea  della  sua

    bocca.

    «Silenzio!»  ruggì.  All'istante la sua ciurma di guastatori ammutolì,

    uno di loro con il calcio ancora sollevato per  attaccare  i  pannelli

    dietro il bar.

    L'enorme  ufficiale rotolò in avanti,  dominando con la sua mole tutta

    la cabina.  Sprofondò lentamente nel sedile  di  cuoio  imbottito.  Si

    tamponò il viso ancora una volta, poi mi guardò di nuovo e il suo viso

    fu rischiarato lentamente dal più cordiale dei sorrisi, come quello di

    un  enorme  neonato  paffuto  e  amabile;   aveva  i  denti  grossi  e

    perfettamente bianchi e gli occhi quasi scomparivano fra i  rotoli  di

    carne nera sorridente.

    «Signor  Fletcher,  non  so  dirle quale grande piacere sia questo per

    me.» La sua voce era  profonda,  dolce  e  amichevole,  l'accento  era

    quello  di  un  inglese  della  classe  superiore...  quasi certamente

    acquisito in una scuola tra le più prestigiose.  Il  suo  inglese  era

    migliore del mio.  «Sono già alcuni anni che aspetto con impazienza di

    conoscerla.»

    «E' molto cortese da parte sua dire questo,  ammiraglio.»  Con  quella

    uniforme il suo grado non poteva essere inferiore.

    «Ammiraglio»  ripeté allora estasiato.  «Mi piace» e scoppiò a ridere.

    La risata cominciò con un tremolio del ventre enorme e si concluse con

    un ansimare faticoso. «Purtroppo,  signor Fletcher,  lei si è lasciato

    ingannare  dalle  apparenze»  e  si  pavoneggiò un po',  toccandosi le

    medaglie e aggiustando la visiera  del  berretto.  «Sono  un  semplice

    capitano di vascello.»

    «E' un vero peccato, comandante.»

    «No. No, signor Fletcher, non sprechi per me la sua simpatia. Ho tutta

    l'autorità  che  potrei  desiderare.»  S'interruppe  per  fare qualche

    esercizio di respirazione profonda e per asciugarsi la nuova colata di

    sudore. «Ho potere di vita e di morte, mi creda.»

    «Le credo, signore» gli dissi con serietà. «E, la prego,  non si senta

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    in dovere di provarmelo.»

    Lui fu scosso da un'altra risata che rischiò di soffocarlo,  sputò sul

    pavimento e poi disse: «Lei mi  piace,  signor  Fletcher,  sul  serio.

    Credo che il senso dell'umorismo sia molto importante. Penso che lei e

    io potremmo diventare ottimi amici».  Ne dubitavo,  ma sorrisi in modo

    incoraggiante.

    «In segno di stima le  permetterò  di  usare  l'appellativo  familiare

    quando si rivolge a me... Suleiman Dada.»

    «Lo  apprezzo  molto...  davvero,  Suleiman  Dada.  Lei  può chiamarmi

    Harry.»

    «Harry» ripeté lui.  «Beviamo insieme un bicchierino  di  whisky.»  In

    quel  momento  entrò  nel  salone un altro uomo.  Una figura snella da

    ragazzo,  vestita non della solita divisa della polizia coloniale,  ma

    di  un  abito  leggero di seta,  con una camicia di seta color limone,

    cravatta in tinta e scarpe di coccodrillo ai piedi.

    I capelli biondo chiaro erano pettinati con cura in avanti  a  formare

    un  ricciolo  sulla  fronte  e i baffi erano azzimati come sempre,  ma

    camminava con cautela,  come  per  non  riacutizzare  un  dolore.  Gli

    rivolsi un largo sorriso.

    «Allora,  come si sente adesso,  Daly?» gli chiesi con gentilezza,  ma

    lui non rispose e andò a sedersi accanto a Suleiman  Dada,  dall'altro

    lato.

    Dada  protese  un'enorme zampa nera e alleggerì uno degli uomini della

    bottiglia di whisky proveniente dalla mia  riserva,  accennando  a  un

    altro di portare i bicchieri dal mobile-bar fracassato.

    Quando avemmo tutti in mano mezzo bicchiere di whisky,  Dada pronunciò

    il brindisi.

    «All'amicizia duratura e alla comune prosperità.» Bevemmo,  Daly e  io

    con  moderazione,  Dada avidamente e con evidente piacere.  Mentre lui

    teneva la testa inclinata all'indietro e gli occhi chiusi, il marinaio

    tentò di recuperare la bottiglia di scotch dal tavolo davanti a lui.

    Senza abbassare il bicchiere,  Dada gli affibbiò un  poderoso  ceffone

    sulla  tempia,  un colpo che gli fece scattare la testa all'indietro e

    lo proiettò all'altro capo della cabina, urtando contro il mobile-bar.

    L'uomo scivolò fino a terra con le spalle contro  la  paratia  e  finì

    seduto  sul  ponte,  stordito,  scuotendo la testa per snebbiarla.  Mi

    avvidi allora che nonostante la mole Suleiman Dada  era  un  uomo  dai

    riflessi pronti e dalla potenza temibile.

    Vuotò  il  bicchiere,  lo  posò e lo riempì.  Ora mi guardava e la sua

    espressione cambiò.  Il clown era scomparso,  nonostante i  rotoli  di

    grasso:   avevo   di   fronte  un  avversario  astuto,   pericoloso  e

    assolutamente spietato.

    «Harry,  mi risulta che lei e l'ispettore Daly siete stati  interrotti

    di recente nel corso di una discussione» e io mi strinsi nelle spalle.

    «Tutti noi qui siamo uomini ragionevoli, Harry, di questo sono certo.»

    Io  non dissi niente,  ma studiai con profondo interesse il whisky che

    avevo nel bicchiere.  «Questo è  un  caso  molto  fortunato  perché...

    consideriamo  quello  che  potrebbe  succedere a un uomo irragionevole

    nella sua posizione.» S'interruppe per fare un po' di  gargarismi  con

    un sorso di whisky.  Il sudore gli aveva formato una fila di bollicine

    bianche sul naso e sul mento.  Le asciugò prima di continuare.  «Prima

    di tutto, un uomo irragionevole potrebbe essere costretto ad assistere

    mentre  gli  uomini  del suo equipaggio vengono portati fuori uno alla

    volta e giustiziati. Qui usiamo il manico dei picconi. E' una faccenda

    raccapricciante,  e l'ispettore Daly mi assicura  che  lei  ha  ottimi

    rapporti  con  questi  due  uomini.»  Accanto  a me Chubby e Angelo si

    agitarono sui  sedili,  a  disagio.  «Poi  un  uomo  irragionevole  si

    vedrebbe  portare  il  battello  nella  baia  di  Zinballa.  Una volta

    accaduto questo non ci sarebbe più modo di farselo restituire. Sarebbe

    ufficialmente confiscato dalle mie  umili  mani.»  S'interruppe  e  mi

    mostrò  le  sue  umili mani,  protendendole verso di me.  Si sarebbero

    intonate a un gorilla. Le fissammo tutti e due per un istante. «Poi un

    uomo irragionevole potrebbe ritrovarsi nel carcere di Zinballa... che,

    come forse saprà, è una prigione politica della massima sicurezza.»

    Avevo sentito parlare della prigione di  Zinballa,  come  tutti  sulla

    costa.  Quelli  che  ne  uscivano o erano morti o fiaccati nel corpo e

    nello spirito. La chiamavano "Gabbia dei leoni".

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    «Suleiman Dada,  voglio che lei sappia che sono uno degli  uomini  più

    ragionevoli che esistano» gli assicurai, e lui rise di nuovo.

    «Ne ero certo» disse.  «Li riconosco a un chilometro di distanza.» Poi

    ridiventò serio.  «Se ce ne andiamo di qui subito,  prima che cambi la

    marea, possiamo uscire dal canale interno prima di mezzanotte.»

    «Sì» riconobbi «si potrebbe fare.»

    «Quindi  lei  potrebbe  condurci nel posto che c'interessa,  aspettare

    finché ci saremo convinti della sua buona fede...  di cui  non  dubito

    nemmeno per un istante...  e poi lei e il suo equipaggio sarete liberi

    di prendere il mare sulla vostra splendida  barca  e  domani  potreste

    dormire nei vostri letti.»

    «Suleiman  Dada,  mi trovo davanti a un uomo colto e generoso.  Non ho

    nessuna ragione di dubitare delle sue buone  intenzioni»  non  più  di

    quelle  di  Materson  e  Guthrie,  completai  dentro  di  me  «e ho un

    desiderio particolarmente intenso di dormire  nel  mio  letto,  domani

    sera.»

    Daly  aprì  la  bocca  per  la prima volta,  parlando con voce bassa e

    stizzosa. «Penso che dovrebbe sapere che un pescatore di tartarughe ha

    visto la sua barca ancorata nella laguna al di là del canale  dei  Tre

    Vecchi  e  di  Gunfire  Reef  la  notte  prima della sparatoria...  ci

    aspettiamo di essere guidati in quella direzione.»

    «Non ho niente contro chi si lascia corrompere, Daly... Dio sa se l'ho

    fatto anch'io... ma allora dov'è finito l'onore dei ladri di cui parla

    il  poeta?»  Ero  molto  deluso  da  Daly,   ma  lui  ignorò  le   mie

    recriminazioni.

    «Non tenti un altro dei suoi trucchi» mi ammonì.

    «E' davvero un fenomeno, Daly. Potrei vincere dei premi, con lei.»

    «Vi  prego,  signori.»  Dada  alzò  le mani per interrompere la nostra

    discussione. «Siamo tutti amici.  Un altro bicchierino di whisky...  e

    poi  Harry ci porterà tutti a fare un viaggio d'affari.» Dada riempì i

    nostri bicchieri,  ma si fermò prima di  bere  di  nuovo.  «Penso  che

    dovrei avvertirla,  Harry...  non mi piace il mare agitato.  Non mi si

    confà.  Se mi porta in mare mosso diventerò molto,  molto nervoso.  Ci

    siamo capiti?»

    «Solo per compiacerla ordinerò alle acque di placarsi,  Suleiman Dada»

    gli assicurai,  e lui annuì in tono solenne,  come se fosse il  minimo

    che si aspettava.

    L'alba  somigliava  a  una  bella  donna che si leva dal giaciglio del

    mare,  tutta morbidi toni rosati e  riflessi  perlacei,  i  refoli  di

    nuvole  simili  a tracce fluenti e scomposte,  di un biondo dorato dal

    primo sole.  Eravamo diretti a  nord,  bordeggiando  nelle  acque  più

    tranquille del canale interno. L'ordine di navigazione vedeva in testa

    il  "Dancer",  che  procedeva al passo come un puledro di razza che si

    abitua al morso, mentre ottocento metri a poppa rollava e beccheggiava

    la  motovedetta,  che  gli  Allison  si  sforzavano  di  mantenere  in

    equilibrio. Puntavamo verso i Tre Vecchi e Gunfire Reef.

    A bordo del "Dancer" governavo io,  solo al timone sul ponte scoperto.

    Accanto  a  me  c'erano  Peter  Daly  e  un  marinaio   armato   della

    motovedetta.  Nel  salone  sotto  di  noi Chubby e Angelo erano ancora

    seduti sulla panca e altri tre marinai, armati di fucili d'assalto, li

    sorvegliavano.

    Il "Dancer" era stato saccheggiato di tutte le provviste, così nessuno

    di noi aveva fatto colazione, nemmeno una tazza di caffè.

    Il primo effetto paralizzante  della  cattura  era  passato...  e  ora

    riflettevo freneticamente,  tentando di escogitare un piano per uscire

    dal labirinto in cui ero intrappolato.

    Sapevo che se mostravo a Daly e a Dada il varco  di  Gunfire  Reef,  o

    l'avrebbero esplorato senza trovare niente...  il che era la soluzione

    più  probabile  perché  qualunque  cosa  ci  fosse  stata  ormai   era

    impacchettata  e depositata a Big Gull...  o avrebbero trovato qualche

    elemento nuovo.  In entrambi i casi  io  ero  destinato  a  esperienze

    sgradevoli: se non trovavano niente, Daly avrebbe reclamato il piacere

    sopraffino di collegarmi all'impianto elettrico nel tentativo di farmi

    parlare.  Se  trovavano  qualcosa  di definito la mia presenza sarebbe

    diventata superflua...  e una dozzina di marinai zelanti si  sarebbero

    contesi  l'onore di farmi da boia.  Non mi sorrideva l'idea dei manici

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    di piccone... prometteva di essere una faccenda sgradevole.

    Eppure le possibilità di fuga sembravano remote.  Per quanto  distante

    ottocento  metri  a  poppa,  il  pezzo  da  tre  libbre  a  prua della

    motovedetta di Dada ci teneva sotto tiro,  e avevamo a  bordo  Daly  e

    quattro membri dell'equipaggio.

    Accesi  il primo sigaro della giornata e il suo effetto fu miracoloso;

    quasi subito mi sembrò d'intravvedere un puntino di luce in  fondo  al

    lungo  tunnel  buio.  Ci pensai ancora un po' aspirando in silenzio il

    tabacco scuro,  e mi parve che valesse la pena di tentare...  ma prima

    dovevo parlarne con Chubby.

    «Daly»  mi  voltai a parlare di sopra la spalla.  «Dovrebbe far venire

    qui Chubby a prendere il timone, devo scendere di sotto.»

    «Perché?» domandò lui insospettito. «Che cosa vuol fare?»

    «Diciamo che qualunque cosa sia,  succede ogni mattina a  quest'ora  e

    nessun  altro  può  farlo  per me.  Se mi farà dire di più,  diventerò

    rosso.»

    «Avrebbe dovuto recitare, Fletcher. Mi fa morire dal ridere.»

    «Buffo che le sia venuto in mente. Ci avevo pensato anch'io.»

    Mandò la guardia in cabina a prelevare  Chubby  e  io  gli  passai  il

    timone.

    «Resta  nei  paraggi,  dopo  voglio parlarti» borbottai a mezza bocca,

    scendendo sul ponte di poppa. Angelo si rischiarò un po' quando entrai

    nel salone,  e mi rivolse una buona imitazione del suo vecchio sorriso

    smagliante,  ma le tre guardie, chiaramente annoiate, puntarono subito

    le armi su di me e io sollevai in fretta le mani.

    «Calma, ragazzi, calma» li blandii e passai oltre,  avviandomi giù per

    la scaletta di boccaporto.  Due di loro mi seguirono lo stesso. Quando

    raggiunsi la toilette avrebbero voluto entrare  a  tenermi  compagnia.

    «Signori»  protestai  «se continuerete a puntarmi contro quegli arnesi

    nei prossimi minuti critici,  probabilmente sperimenterete il  rimedio

    principe  contro  la  stitichezza.»  Mi fissarono torvi e inerti e io,

    chiudendogli con fermezza la porta in faccia, aggiunsi: «Ma voi non ci

    tenete affatto al premio Nobel, vero?».

    Quando riaprii erano in attesa esattamente nello stesso atteggiamento,

    come se non si fossero mossi.  Con un gesto  da  cospiratore  accennai

    loro  di  seguirmi.  Si  mostrarono  subito interessati e io li guidai

    nella cabina principale.  Avevo trascorso molte  ore  a  costruire  un

    ripostiglio nascosto sotto la grossa cuccetta doppia. Aveva più o meno

    le dimensioni di una bara ed era ventilato.  Poteva accogliere un uomo

    disteso supino.  Nel periodo in  cui  trasportavo  carichi  umani  era

    servito  da  nascondiglio in caso di perquisizione...  ma ora lo usavo

    come  magazzino  per  carichi  preziosi  e  illeciti   o   pericolosi.

    Attualmente  conteneva  munizioni,  cinquecento colpi,  per l'FN,  una

    cassa di bombe a mano e due cassette di Chivas Regal.

    Con esclamazioni di delizia le due guardie si misero in spalla i mitra

    e tirarono fuori le casse di whisky.  Si erano dimenticati di me e  io

    sgusciai  via  e  tornai  sul  ponte.  Mi  piazzai  accanto  a Chubby,

    ritardando il passaggio delle consegne.

    «Se l'è presa comoda» ringhiò Daly.

    «Mai sprecare un piacere per la fretta»  spiegai,  e  lui  perse  ogni

    interesse  e  si  allontanò  per  fissare  oltre  la  nostra  scia  la

    motovedetta che ci seguiva.

    «Chubby» bisbigliai. «Gunfire Break.  Una volta mi hai detto che c'era

    un passaggio attraverso la scogliera, dal lato di terra.»

    «Alla marea massima di primavera, con una baleniera e un uomo in gamba

    con  i  nervi  saldi»  ammise.  «Io  l'ho  fatto  quand'ero un ragazzo

    incosciente.»

    «Fra tre ore la  marea  sarà  al  massimo.  Potrei  farci  passare  il

    "Dancer"?» gli chiesi.

    L'espressione   di  Chubby  cambiò.   «Cristo!»  mormorò,   voltandosi

    incredulo a guardarmi.

    «Potrei farcela?» insistetti piano,  e lui si succhiò rumorosamente  i

    denti, osservando l'alba e grattandosi la barba lunga sul mento.

    Poi a un tratto si decise e sputò fuori bordo.  «Potresti, Harry... ma

    nessun altro di mia conoscenza ce la farebbe.»

    «Dammi i punti di riferimento, Chubby, svelto.»

    «E' stato tanto tempo fa,  comunque» descrisse in modo  approssimativo

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    l'accesso  e il passaggio del varco «ci sono tre svolte nel passaggio,

    a sinistra,  a destra,  poi di nuovo a sinistra;  più in  là  c'è  una

    strettoia,  corallo  a  meandri da tutt'e due le parti...  il "Dancer"

    potrebbe passarci di misura,  ma si lascerà dietro un po' di  vernice.

    Poi  ti  trovi  nel grosso specchio d'acqua alle spalle della barriera

    principale. Lì c'è spazio per girare e aspettare il mare giusto, prima

    di uscire dal varco in mare aperto.»

    «Grazie, Chubby» mormorai.  «Ora va' di sotto.  Ho fatto prendere alle

    guardie  il  whisky  di riserva.  Al momento in cui comincerò la corsa

    verso il passaggio saranno pieni di alcool fino agli  occhi.  Farò  un

    segnale battendo tre volte il piede sul ponte,  poi toccherà a te e ad

    Angelo togliere loro le armi e legarli ben stretti.»

    Il sole era alto e il profilo seghettato  dei  Tre  Vecchi  si  levava

    davanti  a  noi  a pochi chilometri di distanza quando sentii il primo

    scroscio rauco di risate e un fracasso di  mobili  infranti.  Daly  lo

    ignorò  e continuammo a solcare le placide acque interne verso il lato

    opposto di Gunfire Reef.  Potevo già scorgere  la  linea  frastagliata

    della barriera,  simile ai denti anneriti di un vecchio squalo. Più in

    là le alte onde dell'oceano biancheggiavano infrangendosi e ancora più

    in là si stendeva il mare aperto.

    Accostai verso la barriera e aprii le manette di un'inezia. Il pulsare

    del motore del "Dancer" cambiò, ma non tanto da allarmare Daly.  Se ne

    stava  pigramente  appoggiato  al  parapetto,  annoiato,  con la barba

    lunga,  e probabilmente  sentiva  la  mancanza  della  colazione.  Ora

    riuscivo nettamente a distinguere il rombo della risacca sul corallo e

    dal basso i suoni della baldoria si fecero continui. Alla fine Daly se

    ne accorse, corrugò la fronte e ordinò all'altra guardia di scendere a

    indagare.

    L'uomo sparì prontamente sottocoperta e non tornò più.

    Io  guardai  a  poppa.   L'aumento  della  velocità  stava  allargando

    lentamente il vuoto fra il "Dancer" e la motovedetta e continuavamo ad

    accostarci alla barriera.

    Guardavo avanti con ansia,  tentando di individuare i segni e i  punti

    di  riferimento  che  Chubby mi aveva descritto.  Toccai dolcemente le

    manette, aprendole di un'altra tacca.  La motovedetta rimase ancora un

    po' più indietro.

    A  un  tratto  vidi  l'ingresso  del  Gunfire Break,  segnalato da due

    pinnacoli di vecchio corallo corroso. Riuscii a distinguere il diverso

    colore dell'acqua di mare limpida  che  si  riversava  nella  barriera

    corallina attraverso il varco.

    Sottocoperta  si  sentì  un'altro  scroscio  di risa sgangherate e una

    delle guardie uscì barcollando, ubriaca, sul ponte di poppa. Raggiunse

    il parapetto appena in tempo e vomitò nella scia.  Poi  le  gambe  gli

    cedettero e l'uomo crollò sul ponte e restò disteso come un fagotto di

    stracci.

    Daly  lanciò  un'esclamazione  di collera e corse giù per la scaletta.

    Approfittai dell'occasione per aprire le manette di altre due tacche.

    Fissai lo sguardo  davanti  a  me,  preparandomi  alla  prova.  Dovevo

    tentare  di aumentare ancora un po' lo spazio fra il "Dancer" e la sua

    scorta: ogni centimetro poteva contribuire a mettere in difficoltà gli

    artiglieri.

    Progettavo di arrivare all'altezza del canale e  poi  affrontarlo  col

    "Dancer"  a  pieno  regime,  sfidando  le  zanne  di  corallo sommerso

    piuttosto che mettere alla prova la mira dei cannonieri a bordo  della

    motovedetta.  C'era un chilometro e mezzo di canale stretto e tortuoso

    attraverso il corallo prima di raggiungere  il  mare  aperto.  Per  la

    maggior  parte  del tragitto il "Dancer" sarebbe stato schermato dalle

    sporgenze affioranti di corallo e la  tortuosità  del  canale  sarebbe

    servita  a eludere il tiro del pezzo da tre libbre.  Speravo anche che

    la risacca,  agendo  attraverso  l'imboccatura,  avrebbe  impresso  al

    "Dancer" un continuo movimento di su e giù che gli avrebbe permesso di

    schivare i colpi in modo imprevedibile, come uno di quegli anatroccoli

    nei baracconi di tiro a segno.

    Una cosa era certa: quell'intrepido marinaio,  il capitano di vascello

    Suleiman Dada,  non si sarebbe arrischiato a inseguirci attraverso  il

    canale, quindi avrei potuto offrire al suo cannone un bersaglio sempre

    più lontano.

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    Ignorai  il frastuono degli ubriachi di sotto e osservai l'imboccatura

    del canale avvicinarsi in fretta. A un tratto Peter Daly salì di corsa

    la scaletta per affrontarmi.  Aveva il viso arrossato dalla rabbia e i

    baffi  irti  fino  a sfiorare i capelli di seta.  Contrasse per alcuni

    secondi la bocca prima di riuscire a parlare.

    «E' stato lei a dargli il liquore, Fletcher. Ah, astuto bastardo!»

    «Io?» chiesi indignato. «Non farei mai una cosa simile.»

    «Sono ubriachi come maiali...  tutti» gridò,  poi si gira a guardare a

    poppa. La motovedetta era lontana un miglio e la distanza aumentava.

    «Lei  ha  qualcosa  in mente» mi gridò,  frugando nella tasca laterale

    della  giacca  di  seta.   In  quel  momento   arrivammo   all'altezza

    dell'ingresso del canale.

    Io  aprii di colpo entrambe le manette e il "Dancer" ruggì,  scattando

    in avanti.

    Continuando a frugarsi in tasca,  Daly  perse  l'equilibrio.  Barcollò

    all'indietro, sempre gridando.

    Ruotai  il  timone  tutto  a  dritta  e  il  "Dancer" piroettò come un

    ballerino.  Daly cambiò direzione;  proiettato di peso  attraverso  il

    ponte  urtò  con  violenza  contro  il  parapetto laterale,  mentre il

    "Dancer" a sua volta  s'inclinava  fortemente.  In  quell'attimo  Daly

    estrasse di tasca una piccola automatica nichelata. Pareva una calibro

    25, del tipo che le signore portano nella borsetta.

    Lasciai  per  un  attimo  il timone.  Chinandomi,  posai la mano sulle

    caviglie di Daly e le sollevai di scatto. «Addio,  compagno» gli dissi

    mentre  finiva  all'indietro oltre il parapetto,  precipitando per tre

    metri e mezzo,  sfiorando la battagliola del  ponte  inferiore  e  poi

    piombando in acqua.

    Sfrecciai di nuovo al timone, riprendendo appena in tempo il controllo

    del  "Dancer"  e  nello  stesso  tempo battendo tre volte il piede sul

    ponte.

    Mentre raddrizzavo il  "Dancer"  sentii  grida  di  lotta  nel  salone

    inferiore  e  feci  una  smorfia  quando un mitra sparò,  con un suono

    simile a quello  di  una  stoffa  che  si  strappa,  e  le  pallottole

    fuoriuscirono   dal   ponte   alle  mie  spalle,   lasciando  un  foro

    frastagliato,  orlato di schegge bianche.  Per lo meno avevano sparato

    al soffitto ed era improbabile che avessero colpito Angelo e Chubby.

    Un  attimo prima di superare la porta di corallo,  mi guardai di nuovo

    alle spalle.  La motovedetta arrancava ancora a un  miglio  dietro  di

    noi,  mentre  la testa di Daly galleggiava nella scia bianca di spuma.

    Mi chiesi se l'avrebbero raggiunto prima degli squali.

    Non c'era più tempo per  oziose  congetture.  Quando  il  "Dancer"  si

    lanciò a capofitto nel canale, fui atterrito dal compito che gli avevo

    imposto.

    Sporgendomi  avrei  potuto  toccare le pareti di corallo e scorgevo le

    sagome sinistre degli  scogli  in  agguato  sotto  le  acque  basse  e

    turbolente   davanti   alla  prua.   Nella  lunga  corsa  serpeggiante

    attraverso il canale le onde avevano perso gran parte del loro  impeto

    selvaggio, ma più procedevamo più diventavano agitate, rendendo sempre

    più imprevedibile la risposta del "Dancer" al timone.

    La  prima curva del canale mi si parò davanti e vi guidai il "Dancer".

    Obbedì prontamente,  dimenando la poppa,  con  un  accenno  appena  di

    straorzata che lo spinse in fuori verso il corallo minaccioso.

    Mentre  lo  raddrizzavo  per affrontare il tratto seguente,  Chubby si

    arrampicò su per la scaletta.  Sfoderava un larghissimo sorriso.  Solo

    due cose lo mettevano di quest'umore...  e una di quelle era una buona

    scazzottata. Si era spellato le nocche della mano destra.

    «Tutto calmo di sotto, Harry. Li sorveglia Angelo.» Si guardò intorno.

    «Dov'è il poliziotto?»

    «E' andato a fare una nuotata.» Non distolsi l'attenzione dal  canale.

    «Dov'è la motovedetta? Cosa fanno?»

    Chubby si voltò a guardare. «Niente di nuovo. Si direbbe che non hanno

    ancora capito... aspetta, però» la sua voce era cambiata. «Sì, eccoli.

    Stanno armando il cannone in coperta.»

    Ci  addentrammo  rapidi  lungo  il  canale  e io arrischiai una rapida

    occhiata indietro.

    In quell'istante vidi un  lungo  sbuffo  di  fumo  bianco  uscire  dal

    cannoncino  come un pennacchio,  e un attimo dopo si sentì lo schianto

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    secco dello sparo che passava alto sopra di noi,  seguito subito dalla

    detonazione.

    «Pronto, Harry. Ora a sinistra.»

    Abbordammo  la curva seguente e il colpo successivo fu corto,  esplose

    in una doccia di frammenti e fumo bluastro su una testa di  corallo  a

    cinquanta metri dalla nostra fiancata.

    Guidai  dolcemente il "Dancer" nella curva e mentre la percorrevamo un

    altro proiettile cadde nella nostra  scia,  sollevando  fin  sopra  il

    ponte una colonna alta e aggraziata di acqua spumeggiante.  La ventata

    seguente ci inondò di spruzzi.

    Ormai eravamo a metà strada e le  ondate  che  ci  correvano  incontro

    erano  alte  due  metri  e rese più violente dalle costrizioni imposte

    dalle pareti di corallo.

    I serventi della motovedetta facevano esercizio di tiro con allarmante

    stravaganza. Un colpo scoppiò cinquecento metri a poppa, il successivo

    passò fra Chubby e  me,  con  un'esplosione  assordante  che  mi  fece

    barcollare nel risucchio dello spostamento d'aria.

    «Ora  ecco  la strozzatura» gridò Chubby ansioso,  e mi tremò il cuore

    quando vidi come il canale si restringeva e com'era difeso da  speroni

    di corallo alti fino al ponte.

    Pareva  impossibile  che  il  "Dancer" passasse attraverso un'apertura

    così stretta.

    «Ci siamo,  incrocia le dita» e,  ancora a  pieno  regime,  guidai  il

    "Dancer"  nella  strettoia.  Vidi  Chubby aggrapparsi al parapetto con

    tutt'e due le mani e mi aspettai che l'acciaio si piegasse,  tanto era

    forte la sua presa.

    Eravamo a metà strada quando urtammo,  con uno schianto lacerante.  Il

    "Dancer" rollò, esitando.

    Nello stesso istante un altro proiettile  esplose  vicino.  Inondò  il

    ponte di schegge di corallo e frammenti sibilanti d'acciaio,  ma io me

    ne  accorsi  appena,   mentre  tentavo  di  far  superare   il   varco

    all'imbarcazione.

    Mi  allontanai  dalla  parete  e il suono lacerante di strofinio corse

    lungo la fiancata di dritta.  Per un  attimo  restammo  bloccati,  poi

    un'altra grossa ondata verde ci spinse avanti, liberandoci dalla morsa

    del corallo, e fummo oltre la strettoia. Il "Dancer" guizzò in avanti.

    «Va' di sotto, Chubby» gridai. «Controlla che non ci siano falle nello

    scafo.»  Il sangue gli scorreva da un taglio sul mento prodotto da una

    scheggia, ma si tuffò giù per la scaletta.

    Con un altro tratto di mare aperto davanti a  noi,  potei  voltarmi  a

    guardare  la  motovedetta.  Era quasi nascosta da un blocco di corallo

    che si frapponeva tra noi,  ma  sparava  in  fretta  e  all'impazzata.

    Pareva  che  si  fosse  fermata  all'ingresso  del  canale,  forse per

    raccogliere Daly...  ma  sapevo  che  ormai  non  avrebbe  tentato  di

    seguirci.  Avrebbe  impiegato  quattro  ore  per  fare il giro fino al

    canale principale, sul lato opposto dei Tre Vecchi.

    Davanti a noi si profilò l'ultima svolta del canale  e  lo  scafo  del

    "Dancer"  toccò  nuovamente  il  corallo;  il  suono  sembrò lacerarmi

    l'anima.  Poi alla  fine  sbucammo  nella  fossa  profonda  dietro  la

    barriera  principale,  un'arena  circolare  d'acqua  profonda trecento

    metri,  circondata da pareti di corallo e aperta  solo  attraverso  il

    Gunfire Break ai selvaggi frangenti dell'Oceano Indiano.

    Chubby ricomparve alle mie spalle. «A prova di bomba, Harry. Non passa

    nemmeno una goccia.»

    Ora   per   la  prima  volta  eravamo  perfettamente  visibili  per  i

    cannonieri,  a ottocento metri  dall'altro  lato  della  barriera,  e,

    voltando  nella  fossa,  il "Dancer" presentò loro la murata.  Come se

    capissero che questa era la loro ultima occasione ci bersagliarono, un

    colpo dopo l'altro.

    I proiettili ci cadevano intorno  sollevando  grandi  spruzzi,  troppo

    vicini  per lasciarmi un margine di scelta.  Virai nuovamente,  puntai

    verso lo stretto passaggio e lanciai  il  "Dancer"  a  tutta  velocità

    verso il varco nella barriera.

    Mi  affidai alla barca e quando avemmo superato il punto senza ritorno

    mi sentii lo stomaco attanagliato dall'orrore, guardando attraverso il

    varco il mare aperto. Pareva che tutto l'oceano stesse indietreggiando

    davanti a noi,  raccogliendo le forze per abbattersi  come  un  mostro

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    sfrenato sul piccolo battello fragile.

    «Chubby» esclamai con voce sorda «guarda un po' laggiù.»

    «Harry» bisbigliò lui «questa è una buona occasione per pregare.»

    E  il  "Dancer" corse avanti coraggioso a sfidare questo imprevedibile

    Golia del mare.

    L'onda si gonfiava,  inarcando le mostruose spalle come per  caricare,

    si levava sempre più in alto,  una parete di verde vetroso che sentivo

    crepitare come un incendio nell'erba secca.

    Un altro colpo ci sfiorò, ma me ne accorsi appena,  mentre il "Dancer"

    sollevava la prua e cominciava a scalare quella montagna.

    La  cresta  in  alto  sfumava  verso  il verde chiaro,  cominciando ad

    arricciarsi, e il "Dancer" vi salì come su un ascensore.

    Il ponte s'inclinò forte e noi ci aggrappammo impotenti al parapetto.

    «Si capovolgerà» gridò Chubby quando lo scafo cominciò  a  impennarsi.

    «Sta ribaltandosi!»

    «Avanti»  gridai  al  "Dancer".  «Taglia  l'onda!» E come se mi avesse

    sentito lo scafo affondò la prua affusolata nella cresta dell'onda  un

    attimo prima che ricadesse su di noi, fracassando la chiglia.

    Fummo travolti da un verde inferno ruggente di massicce pareti d'acqua

    alte quasi due metri, che spazzarono il "Dancer" da prua a poppa, e lo

    scafo barcollò come sotto un colpo mortale.

    Poi d'un tratto sbucammo fuori alle spalle dell'onda e sotto di noi si

    aprì  una  valle,  un abisso spalancato in cui il "Dancer" si slanciò,

    ricadendo in un salto a corpo morto.

    Lo scafo urtò la superficie con uno schianto  terrificante  che  parve

    paralizzarlo e mandò al tappeto Chubby e me. Ma mentre io mi rimettevo

    in  piedi  a  fatica,  il  "Dancer"  si scrollò di dosso le tonnellate

    d'acqua che aveva imbarcato e corse a incontrare l'onda seguente.

    Era più piccola,  e il "Dancer" tagliò la cresta e la  superò  con  un

    guizzo da delfino.

    «Sei  un  tesoro»  gridai,  e la barca prese velocità,  affrontando la

    terza ondata come  un  saltatore  di  razza.  Poco  lontano  un  altro

    proiettile da tre libbre solcò il cielo,  ma ormai eravamo fuori tiro,

    in corsa verso il  vasto  orizzonte  dell'oceano,  e  non  sentii  più

    nessuno sparo.

    La  guardia  che era svenuta sul ponte di poppa per colpa dello scotch

    doveva essere stata spazzata via  dall'onda  gigante,  perché  non  la

    rivedemmo  più.  Le  altre tre le lasciammo su un'isoletta,  cinquanta

    chilometri a nord di Saint Mary,  dove sapevo che c'era dell'acqua  in

    un  pozzo  salmastro e che certamente avrebbero ricevuto la visita dei

    pescatori di terraferma.

    Ormai avevano smaltito la sbornia  ed  erano  tutti  afflitti  da  una

    terribile  emicrania.  Restarono  lì,  sulla  spiaggia,  tre figurette

    smarrite,  mentre noi puntavamo a sud nella penombra  del  crepuscolo.

    Quando  rientrammo  in  porto  era  buio.  Trovai  un  ormeggio  senza

    accostarmi al molo dell'Ammiragliato.  Non volevo che i danni evidenti

    subiti dal "Dancer" dessero la stura alle congetture degli isolani.

    Chubby  e  Angelo andarono a riva col canotto ma io ero troppo esausto

    per fare quello sforzo e senza neanche cenare crollai  sulla  cuccetta

    doppia  nella  cabina  principale e dormii come un sasso finché non mi

    svegliò Judith, alle nove del mattino.  Angelo l'aveva mandata a bordo

    con una casseruola di pesce e pancetta.

    «Chubby e Angelo sono andati da "Ma" Eddy a comprare il necessario per

    riparare la barca» mi spiegò. «Saranno qui a momenti.»

    Io  divorai la colazione e andai a radermi e a fare la doccia.  Quando

    tornai era ancora là,  seduta sull'orlo della cuccetta.  Evidentemente

    aveva qualcosa da discutere con me.

    Tagliò  corto  ai miei goffi tentativi di fasciare la ferita e mi fece

    sedere mentre se ne occupava lei.

    «Signor Harry,  non avrà intenzione  di  far  ammazzare  o  finire  in

    prigione  il  mio  Angelo,  vero?» mi domandò.  «Se continua di questo

    passo, lo farò restare a terra.»

    «Questa è bella, Judith.» Risi della sua ansia. «Perché non lo manda a

    Rawano per tre anni, mentre lei resta qui?»

    «Non è gentile, signor Harry.»

    «La vita non è molto gentile,  Judith» replicai,  in tono  più  dolce.

    «Angelo e io facciamo del nostro meglio. Anche solo per tenere a galla

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    la mia barca devo correre dei rischi. Qualche volta insieme ad Angelo.

    Mi  ha  detto  che  ha  risparmiato abbastanza da comperarvi una bella

    casetta su,  vicino alla chiesa.  Il denaro l'ha guadagnato  lavorando

    con me.»

    Finì  di  sistemare  la  fasciatura  in  silenzio  e  quando  fece per

    andarsene l'afferrai per la mano e la trattenni.  Non volle guardarmi,

    finché non la presi per il mento e le sollevai il viso.  Era una bella

    bambina, con grandi occhi grigio fumo e la pelle liscia come la seta.

    «Non si agiti,  Judith.  Angelo è come un fratello per  me.  Lo  terrò

    d'occhio.»

    Lei studiò a lungo il mio viso. «Dice sul serio, vero?» mi chiese.

    «Sul serio.»

    «Le credo» disse alla fine, e sorrise. I suoi denti erano bianchissimi

    contro la pelle d'ambra dorata. «Mi fido di lei.»

    Le  donne  me  lo  dicono  sempre.  "Mi fido di te." Tanto di cappello

    all'intuito femminile.

    «Date il mio nome a uno dei vostri figli, va bene?»

    «Al primo,  signor Harry.» Fece balenare un sorriso  e  i  suoi  occhi

    scuri s'illuminarono. «E' una promessa.»

    «Dicono  che quando si cade da cavallo bisognerebbe rimontare in sella

    subito... tanto per non perdere il controllo dei nervi, signor Harry.»

    Fred Coker era seduto  alla  sua  scrivania  nell'agenzia  di  viaggi,

    voltando  le  spalle  a un manifesto che raffigurava un Beefeater e il

    Big Ben...  "Ritmi d'Inghilterra",  diceva.  Avevamo appena discusso a

    lungo  la  comune preoccupazione per la condotta sleale dell'ispettore

    Peter Daly, per quanto sospettassi che l'ansia di Coker fosse di molto

    inferiore alla mia.  Aveva riscosso in anticipo la sua  provvigione  e

    nessuno  gli aveva messo la testa in un nodo scorsoio,  né gli avevano

    quasi affondato la barca.  Ora affrontammo l'argomento  se  il  nostro

    rapporto d'affari dovesse continuare.

    «Dicono  anche,  signor  Coker,  che  un uomo con le pezze al culo non

    dovrebbe fare troppo il difficile» ribattei,  e  gli  occhi  di  Coker

    scintillarono di soddisfazione. Annuì.

    «E questo, signor Harry, è probabilmente il detto più saggio.»

    «Accetterò  di tutto,  signor Coker.  Uomini,  armi o zanne.  Una cosa

    sola;  il prezzo è salito a diecimila  dollari  a  corsa...  tutti  in

    anticipo.»

    «Anche a quel prezzo,  troveremo lavoro per lei» promise, e mi accorsi

    che fino ad allora avevo lavorato per quattro soldi.

    «Presto» insistetti.

    «Prestissimo»  rispose.   «Lei  è  fortunato.   Ormai  non  credo  che

    l'ispettore Daly tornerà a Saint Mary.  Risparmierà la percentuale che

    gli pagavamo di solito.»

    «Mi deve almeno questo» convenni.

    Nelle sei settimane seguenti feci tre  viaggi  notturni.  Due  carichi

    umani e uno di casse... tutti a sud del fiume in acque portoghesi.

    Tutt'e due gli uomini erano negri taciturni,  vestiti di tute militari

    mimetiche,  e  dovetti  portarli  all'estremo  sud.  Infiltrazioni  in

    profondità.  Sbarcarono  su spiagge isolate e io continuai per qualche

    tempo a  chiedermi  quali  terribili  missioni  dovessero  compiere...

    quante  sofferenze  e  quante  vittime  sarebbero  scaturite da quegli

    sbarchi clandestini.

    Il  carico  di  merci  comprendeva  diciotto  casse  lunghe  di  legno

    contrassegnate  con ideogrammi cinesi.  Le prendemmo in consegna da un

    sommergibile al largo del canale e  le  scaricammo  alla  foce  di  un

    fiume, trasbordandole su imbarcazioni formate da coppie di canoe unite

    fra loro per assicurarne la stabilità. Non scambiammo parola con anima

    viva e nessuno ci infastidì.

    Furono  passeggiate  e  io  riscossi  al  netto  diciottomila dollari,

    sufficienti per far arrivare me e i miei uomini alla fine della  bassa

    stagione nello stile cui eravamo abituati.  Quel che più contava,  gli

    intervalli di quiete e di riposo furono sufficienti a far  rimarginare

    le  ferite  e  a ridarmi le forze.  All'inizio restavo disteso per ore

    sull'amaca sotto le palme, a leggere o a dormire.  Poi man mano che mi

    riprendevo  nuotai,  pescai  e mi arrostii al sole,  andai in cerca di

    ostriche e  di  granchi...  finché  non  ridiventai  forte,  snello  e

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    abbronzato.

    La  ferita  si  rimarginò  formando  una  cicatrice dura e irregolare,

    tributo all'abilità di chirurgo di MacNab,  che  mi  si  attorcigliava

    intorno  al torace e sulla schiena come un dragone violaceo infuriato.

    Su un punto non si era sbagliato: il danno imponente  inferto  al  mio

    braccio  sinistro  l'aveva  lasciato  rigido e indebolito.  Non potevo

    sollevare il gomito più su della spalla e persi il titolo di  campione

    di braccio di ferro con Chubby al bar del Lord Nelson.  Ciò nonostante

    speravo che il nuoto e l'esercizio regolare lo rinforzassero.

    Man mano che mi  tornavano  le  forze,  altrettanto  avveniva  per  la

    curiosità  e  il  senso  dell'avventura.  Cominciai a sognare il pacco

    avvolto nella tela al largo di Big Gull. In uno dei sogni nuotavo fino

    al fondale e aprivo il pacco: conteneva una minuscola figura femminile

    della misura di una statuina di Dresda,  una sirena dorata con il  bel

    viso  di  May  e  i seni superbi;  la coda aveva la forma aggraziata a

    falce del marlin.  La sirenetta sorrideva timida e mi tendeva la mano.

    Sul palmo teneva uno scellino d'argento lucente.

    "Sesso,  denaro e pesca", pensai al mio risveglio. "Buon vecchio Harry

    senza complicazioni,  un vero bocconcino per  Freud."  Fu  allora  che

    capii che presto sarei andato a Big Gull.

    Arrivammo  quasi  alla  fine  della  stagione  prima  che  riuscissi a

    convincere Fred Coker a organizzarmi una vera  e  propria  partita  di

    pesca,  ma andò tutta in aceto, come il vino scadente. I clienti erano

    due industriali tedeschi  obesi  e  flaccidi,  accompagnati  da  mogli

    grasse e ingioiellate. Lavorai sodo per loro e riuscii a procurare dei

    pesci ai due uomini.

    Il  primo  era  un  bel  marlin  nero,  ma il cliente bloccò la lenza,

    aggrappandosi al mulinello quando il pesce era ancora vivace e in vena

    di correre.  Riuscì a sollevare dal sedile il  monumentale  posteriore

    del  tedesco,  e prima che potessi sbloccare per lui il mulinello,  la

    mia canna da  trecento  dollari  era  finita  giù  sulla  frisata.  Il

    fiberglass della canna si era spezzato come un fiammifero.

    L'altro  cliente,  dopo  essersi  lasciato sfuggire due pesci decenti,

    penò e  sudò  tre  ore  per  un  neonato  di  marlin  azzurro.  Quando

    finalmente  lo  attirò  a portata di fiocina,  dovetti farmi forza per

    affondare  l'acciaio,   e  mi   vergognavo   troppo   per   appenderlo

    all'Ammiragliato.  Scattammo  le  fotografie  a  bordo  del "Dancer" e

    portai il pesce a terra di contrabbando,  avvolto nella  tela  cerata.

    Come   Fred  Coker,   avevo  anch'io  una  reputazione  da  difendere.

    L'industriale tedesco, invece, era tanto entusiasta della sua prodezza

    da far scivolare nelle mie grinfie avide una gratifica di  cinquecento

    dollari.  Io  gli  assicurai  che era un pesce davvero magnifico,  una

    bugia che valeva almeno  mille  dollari.  Ricambio  sempre  con  buona

    misura.  Poi il vento girò a sud, la temperatura dell'acqua nel canale

    scese di quattro gradi e i pesci sparirono.  Per una decina di  giorni

    ci  spingemmo  a  nord,  ma  ormai  era finita,  un'altra stagione era

    conclusa.

    Smontammo e ripulimmo tutta l'attrezzatura da pesca  e  la  riponemmo,

    avvolta  in  uno  spesso  strato  di grasso giallo.  Tirai in secco il

    "Dancer" sullo scivolo del bacino di rifornimento e ne  esaminammo  lo

    scafo,  ripulendolo  e  rinnovando  i  rattoppi  provvisori  che avevo

    applicato per rimediare ai danni subiti a Gunfire Reef.

    Poi verniciammo la barca fino a  farla  brillare,  lustra  e  superba,

    prima  di rimetterla in mare e portarla all'ormeggio.  Qui lavorammo a

    tempo   perso   sulle   sovrastrutture,    scrostando   la    vernice,

    scartavetrando, riverniciando e controllando l'impianto elettrico, qua

    ristabilendo un contatto, là sistemando un filo.

    Non avevo fretta. Dovevano passare tre settimane prima che arrivassero

    i  prossimi  clienti...  una  spedizione  di  biologi  marini  di  una

    università canadese.

    Nel frattempo le giornate rinfrescavano e sentivo rinascere in  me  la

    salute e il benessere fisico.  Cenavo al palazzo del Governo,  a volte

    perfino una sera alla settimana,  e ogni volta dovevo raccontare tutta

    la  storia  della sparatoria con Guthrie e Materson.  Il presidente la

    conosceva a memoria e mi  correggeva  se  tralasciavo  anche  un  solo

    dettaglio.  La  scena  terminava  sempre  col presidente che esclamava

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    eccitato: «Faccia vedere la  cicatrice,  signor  Harry»  e  io  dovevo

    sbottonare la camicia da sera inamidata al tavolo della cena.

    Furono  bei giorni pigri.  La vita scorreva placida sull'isola.  Peter

    Daly non tornò più a Saint Mary, e dopo sei settimane Wally Andrews fu

    promosso al ruolo di ispettore e comandante delle  forze  di  polizia.

    Uno dei suoi primi gesti fu quello di restituirmi la carabina FN.

    Questo  periodo tranquillo era venato d'impazienza dal fremito segreto

    di anticipazione che provavo.  Sapevo che un giorno non lontano  sarei

    tornato  a  Big  Gull  e  alla questione in sospeso che giaceva laggiù

    nelle  acque  basse  e  limpide...   e  mi  trastullavo   con   quella

    consapevolezza.

    Poi,  un  venerdì,  stavo concludendo in bellezza la settimana col mio

    equipaggio, nel bar del Lord Nelson.  Con noi c'era Judith,  che aveva

    sostituito  lo  sciame  che  prima si raccoglieva intorno ad Angelo la

    sera del venerdì.  Aveva una buona influenza su  di  lui,  Angelo  non

    beveva più fino a stordirsi.

    Chubby  e  io avevamo appena cominciato il primo duetto della serata e

    stonavamo appena di poche battute,  quando Marion scivolò  sul  sedile

    accanto a me.

    Le  passai un braccio intorno alle spalle e le accostai alle labbra il

    mio boccale mentre lei beveva avidamente,  ma la distrazione m'indusse

    a precedere ancor più Chubby nella canzone.

    Marion  lavorava  al  centralino  dell'Hilton  Hotel.  Era una ragazza

    carina e minuta, con un viso sexy e lunghi capelli neri lisci. Era lei

    che Mike Guthrie aveva usato come punchingball tanto tempo prima.

    Appena Chubby e io arrivammo faticosamente alla fine  del  ritornello,

    Marion mi disse: «C'è una signora che chiede di lei, signor Harry».

    «Che genere di signora?»

    «In albergo,  una delle ospiti,  è arrivata con l'aereo di stamattina.

    Sapeva già il suo nome.  Vuole vederla.  Io le ho  detto  che  l'avrei

    incontrata stasera e le avrei trasmesso il messaggio.»

    «Che aspetto ha?» chiesi interessato a Marion.

    «E' bella, signor Harry. E poi è una vera signora.»

    «Sembra  proprio il mio tipo» riconobbi,  ordinando una pinta di birra

    per Marion.

    «Non va a trovarla adesso?»

    «Con te vicino,  Marion,  tutte le belle  signore  del  mondo  possono

    aspettare fino a domani.»

    «Oh,  signor Harry, lei è un vero demonio» ridacchiò lei, facendosi un

    po' più vicina.

    «Harry» disse Chubby al mio fianco «ora ti dirò una cosa che non ti ho

    mai detto prima.» Bevve una lunga sorsata dal boccale,  poi  proseguì,

    gli  occhi inondati di lacrime sentimentali.  «Harry,  ti voglio bene,

    amico. Ti voglio bene più che a mio fratello.»

    Arrivai all'Hilton pochi minuti prima di mezzogiorno.  Marion uscì dal

    suo  cubicolo dietro il banco della reception.  Aveva ancora la cuffia

    intorno al collo.

    «La aspetta sul terrazzo.» Indicò un punto oltre la vasta  zona  della

    reception,  con  il  suo  arredamento pseudo-hawaiano.  «La bionda col

    bikini giallo.»

    Stava leggendo una rivista,  distesa bocconi su uno dei lettini per il

    sole,  e  teneva  la  schiena  rivolta verso di me,  così che la prima

    impressione che ebbi di lei fu una massa di capelli  biondi,  folti  e

    lucenti,  pettinati  in su come la criniera di un leone e poi lasciati

    ricadere in una cascata d'oro liquido.

    Sentì i miei passi sul pavimento.  Si guardò intorno,  spinse in  alto

    sulla testa gli occhiali da sole, poi si alzò, e io mi accorsi che era

    minuscola,  non  mi  arrivava  più su del torace.  Anche il bikini era

    ridottissimo e  mostrava  un  ventre  piatto  e  liscio  dall'ombelico

    profondo,  spalle sode leggermente abbronzate, seni piccoli e una vita

    perfetta.  Le gambe avevano una bella linea e i piedi  graziosi  erano

    infilati  in  un  paio di sandali aperti,  le unghie smaltate di rosso

    chiaro per intonarsi alle unghie  lunghe  delle  mani  piccole  e  ben

    fatte.

    Aveva un trucco pesante ma applicato con rara abilità, così che la sua

    pelle  aveva  un  soffice splendore perlato e il colorito si accendeva

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    con discrezione sulle guance e sulle labbra. Gli occhi erano frangiati

    da lunghe ciglia finte scure e le palpebre avevano un tocco di  colore

    e di matita che conferiva loro un'esotica linea orientale.

    "Giù  la testa,  Harry!" Qualcosa dentro di me gridò un avvertimento e

    per poco non obbedii.  Conoscevo bene questo tipo,  ce  n'erano  state

    altre come lei,  piccole,  insinuanti e feline, e ne portavo ancora le

    cicatrici,  nel fisico e nell'anima.  Ma una cosa che nessuno può dire

    del vecchio Harry è che corra al riparo davanti a una donna.

    Coraggiosamente feci un passo avanti socchiudendo gli occhi e piegando

    la  bocca  nel  largo  sorriso  da  ragazzino cattivo che di solito le

    elettrizza.

    «Salve» dissi. «Sono Harry Fletcher.»

    Lei mi guardò,  cominciando dai piedi  e  risalendo  per  un  metro  e

    novanta fino in cima, dove il suo sguardo indugiò pensieroso, e sporse

    in fuori il labbro inferiore.

    «Salve»  rispose,  la voce velata,  ansimante e attentamente studiata.

    «Sono Sherry North, la sorella di Jimmy.»

    Eravamo sulla veranda del mio bungalow,  di sera.  L'aria era fresca e

    il  tramonto  era un'esibizione spettacolare di fuochi pirotecnici che

    s'infiammavano e svanivano sulle palme.

    Lei beveva un magnifico Pimms con frutta e ghiaccio,  uno dei pilastri

    della  mia  seduzione,  e  portava  un caffetano di stoffa leggera che

    lasciava trasparire le linee del suo corpo mentre si  appoggiava  alla

    ringhiera,  illuminata  alle  spalle  dal tramonto.  Non potevo essere

    certo se sotto il caffetano portasse qualcosa o meno...  questo  e  il

    tintinnio  del ghiaccio nel suo bicchiere mi distraevano dalla lettera

    che  stavo  leggendo.   Me  l'aveva  mostrata  come  parte  delle  sue

    credenziali.  Era  una  lettera  di Jimmy North,  scritta pochi giorni

    prima della sua morte.  Riconoscevo la calligrafia e i giri  di  frase

    erano tipici di quel ragazzo vivace e impaziente.  Via via che leggevo

    dimenticai la presenza della sorella nel ricordo del passato.  Era una

    lunga  lettera  entusiasta,  scritta come a un'amica affezionata,  con

    velate allusioni alla missione e al suo esito positivo,  alla promessa

    di  un  futuro  in  cui ci sarebbero state ricchezza,  allegria e ogni

    bene.

    Sentii una fitta di rimpianto per il ragazzo nella sua solitaria tomba

    marina,  per i sogni perduti che vagavano alla deriva  con  lui,  come

    alghe in putrefazione.

    Poi  a un tratto il mio nome mi balzò incontro dalla pagina: "...  non

    potrà non piacerti, Sherry. E' grosso e rude,  tutto cicatrici e segni

    di  colpi come un vecchio gattone che ogni sera se ne va a lottare nei

    vicoli.  Ma sotto la scorza giurerei che in realtà ha un cuore tenero.

    Sembra  che  abbia  un  debole  per  me.  Mi  dà  perfino dei consigli

    paterni!".

    C'erano altre frasi dello stesso tenore e m'imbarazzarono tanto che la

    gola mi si chiuse e dovetti bere un sorso di whisky.  L'alcool mi fece

    lacrimare gli occhi e annebbiare la vista,  mentre finivo di leggere e

    ripiegavo  il  foglio.   Tesi  la  lettera  a  Sherry  e  mi   diressi

    all'estremità  della  veranda.  Rimasi là qualche minuto a guardare la

    baia. Il sole scivolò sotto l'orizzonte e l'aria si fece di colpo buia

    e fredda.

    Tornai indietro e accesi la lampada,  disponendola in alto in modo che

    il  riverbero  non ci cadesse negli occhi.  Lei mi osservò in silenzio

    finché non mi fui versato un  altro  scotch,  sistemandomi  sulla  mia

    poltrona di giunco.

    «D'accordo» dissi. «Lei è la sorella di Jimmy. E' venuta a Saint. Mary

    per vedermi. Perché?»

    «Le piaceva,  non è vero?» mi chiese, allontanandosi dalla ringhiera e

    venendo a sedersi accanto a me.

    «Mi piaceva un sacco di gente. E' una mia debolezza.»

    «E' morto... voglio dire, è andata come hanno scritto i giornali?»

    «Sì» confermai. «E' andata così.»

    «Le ha mai detto che cosa stavano facendo laggiù?»

    Scossi la testa. «Erano molto circospetti e io non ho fatto domande.»

    Allora lei rimase in silenzio, immergendo nel bicchiere le lunghe dita

    affusolate per pescare una fetta di ananas,  mordicchiando  il  frutto

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    con i piccoli denti bianchi,  leccandosi le labbra con la lingua rosea

    e appuntita.

    «Dato che Jimmy la trovava simpatico e si  fidava  di  lei,  e  poiché

    penso  che  lei sappia più di quanto abbia detto...  e anche perché ho

    bisogno del suo aiuto, le racconterò una storia, va bene?»

    «Ho un debole per le storie» risposi.

    «Ha mai sentito parlare del "pogo"?» mi chiese.

    «Sicuro, è un giocattolo per bambini.»

    «E' anche il nome in codice di un velivolo sperimentale  della  marina

    americana, a decollo verticale, con qualsiasi tempo.»

    «Ah,  sì,  ho  visto  un articolo sul "Time Magazine".  Discussioni al

    senato. Ho dimenticato i particolari.»

    «C'era chi si opponeva allo stanziamento di cinquanta milioni  per  lo

    sviluppo del progetto.»

    «Sì, ora ricordo.»

    «Due  anni  fa,  il sedici agosto per essere esatti,  un prototipo del

    "pogo" decollò dalla  base  dell'aeronautica  di  Rawano,  sull'Oceano

    Indiano.  Era  armato  con  quattro  missili "orca marina" aria-acqua,

    tutti equipaggiati con testate tattiche nucleari...»

    «Doveva essere un carico "pericoloso".»

    Lei annuì. «L'"orca marina" è un missile progettato con una concezione

    totalmente  nuova.   E'  un  congegno  antisommergibile  che  cerca  e

    individua mezzi navali in superficie o in immersione.  Può distruggere

    una portaerei o cambiare elemento,  passando  dall'aria  all'acqua,  e

    scendere in profondità per distruggere i sottomarini nemici.»

    «Accidenti»  esclamai,  prendendo un altro po' di whisky.  Ora stavamo

    parlando di roba grossa.

    «Si ricorda il sedici agosto di quell'anno... lei era qui?»

    «Sì, ma è passato tanto tempo. Mi rinfreschi la memoria.»

    «Il ciclone Cynthia» disse lei.

    «Ma sì,  certo.»  Era  arrivato  sull'isola  ruggendo,  con  venti  da

    duecentoquaranta  chilometri  l'ora,   portandosi  via  il  tetto  del

    bungalow e minacciando di travolgere  il  "Dancer",  all'ormeggio  nel

    porto grande. Questi cicloni non erano insoliti nella zona.

    «Il  "pogo" era decollato da Rawano pochi minuti prima dell'arrivo del

    ciclone.  Dodici minuti dopo il pilota si era lanciato e  l'aereo  era

    precipitato  in  mare con i quattro missili nucleari e la scatola nera

    ancora a bordo. Il radar di Rawano era stato neutralizzato dal tifone.

    Non l'avevano seguito sullo schermo.»

    La cosa cominciava finalmente ad avere senso.

    «Cosa centra Jimmy in tutto questo?»

    Fece un gesto impaziente. «Aspetti» disse,  poi proseguì.  «Ha qualche

    idea del valore che quel carico potrebbe avere sul mercato libero?»

    «Immagino che potrebbe fissarlo lei stessa... a occhio e croce un paio

    di  milioni di dollari.» E l'anima nera del vecchio Harry si riscosse;

    negli ultimi tempi aveva fatto un po' di esercizio  e  aveva  affilato

    gli artigli.

    Sherry  annuì.  «Il  collaudatore  del  "pogo" era un comandante della

    marina statunitense, di nome William Bryce.  L'aereo aveva accusato un

    guasto  a  quindicimila  metri,  poco  prima  di  uscire dalla zona di

    turbolenza.  Lui aveva  lottato  fino  alla  fine,  era  un  ufficiale

    coscienzioso,  ma  a  centocinquanta  metri  aveva  capito  che non ce

    l'avrebbe fatta.  Si era espulso  col  seggiolino  e  aveva  osservato

    l'aereo affondare.»

    Sherry  parlava  con  proprietà  e  la scelta delle parole era strana,

    troppo tecnica per una donna.  Aveva imparato  tutto  questo,  ne  ero

    certo. Da Jimmy? O da qualcun altro?

    "Ascolta e prendi nota, Harry", mi dissi.

    «Billy  Bruce rimase tre giorni su un gommone in mezzo all'oceano,  in

    balia del tifone,  prima che l'elicottero di  salvataggio  partito  da

    Rawano lo ritrovasse. Aveva avuto tempo per riflettere. Una delle cose

    cui  aveva  pensato era stato il valore del carico,  paragonato al suo

    salario di comandante.  La testimonianza  che  rese  alla  commissione

    d'inchiesta  omise  il  particolare  che  il "pogo" era precipitato in

    vicinanza della terra e  che  Bryce  era  riuscito  a  fare  il  punto

    basandosi  su  elementi  riconoscibili  del  paesaggio prima di essere

    sbalzato in mare dal tifone.»

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    Non riuscivo a trovare nessun punto debole nella storia...  sembrava a

    posto... e molto interessante.

    «La  commissione d'inchiesta pronunciò il verdetto "errore del pilota"

    e Bryce rassegnò le dimissioni. La sua carriera era stata distrutta da

    quel verdetto.  Lui decise di  guadagnarsi  la  pensione  e  anche  di

    riabilitare  la  propria  reputazione.  Avrebbe  costretto  la  marina

    americana a riscattare i suoi missili "orca marina" e ad accettare  la

    testimonianza della scatola nera.»

    Volevo  fare  una  domanda,  ma Sherry me lo impedì con un gesto.  Non

    gradiva che il suo monologo fosse interrotto.

    «Jimmy aveva svolto dei lavori per la marina  americana,  un'ispezione

    allo  scafo  di una delle loro portaerei,  e in quella occasione aveva

    conosciuto Billy Bryce.  Erano diventati amici,  e  così  Billy  Bryce

    naturalmente  si  rivolse  a  Jimmy.  Fra  loro  non  avevano capitali

    sufficienti  per  la  spedizione  che  intendevano  organizzare,  così

    progettarono di trovare dei finanziatori.  Non è il genere di annuncio

    che si può pubblicare sul "Times", e ci stavano lavorando quando Billy

    Bryce restò ucciso con  la  sua  Thunderbird  sulla  M4,  vicino  allo

    svincolo di Heathrow.»

    «Pare che su quest'affare pesi una specie di maledizione» osservai.

    «Lei  è  superstizioso,  Harry?» mi chiese,  guardandomi con quei suoi

    occhi obliqui da tigre.

    «Non ci scherzo sopra»  ammisi,  e  lei  annuì,  come  se  archiviasse

    l'informazione prima di proseguire.

    «Dopo  la  morte di Billy,  Jimmy portò avanti il progetto.  Trovò dei

    finanziatori.  Non volle dirmi chi ma intuii  che  non  erano  di  suo

    gusto. Venne qui con loro... e il resto lo sa.»

    «Il  resto  lo  so»  ammisi,  e involontariamente massaggiai i tessuti

    ispessiti della cicatrice, attraverso la seta della camicia.  «Eccetto

    il luogo dell'incidente, naturalmente.»

    Ci fissammo negli occhi.

    «Gliel'ha detto?» le chiesi, e lei scosse la testa.

    «Be',  è stata una storia interessante.» Le sorrisi.  «Peccato che non

    possiamo controllare se sia vera.»

    Lei si alzò di scatto e  si  diresse  alla  balaustra  della  veranda.

    Incrociò  le braccia ed era così infuriata che se avesse avuto la coda

    l'avrebbe agitata come una leonessa.

    Attesi che si riprendesse e venne il momento in cui si  strinse  nelle

    spalle e si rivolse a me. Il suo sorriso era luminoso.

    «Be',  questo  è  quanto!  Pensavo  di avere diritto a una parte della

    ricompensa,  Jimmy era mio fratello...  e ho fatto  molta  strada  per

    venire a trovarla, perché lei gli piaceva e lui si fidava. Pensavo che

    potessimo  lavorare  insieme...  ma capisco che se vuole tutto per sé,

    non c'è molto che io possa fare in merito.»

    Scosse i capelli,  che s'incresparono alla luce della lampada.  Io  mi

    alzai.

    «Ora la porto a casa» dissi sfiorandole il braccio. Lei tese le mani e

    le sue dita s'intrecciarono nei folti capelli ricci sulla mia nuca.

    «La  strada  fino  a  casa  è  lunga»  bisbigliò,  e  mi  attirò  giù,

    sollevandosi sulla punta dei piedi.

    Le sue labbra erano dolci e umide.  Poco dopo si tirò  indietro  e  mi

    sorrise, gli occhi vacui e il respiro corto e affrettato.

    «Forse dopo tutto non è stato un viaggio sprecato, vero?»

    La  sollevai;  era leggera come una bambina e mi strinse le braccia al

    collo,  premendo la guancia sulla mia  mentre  la  portavo  dentro  il

    bungalow.  Parecchio  tempo  prima avevo imparato a mangiare a sazietà

    ogni volta che c'era del cibo,  perché non si sa mai quando colpirà la

    carestia.

    Anche  la  luce  soffusa  dell'alba  era troppo cruda per lei,  mentre

    giaceva distesa  nel  sonno  sotto  la  zanzariera  sul  grande  letto

    matrimoniale. Il trucco si era sbaffato e incrostato e lei dormiva con

    la  bocca  aperta.  La  criniera  di  capelli  biondi era un cespuglio

    aggrovigliato,  che stonava col triangolo di  folti  ricci  scuri  sul

    pube.  Quella  mattina  non  m'ispirava  altro che repulsione,  perché

    durante la notte  avevo  scoperto  che  Miss  Sherry  era  una  sadica

    scatenata.

    Scivolai  fuori  del  letto  e rimasi in piedi a guardarla per qualche

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    istante,  scrutando il suo viso addormentato  e  cercando  invano  una

    rassomiglianza con Jimmy North.  La lasciai e,  ancora nudo, uscii dal

    bungalow e scesi alla spiaggia.

    La marea era salita e io  m'immersi  nell'acqua  limpida  e  fresca  e

    arrivai all'ingresso della baia. Nuotavo veloce, spingendo forte in un

    crawl  australiano,  e  l'acqua  salata  mi  faceva  bruciare i graffi

    profondi che avevo sulla schiena.

    Fu una delle mie mattine fortunate: oltre  la  barriera  corallina  mi

    aspettavano i miei vecchi amici, un branco di grosse focene dal muso a

    bottiglia, che mi vennero incontro rapide, la coda alta che solcava la

    superficie scura mentre saltavano sulle onde. Fecero circolo intorno a

    me,  fischiando  e  sbuffando,  gli  sfiatatoi  alla  sommità del capo

    spalancati come minuscole bocche e il muso enorme fisso in un  sorriso

    idiota di piacere.

    Mi  stuzzicarono  per  dieci  minuti  prima  che uno dei grossi maschi

    anziani mi concedesse di aggrapparmi  alla  pinna  dorsale  per  farmi

    trainare.  Fu una lunga, eccitante corsa in slitta, con l'acqua che mi

    spumeggiava intorno al torace e alle  spalle.  Mi  portò  a  ottocento

    metri dalla riva prima che la forza dell'acqua mi disarcionasse.

    La nuotata di ritorno fu lunga,  con i delfini che mi giravano intorno

    e mi davano di tanto in tanto un buffetto  amichevole  sulla  schiena,

    invitandomi  a bordo per un'altra corsa.  Alla barriera fischiarono il

    loro addio e scivolarono via con grazia e quando approdai a  riva  ero

    felice.  Il braccio mi faceva un po' male, ma era il dolore sano della

    guarigione, della forza che tornava.

    Il letto era vuoto e la porta del bagno era chiusa.  Probabilmente  si

    stava   depilando   le  ascelle  col  mio  rasoio.   Provai  un  lampo

    d'irritazione,  un vecchio lupo  solitario  come  me  non  ama  vedere

    disturbata la sua routine. Usai la doccia degli ospiti per sciacquarmi

    di  dosso  la  salsedine  e l'irritazione svanì sotto il getto d'acqua

    bollente.  Poi,  fresco,  ma con la barba lunga  e  affamato  come  un

    pitone,  mi  diressi in cucina.  Stavo friggendo prosciutto affumicato

    con ananas e imburrando grosse fette di  pane  tostato,  quando  entrò

    Sherry.

    Era di nuovo impeccabile.  Nella borsa di Gucci doveva aver portato un

    intero arsenale di cosmetici.

    Il suo sorriso fu smagliante. «Buongiorno,  tesoro» mi disse e venne a

    baciarmi, indugiando a lungo. Adesso ero ben disposto verso il mondo e

    tutte  le  sue  creature.  Non provavo più repulsione per questa donna

    brillante.  Il buonumore dei delfini era ritornato e la  loro  gaiezza

    doveva  essere  contagiosa.  A  tavola ridemmo parecchio e dopo portai

    fuori sulla veranda la caffettiera.

    «Quando andiamo a cercare il "pogo"?» mi chiese all'improvviso,  e  io

    mi  versai  un'altra  tazza  di  caffè  nero e forte senza rispondere.

    Sherry North aveva evidentemente deciso che una notte in sua compagnia

    mi aveva reso schiavo per la vita. Ora,  forse non sarò un conoscitore

    di  donne,  ma  d'altra  parte  ho  avuto qualche esperienza...  e non

    valutavo le grazie di Sherry North al prezzo di quattro missili  "orca

    marina" e della scatola nera di un prototipo segreto.

    «Appena  mi  mostrerai  la strada» risposi con prudenza.  E' un antico

    preconcetto femminile che quando un  uomo  fa  godere  una  donna  con

    abilità e sangue freddo,  bisogna costringerlo a pagare per questo. Io

    ho sempre pensato che dovesse succedere il contrario.

    Lei si sporse in avanti e mi afferrò il  polso;  gli  occhi  da  tigre

    erano a un tratto grandi e pieni di sentimento.

    «Dopo la notte scorsa» bisbigliò,  con voce roca «so che ci aspetta un

    grande futuro, Harry. Io e te, insieme.»

    Quella notte ero rimasto sveglio per ore, e avevo preso una decisione.

    Qualunque cosa ci  fosse  nel  pacco  non  era  un  aereo  intero,  ma

    probabilmente   una  piccola  parte...   qualcosa  che  permetteva  di

    identificarlo con certezza.  Quasi certamente non era  né  la  scatola

    nera  né  uno  dei  missili.  Jimmy  North  non  avrebbe  avuto  tempo

    sufficiente per rimuovere  la  scatola  dalla  fusoliera,  nemmeno  se

    avesse  saputo  dov'era situata e avesse avuto gli arnesi adatti.  Del

    resto il pacco aveva  forma  e  dimensioni  sbagliate  per  essere  un

    missile;  era  un  oggetto tozzo e arrotondato,  dalla sagoma ben poco

    aerodinamica.

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    Era quasi certamente un pezzo abbastanza innocuo.  Se portavo  con  me

    Sherry  North  a  recuperarlo,  avrei  giocato solo una carta bassa...

    anche se poteva sembrare una briscola.

    Non avrei rivelato niente, nemmeno la posizione dell'incidente.

    Viceversa, avrei stanato le tigri dall'erba alta.  Sarebbe stato molto

    istruttivo  vedere  come avrebbe reagito madamigella North,  una volta

    convinta di conoscere il punto esatto dell'incidente.

    «Harry» bisbigliò lei di nuovo. «Ti prego» e si fece più vicina. «Devi

    credermi.  Finora non ho mai  provato  niente  di  simile.  Dal  primo

    istante che ti ho visto... ho capito...»

    Mi  riscossi  dai  miei  calcoli  e mi chinai verso di lei,  assumendo

    un'espressione di passione cieca e desiderio sfrenato.

    «Tesoro» cominciai,  ma la voce mi morì in gola e  la  strinsi  in  un

    abbraccio goffo e impetuoso,  sentendola irrigidirsi seccata quando le

    scompigliai la complicata pettinatura.  Mi accorsi dello sforzo che le

    costava rispondermi con altrettanto calore.

    «Provi  anche tu la stessa sensazione?» mi chiese lei dalle profondità

    del mio abbraccio,  schiacciata contro il mio petto,  e  per  il  solo

    gusto di vederla recitare il ruolo che si era assunta,  la sollevai di

    nuovo e la portai fino al letto disfatto.

    «Ti dimostrerò quello che provo per te» mormorai con voce roca.

    «Tesoro» protestò lei disperata «non ora.»

    «Perché no?»

    «Abbiamo tanto da fare. Ci sarà tempo in seguito... tutto il tempo del

    mondo.» Ostentando una certa riluttanza,  la rimisi in  piedi,  ma  in

    realtà   le   ero   grato,   perché  sapevo  che  dopo  una  colazione

    pantagruelica a base di prosciutto affumicato e tre tazze di caffè, mi

    sarebbero venuti i bruciori di stomaco.

    Mezzogiorno era passato da pochi minuti  quando  lasciai  il  porto  e

    virai,  diretto a sud-est.  Ai miei uomini avevo detto di prendersi un

    giorno a terra, non avevo voglia di pescare.

    Chubby aveva lanciato un'occhiata a Sherry North,  distesa  in  bikini

    sul ponte di poppa,  e aveva corrugato la fronte senza compromettersi,

    ma Angelo aveva roteato gli occhi in modo espressivo, chiedendo: «Gita

    di piacere?» con una certa inflessione.

    «Sei il solito malizioso» l'avevo rimproverato,  e lui era scoppiato a

    ridere di gusto, come se gli avessi fatto il migliore complimento, e i

    due si erano allontanati lungo il molo.

    Il "Dancer" zigzagò attraverso la collana di atolli e di isole finche,

    poco  dopo  le tre,  percorsi il profondo canale fra Little Gull e Big

    Gull e sbucai nel tratto  sgombro  dal  fondale  basso  fra  la  costa

    orientale di Big Gull e le acque azzurre del Mozambico.

    C'era  una  brezza  sufficiente  a  rendere  la giornata piacevolmente

    fresca e a sollevare bianchi spruzzi di spuma dalla superficie.

    Guidai con cura il "Dancer",  sbirciando in alto verso il Big Gull,  e

    quando  mi  trovai  nella  posizione indicata dai punti di riferimento

    spinsi un po' sopravvento per indietreggiare. Poi spensi i motori e mi

    precipitai a prua per mollare l'ancora.

    «E' questo il punto?» Sherry aveva osservato tutto quello  che  facevo

    con il suo sguardo sconcertante da felino.

    «E'  questo»  e  recitando  il  ruolo  dell'innamorato rincretinito mi

    arrischiai a strafare, indicandole i punti di riferimento.

    «Ho tirato una linea fra quelle due palme, quelle inclinate in avanti,

    e quella palma isolata proprio sulla linea dell'orizzonte, la vedi?»

    Lei annuì in silenzio e io sorpresi di nuovo  quell'espressione,  come

    se le informazioni fossero archiviate e mandate a memoria con cura.

    «Ora che cosa facciamo?» mi chiese.

    «E' qui che Jimmy si è immerso» le spiegai. «Quando è risalito a bordo

    era  molto  eccitato.  Ha  confabulato  con  gli  altri...  Materson e

    Guthrie... e mi è sembrato che anche loro fossero contagiati dalla sua

    eccitazione.  Jimmy è ridisceso con una fune e un telone.  E'  rimasto

    giù a lungo... e quando è risalito e cominciata la sparatoria.»

    «Sì» annuì lei con impazienza: l'accenno alla morte del fratello parve

    lasciarla  indifferente.  «Ora dovremmo andare,  prima che qualcuno ci

    veda.»

    «Andare?» le chiesi,  guardandola.  «Pensavo che dovessimo scendere  a

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    dare un'occhiata.» Lei si accorse dell'errore.  «Dovremmo organizzarci

    per bene, tornare quando saremo preparati, quando avremo preso accordi

    per recuperare e trasportare...»

    «Amore» le dissi sorridendo.  «Non ho fatto tutta  questa  strada  per

    rinunciare a dare almeno una sbirciatina.»

    «Non  credo  che  dovresti,  Harry» mi gridò dietro,  mentre stavo già

    aprendo il portello della sala macchine.

    «Torniamo un'altra volta» insistette,  ma io scesi  la  scaletta  fino

    alla  rastrelliera  che  conteneva  le  bombole  e presi una coppia di

    Draeger.  Inserii la valvola di respirazione e provai la  guarnizione,

    risucchiando aria dalla maschera di gomma.

    Dando  una  rapida  occhiata su al portello per assicurarmi che non mi

    stesse spiando,  mi sporsi per far  scattare  l'interruttore  nascosto

    nell'impianto  elettrico.  Ora  nessuno  poteva  avviare  i motori del

    "Dancer" mentre ero in immersione.

    Calai da poppa la scaletta e poi mi vestii sul ponte di poppa: muta di

    neoprene con le maniche corte e  il  cappuccio,  cintura  zavorrata  e

    coltello, maschera Nemrod che copriva tutto il viso e pinne.

    Mi  assicurai sulle spalle il respiratore,  presi un rotolo di fune di

    nylon leggera e me l'agganciai alla cintura.

    «Che cosa succede se non torni?» chiese Sherry, mostrando per la prima

    volta apprensione. «Voglio dire, cosa ne sarà di me?»

    «Morirai di dolore» le dissi,  e scavalcai il parapetto,  non  con  un

    salto  all'indietro  da  esibizionista,  ma  semplicemente  usando  la

    scaletta, molto più consona alla mia età e dignità.

    L'acqua era trasparente come aria di  montagna  e  mentre  scendevo  a

    testa  in  giù potevo vedere ogni dettaglio del fondo,  quindici metri

    più in basso.

    Era un paesaggio di corallo, rischiarato da un pulviscolo di luce e da

    colori fantastici.  Mi lasciai trascinare  verso  il  basso,  dove  le

    sagome   scolpite  del  corallo  erano  ammorbidite  e  sfumate  dalla

    vegetazione marina e animate dagli scintillii preziosi di  miriadi  di

    pesci tropicali.  C'erano gole profonde e torri imponenti,  e in mezzo

    prati di alghe e distese di sabbia di un bianco accecante.

    I miei rilevamenti erano stati notevolmente accurati, tenuto conto del

    fatto che ero semincosciente per la perdita di sangue.  Avevo  gettato

    l'ancora  quasi  sopra  l'involto  di tela.  Era adagiato su uno degli

    spazi liberi di sabbia corallina,  con l'aspetto di un orribile mostro

    marino  verde  e tozzo,  con i capi delle funi che fluttuavano intorno

    come tentacoli.

    Mi accovacciai vicino e banchi di minuscoli pesciolini a strisce  nere

    e  oro  mi  si affollarono intorno tanto numerosi che dovetti soffiare

    delle bollicine per disperderli, prima di potermi mettere al lavoro.

    Sganciai dalla cintura la fune di nylon e ne  fissai  un'estremità  al

    pacco  con una serie di mezzi nodi.  Poi risalii in superficie filando

    lentamente la fune.  Emersi dieci metri a poppa del  "Dancer",  nuotai

    fino  alla  scaletta  e  mi  arrampicai sul ponte di poppa.  Assicurai

    saldamente l'estremità del cavo al bracciolo del sedile da pesca.

    «Che cos'hai trovato?» domandò ansiosa Sherry.

    «Non so ancora» le dissi. Avevo resistito alla tentazione di aprire il

    pacco sul fondo.  Speravo che valesse la  pena  di  osservare  la  sua

    espressione mentre svolgevo il telone.

    Mi  tolsi  l'attrezzatura  e  la  sciacquai  con  acqua dolce prima di

    riporre il tutto con cura. Volevo che la tensione la rodesse ancora un

    po'.

    «Maledizione, Harry. Tiriamolo su» esplose lei alla fine.

    Ricordavo che il pacco era pesante come il piombo, ma allora ero quasi

    privo di forze. Ora puntai i piedi contro il capo di banda e cominciai

    a recuperare la fune. Era pesante, ma non impossibile da sollevare,  e

    arrotolai il cavo bagnato man mano che arrivava,  con il movimento del

    polso del vecchio pescatore di tonni.

    La tela verde sbucò in  superficie  accosto  alla  barca,  zampillando

    acqua.  Io mi sporsi in avanti e afferrai la fune annodata,  issando a

    bordo con un solo sforzo il fagotto,  che tintinnò pesantemente  sulla

    coperta del ponte di poppa... metallo contro legno.

    «Aprilo» ordinò impaziente Sherry.

    «Subito,  signora»  risposi,  ed  estrassi il coltello delle esche dal

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    fodero nella cintura. Era affilato come un rasoio e recise le funi con

    un sol colpo.

    Sherry si chinò in avanti mentre io scostavo le pieghe umide e  rigide

    del telone, osservando il suo viso.

    L'espressione  avida  di  anticipazione  si  accese improvvisamente di

    trionfo quando riconobbe l'oggetto.  Lo riconobbe prima di  me  e  poi

    subito stese sul viso e sugli occhi un velo d'incertezza.

    Fu ben fatto, era un'attrice di talento. Se non l'avessi osservata con

    attenzione, il rapido gioco di emozioni mi sarebbe sfuggito.

    Abbassai  gli  occhi sull'umile oggetto per cui già tanti uomini erano

    stati uccisi o mutilati, e rimasi diviso fra sorpresa,  perplessità...

    e delusione. Non era quello che mi aspettavo.

    Era corroso per metà come da una smerigliatrice,  il bronzo era ruvido

    e lucente e solcato da profonde  incisioni.  La  parte  superiore  era

    intatta,  offuscata da uno spesso strato di verderame, mentre l'anello

    era integro e il gioco  di  ornamenti  era  ancora  chiaro  nonostante

    l'erosione: uno stemma araldico,  o almeno una parte,  e un'iscrizione

    in un elaborato stile antico.  L'iscrizione era frammentaria,  in gran

    parte  corrosa  in  una  linea  ondulata  irregolare,  che lasciava il

    metallo ruvido e lucente.

    Era la campana di una nave, fusa in bronzo massiccio;  doveva avere un

    peso  vicino  ai  cinquanta chili,  con una sommità a cupola munita di

    anello e un'ampia bocca svasata.

    La rovesciai,  incuriosito.  Il battaglio si era corroso del  tutto  e

    cirripedi e altri crostacei avevano incrostato l'interno. L'alternarsi

    di  logorio  e  corrosione  all'esterno  mi  lasciò perplesso,  finché

    all'improvviso non mi balenò la soluzione.  Avevo visto altri  oggetti

    metallici  ridotti  così  dopo  una  lunga immersione.  La campana era

    sprofondata per metà nel  fondale  sabbioso,  la  parte  scoperta  era

    rimasta  esposta  all'impeto  della  marea  di  Gunfire Break e i fini

    granelli di sabbia corallina  avevano  eroso  circa  mezzo  centimetro

    dello strato esterno di metallo.

    Invece  la  parte  che era rimasta sepolta era protetta e ora esaminai

    con maggiore attenzione le lettere superstiti:

    "VVN L"

    C'era una V o una W spezzata, seguita subito dopo da una N perfetta...

    poi uno spazio vuoto e una L  intera;  il  resto  dell'iscrizione  era

    stato cancellato.

    Lo  stemma  inciso  nel  metallo sul lato opposto della campana era un

    disegno intricato con due bestie rampanti,  probabilmente  leoni,  che

    sostenevano  uno  scudo  e una testa coperta da una cotta di maglia di

    ferro.  Mi sembrò vagamente familiare e mi chiesi  dove  l'avessi  già

    visto.

    Mi sedetti sui talloni e guardai Sherry North.  Non riuscì a sostenere

    il mio sguardo.

    «Buffo» riflettei ad alta voce.  «Un jet con  una  grossa  campana  di

    bronzo sospesa al muso.»

    «Non capisco» disse lei.

    «Nemmeno  io.»  Mi  alzai e andai a prendere un sigaro nel salone.  Lo

    accesi e tornai e sedermi sul sedile da pesca.

    «D'accordo, sentiamo la tua teoria.»

    «Non so, Harry. Davvero non so.»

    «Facciamo qualche tentativo» suggerii. «Comincio io.»

    Lei si diresse verso il parapetto.

    «Il jet si è trasformato in una  zucca»  azzardai.  «Che  ne  dici  di

    questa?»

    Sherry si girò verso di me.  «Harry,  non mi sento bene.  Penso che mi

    verrà la nausea.»

    «E io cosa devo fare?»

    «Torniamo subito indietro.»

    «Stavo pensando a un'altra immersione... per dare un'altra occhiata in

    giro.»

    «No» rispose in fretta lei.  «Per favore,  non ora.  Non mi  sento  in

    grado di farlo. Andiamo. Possiamo tornare, se sarà necessario.»

    Osservai il suo viso,  cercando le tracce del malessere, ma pareva una

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    réclame di alimenti dietetici.

    «D'accordo» accettai;  non aveva molto senso fare un'altra immersione,

    in  realtà,  ma  solo  io  lo  sapevo.  «Andiamo a casa e cerchiamo di

    trovare una soluzione.»

    Mi alzai e cominciai a riavvolgere la campana nella tela.

    «Cosa vuoi farne?» mi chiese lei con ansia.

    «La rispedisco a fondo»  le  risposi.  «Certo  non  ho  intenzione  di

    portarla a Saint Mary e metterla in mostra al mercato.  Come hai detto

    tu, possiamo sempre tornare indietro.»

    «Sì» convenne subito lei. «Hai ragione, naturalmente.»

    Lasciai cadere ancora una  volta  l'involto  fuori  bordo  e  andai  a

    salpare l'ancora.

    Durante  il viaggio di ritorno scoprii che la presenza di Sherry North

    sul ponte mi irritava.  C'erano molte cose su  cui  dovevo  riflettere

    seriamente. La mandai sotto coperta a fare il caffè.

    «Forte»  le ordinai «e con quattro cucchiaini di zucchero.  Ti servirà

    per il mal di mare.»

    Entro due minuti lei ricomparve sul ponte.

    «Il fornello non si accende» protestò.

    «Prima devi aprire le bombole del gas.» Le  spiegai  dove  trovare  le

    chiavette.  «E  non  scordarti  di  chiuderle  quando avrai finito,  o

    trasformerai la barca in una bomba.»

    Fece un caffè schifoso.

    Era tarda sera quando raggiunsi l'ormeggio nel porto grande  e  faceva

    buio  quando  deposi  Sherry  all'ingresso dell'albergo.  Non m'invitò

    nemmeno a bere un drink,  ma mi baciò sulla guancia e disse:  «Tesoro,

    stasera  lasciami  sola.  Sono  esausta.  Ora  vado a letto.  Lasciami

    riflettere su tutto questo e quando mi sentirò meglio potremo fare dei

    piani più precisi».

    «Passo a prenderti qui... a che ora?»

    «No» rispose lei. «Verrò io a raggiungerti sulla barca.  Presto,  alle

    otto.  Aspettami lì,  potremo parlare in privato. Solo noi due, nessun

    altro... va bene?»

    «Porterò il "Dancer" al molo alle otto» le promisi.

    Era stata una giornata faticosa e tornando a casa mi  fermai  al  Lord

    Nelson.

    Angelo e Judith erano in uno dei séparé, con una compagnia rumorosa di

    coetanei.  Mi chiamarono a gran voce e mi fecero spazio in mezzo a due

    ragazze.

    Portai loro un boccale a testa e Angelo  si  piegò  verso  di  me  con

    atteggiamento confidenziale.  «Ehi,  comandante,  ti serve il furgone,

    stasera?»

    «Sì» risposi.  «Per tornare a  casa.»  Sapevo  quello  che  stava  per

    chiedermi, naturalmente. Angelo si comportava come se possedesse delle

    azioni dell'automezzo.

    «Stasera  c'è  una  gran  festa giù a South Point,  capo.» A un tratto

    largheggiava parecchio in "capo" e "comandante".  «Pensavo che  se  ti

    portassi io a Turtle Bay,  poi ci lasceresti il camioncino. Passerei a

    rilevarti domattina presto, lo giuro.»

    Presi una sorsata dal mio boccale e tutti  mi  osservarono,  le  facce

    ansiose, pieni di speranza.

    «E' una grossa festa signor Harry» insistette Judith. «Per favore.»

    «Passa a prendermi alle sette in punto,  Angelo,  capito?» e ci fu uno

    scoppio spontaneo di risate e di sollievo.  Fecero  una  colletta  per

    pagarmi un altro boccale.

    Trascorsi  una notte agitata,  con il sonno irrequieto intervallato da

    periodi  di  veglia.  Sognai  di  nuovo  di  tuffarmi  per  recuperare

    l'involto di tela.  Ancora una volta conteneva una minuscola sirena di

    Dresda,  ma questa aveva il viso di  Sherry  North  e  mi  offriva  il

    modello  di un caccia a reazione,  che si trasformò in una zucca d'oro

    appena allungai la mano. Sulla zucca erano incise le lettere

    "VVN L"

    Dopo mezzanotte cominciò a piovere,  massicce pareti  d'acqua  che  si

    rovesciavano  dalle  grondaie,  mentre  i rami di palma si stagliavano

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    contro il cielo notturno alla luce dei fulmini.

    Pioveva ancora quando scesi sulla spiaggia, e i goccioloni esplodevano

    in minuscole raffiche di spruzzi sul mio corpo nudo.  Il mare era nero

    nella  luce  plumbea  e  i  rovesci  di  pioggia  si  stendevano  fino

    all'orizzonte. Nuotai da solo fin oltre la barriera,  ma quando tornai

    a  riva mi accorsi che l'esercizio fisico non aveva prodotto il solito

    effetto benefico.  Il mio corpo era livido  e  scosso  da  brividi  di

    freddo,  e  continuava a opprimermi una sensazione vaga ma persistente

    di angoscia.

    Avevo  appena  finito  la  colazione  quando  lungo   la   pista   che

    attraversava la piantagione di palme arrivò il camioncino sprofondando

    nelle  pozzanghere,  tutto  inzaccherato  di fango e con i fari ancora

    accesi.

    Nel cortile Angelo suonò il clacson e gridò: «Sei pronto Harry?» e  io

    corsi fuori con un'impermeabile di tela cerata sulla testa.

    Angelo  puzzava  di birra e aveva la parlantina sciolta e gli occhi un

    po' velati.

    «Guido io» gli dissi, e mentre attraversavamo l'isola lui mi fornì una

    descrizione sommaria della grande festa...  a quanto mi riferì  pareva

    che  fra  nove  mesi  ci  sarebbe stata un'epidemia di nascite a Saint

    Mary.

    Io lo ascoltavo solo a metà,  perché man mano che ci avvicinavamo alla

    città la mia inquietudine aumentava.

    «Sai  Harry,  i  ragazzi  mi  hanno  incaricato di ringraziarti per il

    prestito del camioncino.»

    «Va bene, Angelo.»

    «Ho mandato Judith sulla barca...  farà un po' d'ordine e metterà  sul

    fuoco il caffè.»

    «Non doveva disturbarsi» dissi io.

    «Ci teneva a farlo... è un modo per ringraziarti, capisci.»

    «E' una brava ragazza.»

    «Sicuro,  Harry.  Io  l'adoro»  ribatté  Angelo,  attaccando a cantare

    "Devil Woman" alla maniera di Mick Jagger.

    Quando superammo la cresta della collina e cominciammo  a  scendere  a

    valle  provai  un  impulso  improvviso.  Invece  di  proseguire  lungo

    Frobisher  Street  fino   al   porto,   svoltai   a   sinistra   sulla

    circonvallazione  sopra  il  forte  e l'ospedale e risalii il viale di

    banani fino all'Hilton Hotel.  Parcheggiai il furgone sotto la tettoia

    e mi diressi verso le reception.

    Al  banco non c'era nessuno,  a quell'ora di mattina,  ma io mi sporsi

    per sbirciare nel cubicolo di Marion.  Lei era al centralino e  quando

    mi vide si tolse la cuffia, il viso rischiarato da un largo sorriso.

    «Salve, signor Harry.»

    «Ciao, Marion, tesoro.» Le ricambiai il sorriso. «La signorina North è

    in camera?»

    La sua espressione cambiò. «Oh, no» rispose. «E' partita più di un'ora

    fa.»

    «Partita?» La fissai.

    «Sì. E' andata all'aeroporto col pullman dell'albergo. Doveva prendere

    il  volo delle sette e trenta.» Marion guardò l'orologio giapponese da

    quattro soldi che portava al  polso.  «Dovrebbe  essere  decollato  da

    dieci minuti.»

    La notizia mi prese del tutto in contropiede. Per parecchi secondi non

    riuscii a capire... e poi di colpo intuii la verità.

    «Oh, Gesù Cristo» esclamai. «Judith!» e corsi verso il furgone. Angelo

    vide il mio viso mentre arrivavo e si raddrizzò sul sedile,  smettendo

    di cantare.

    Saltai al posto di  guida  e  avviai  il  motore,  spingendo  a  fondo

    l'acceleratore, e compiendo una brusca curva su due ruote

    «Cosa c'è, Harry?» domandò Angelo.

    «Judith» chiesi cupo. «Quando l'hai mandata giù alla barca?»

    «Quando sono uscito per venire a prenderti.»

    «E' andata direttamente?»

    «No,  prima  doveva fare il bagno e vestirsi.» Rispose con franchezza,

    senza nascondere il  fatto  che  avevano  dormito  assieme.  Avvertiva

    l'urgenza  della  situazione.  «Poi  doveva scendere per la valle fino

    alla fattoria.» Angelo aveva una camera in affitto presso una famiglia

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    di contadini,  su vicino alla sorgente: era una passeggiata di  cinque

    chilometri.

    «Dio,  facci arrivare in tempo» mormorai. Il camion rombava giù per il

    viale e io cambiai marcia  a  velocità  record  mentre  superavamo  il

    cancello  sbandando  e  pigiai  di  nuovo  l'acceleratore a tavoletta,

    uscendo dalla sbandata a forza di braccia.

    «Che diavolo succede, Harry?» ripeté lui.

    «Dobbiamo impedirle di salire a  bordo  del  "Dancer"»  risposi  torvo

    mentre scendevamo rombando sulla circonvallazione. Passato il forte si

    aprì  davanti  a  noi  la vista del porto.  Angelo non perse tempo con

    domande inutili.  Lavoravamo insieme da troppo tempo e si fidava della

    mia parola.

    Il  "Dancer" era ancora all'ormeggio fra gli altri battelli dell'isola

    e Judith sul canotto era arrivata a metà strada dalla  riva.  Anche  a

    quella  distanza  riuscii  a distinguere la minuscola figura femminile

    sul banco del rematore e a riconoscere i colpi di remo corti e decisi.

    Era una vera isolana e remava come un uomo.

    «Non ce la faremo» disse Angelo.  «Arriverà prima che noi raggiungiamo

    l'Ammiragliato.»

    In  cima  a  Frobisher  Street pigiai il palmo della mano sinistra sul

    clacson e suonando a tutt'andare tentai di farmi strada, ma era sabato

    mattina,  giorno di mercato,  e le vie si stavano già  affollando.  La

    gente di campagna era scesa in città,  usando bestie,  carri e veicoli

    antidiluviani.  Imprecando esasperato insistetti sul clacson per farmi

    largo.

    Impiegammo  tre  minuti  a  coprire  gli ottocento metri dalla sommità

    della strada al molo dell'Ammiragliato.

    «Oh, Dio» esclamai,  chinandomi in avanti sul sedile mentre sfrecciavo

    oltre il cancello e attraversavo i binari della ferrovia.

    Il  canotto  era  legato  a  fianco  del  "Wave Dancer" e Judith stava

    scavalcando  il  parapetto.  Portava  una  camicia  verde  smeraldo  e

    pantaloncini corti di tela Jeans. I capelli erano legati sulla schiena

    in una lunga treccia.

    Frenai  slittando  vicino  ai  depositi  di  ananas  e  Angelo e io ci

    precipitammo lungo il molo.

    «Judith!» gridai, ma la mia voce non arrivò attraverso il porto.

    Judith sparì nel salone senza guardarsi indietro. Angelo e io corremmo

    giù fino in fondo al pontile.  Gridavamo tutti e due a perdifiato,  ma

    avevamo  il  vento  contrario  e  il  "Dancer" era lontano cinquecento

    metri.

    «C'è una barca!» Angelo mi prese per il braccio. Era una vecchia barca

    per la pesca degli sgombri,  ma era incatenata a un anello infisso nel

    molo di pietra.

    Ci  saltammo  dentro,  superando  un  salto  di  due  metri  e mezzo e

    ricadendo uno addosso all'altro sul banco del rematore.  Mi arrampicai

    fino  alla  catena  di  ormeggio.  Era  composta  di  maglie d'acciaio

    temperato di mezzo centimetro  e  un  massiccio  lucchetto  di  ottone

    l'assicurava all'anello.

    Mi  avvolsi  due  tratti  di catena attorno al polso,  puntai un piede

    contro il molo e tirai.  Il lucchetto saltò e io ricaddi  all'indietro

    sul fondo della barca.

    Angelo aveva già i remi negli scalmi.

    «Rema» gli gridai. «Rema come un pazzo.»

    Io mi misi a prua facendo megafono con le mani mentre chiamavo Judith,

    tentando di sovrastare con la voce il vento.

    Angelo  remava  con foga frenetica,  tenendo i remi piatti e bassi nel

    tratto di ritorno e poi caricandovi tutto il suo peso quando mordevano

    l'acqua Il suo respiro esplodeva in un grugnito aspro a ogni colpo.

    A metà strada dal "Dancer" un altro rovescio di  pioggia  ci  avvolse,

    velando  tutto il porto grande di un sudario fluttuante di veli grigi.

    Mi pungeva il viso, tanto che dovetti socchiudere gli occhi.

    Il profilo del "Dancer" era offuscato dalla pioggia grigia,  ma  ormai

    ci stavamo avvicinando. Cominciavo a sperare che Judith fosse andata a

    spazzare  e  riordinare le cabine prima di avvicinare un fiammifero al

    fornello  a  gas  nella  cambusa.  Cominciavo  perfino  a  sperare  di

    sbagliarmi...  a  sperare  che  Sherry North non mi avesse lasciato un

    regalo di addio.

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    Eppure sentivo ancora la mia voce parlare il giorno precedente. "Prima

    devi aprire le bombole principali  del  gas....  e  non  scordarti  di

    chiuderle quando avrai finito, o trasformerai la barca in una bomba."

    Ci  avvicinammo  ancora al "Dancer" che pareva quasi sospeso a fili di

    pioggia, di un bianco spettrale ed etereo nella nebbia.

    «Judith» gridai, ora doveva sentirmi... eravamo tanto vicini.  A bordo

    c'erano due bombole di gas butano da venticinque chili,  sufficienti a

    distruggere una grossa costruzione in muratura. Il gas era più pesante

    dell'aria,  una volta fuoriuscito doveva essersi  raccolto  in  basso,

    riempiendo  lo  scafo  del "Dancer" con una miscela esplosiva di gas e

    aria. Bastava solo una scintilla della batteria o di un fiammifero.

    Pregai di essermi sbagliato e gridai  ancora.  Poi  ad  un  tratto  il

    "Dancer" saltò in aria.

    Fu  un'esplosione  improvvisa,  un  terribile  lampo  azzurro  che  lo

    percorse tutto. Divise in due lo scafo con un possente colpo di maglio

    e squarciò le sovrastrutture, sollevandole come un coperchio.

    Sotto il colpo mortale il "Dancer" s'impennò e l'onda d'urto ci  colpì

    come  un  vento  di tempesta.  Subito avvertii il puzzo di elettricità

    dell'esplosione,  acre come l'odore  di  un  fulmine  che  si  abbatte

    sfrigolando sul ferro.

    Il "Dancer" morì sotto i miei occhi,  di una terribile morte violenta,

    poi lo scafo squarciato e senza vita ricadde all'indietro e le  fredde

    acque  grigie  lo invasero.  Il peso dei motori lo mandò rapidamente a

    fondo e sparì fra le onde sudicie del porto.

    Angelo e io restammo impietriti dall'orrore,  rannicchiati nella barca

    che  rollava  violentemente,  a  fissare  le acque agitate cosparse di

    rottami alla deriva...  tutto quel che rimaneva di una splendida barca

    e  di una bella ragazza.  Sentii un'immensa desolazione scendere su di

    me. Volevo gridare forte la mia angoscia, ma ero come paralizzato.

    Angelo  si  mosse  per  primo.  Balzò  in  piedi  lanciando  un  verso

    gutturale,  di  bestia  ferita.  Tentò di gettarsi in acqua,  ma io lo

    afferrai e lo trattenni.

    «Lasciami» gridò. «Devo andare da lei.»

    «No.» Lottai con lui nella barca che oscillava impazzita. «Non serve a

    niente, Angelo.»

    Anche se fosse potuto scendere giù a dodici metri di profondità,  dove

    ora  giaceva  lo  scafo  squarciato  del "Dancer",  quello che avrebbe

    trovato poteva farlo uscire di senno.  Judith si era trovata al centro

    dell'esplosione  e  doveva aver subito in pieno il terribile trauma di

    uno scoppio a distanza ravvicinata.

    «Lasciami,  maledizione.» Angelo liberò un braccio e mi colpì al viso,

    ma  io  anticipai il colpo e girai la testa.  Mi scalfì la pelle della

    guancia e capii che dovevo calmarlo.

    La barca era sul punto di rovesciarsi Anche se pesava venti chili meno

    di me,  Angelo lottava con forza frenetica.  Ora la chiamava per nome,

    con  un'inflessione  isterica  sempre  più  alta.  Mollai la presa che

    esercitavo sulla sua spalla con la mano e lo allontanai un po' da  me,

    prendendo la mira con cura.  Lo colpii di destro,  da non più di dieci

    centimetri.  Lo presi proprio nel punto sotto  l'orecchio  sinistro  e

    crollò  all'istante,   svenuto.  Lo  adagiai  sulle  assi  del  fondo,

    sistemandolo in una posizione comoda.

    Tornai al molo  senza  guardarmi  indietro.  Mi  sentivo  intontito  e

    svuotato.

    Scaricai Angelo sul molo,  accorgendomi del suo peso.  Lo portai su in

    ospedale, dov'era di turno MacNab.

    «Gli dia qualcosa per tenerlo a letto nelle prossime  ventiquattr'ore»

    dissi a MacNab, e lui cominciò a obiettare.

    «Apra  le  orecchie,  vecchia  tinozza  da  whisky» replicai piano «mi

    piacerebbe trovare una scusa per spaccarle la testa.»

    Impallidì al punto che i capillari dilatati sul naso  e  sulle  guance

    spiccarono nitidi.

    «Mi stia a sentire,  vecchio mio» cominciò.  Io feci un passo avanti e

    lui  spedì  subito  l'infermiera  di  turno   al   dispensario   degli

    stupefacenti.

    Trovai  Chubby  a  colazione  e  ci  misi  solo un minuto a spiegargli

    cos'era successo. Salimmo in camioncino al forte e Wally Andrews reagì

    in fretta.  Mise da parte la pila di deposizioni e altre pratiche e ci

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    aiutò  a  caricare  sul  furgone  l'attrezzatura  da  immersione della

    polizia: quando raggiungemmo il porto metà della popolazione di  Saint

    Mary  si  era  raccolta in una folla silenziosa e preoccupata lungo il

    molo.   Alcuni  avevano  visto  la  scena  e  tutti  avevano   sentito

    l'esplosione.

    Qualche  voce  qua  e  là  mi  fece  le condoglianze mentre caricavamo

    l'attrezzatura da immersione sulla barca da pesca.

    «Qualcuno trovi Fred Coker» gridai. «Ditegli di venire quaggiù con una

    borsa» e ci fu un brusio di commenti.

    «Ehi, signor Harry, c'era qualcuno a bordo?»

    «Chiamate Fred Coker e basta» ripetei,  e ci dirigemmo  a  remi  verso

    l'ormeggio del "Dancer".

    Mentre  Wally  teneva in posizione il canotto,  Chubby e io ci calammo

    nell'acqua torbida del porto.

    Il "Dancer" era disteso sul  fianco  a  dodici  metri  di  profondità:

    affondando doveva essersi rovesciato,  ma penetrare all'interno non fu

    un problema,  perché lo scafo era squarciato a metà lungo la  chiglia.

    Non c'era nessuna speranza che tornasse a galleggiare.

    Chubby attese presso lo squarcio mentre io entravo.

    Quel  che  restava della cambusa ora brulicava di branchi di pesci che

    guizzavano eccitati.  Erano intenti a divorare con frenesia  e  io  mi

    sentii soffocare,  imbavagliato dalla maschera del respiratore, quando

    vidi quello che stavano divorando.

    Capii che si trattava di Judith solo dai frammenti  di  tessuto  verde

    che  aderivano  ai brandelli di carne.  La portammo fuori in tre pezzi

    principali e la sistemammo nella borsa di tela fornita da Fred Coker.

    Mi rituffai subito e mi aprii la strada attraverso lo scafo fracassato

    fino al varco sotto la cambusa,  dove le due lunghe bombole  di  ferro

    del  gas  erano  ancora  assicurate  alle  loro  basi.  Tutt'e  due le

    chiavette erano aperte al massimo e qualcuno aveva staccato i tubi per

    lasciar defluire liberamente il gas.

    Non avevo mai provato una collera così intensa come quella che  sentii

    allora. Era tanto violenta perché era alimentata dalla mia perdita. Il

    "Dancer"  era  finito...  e il "Dancer" aveva rappresentato metà della

    mia vita.  Chiusi le chiavette e riattaccai i tubi.  Era una  faccenda

    privata... l'avrei risolta di persona.

    Quando  percorsi  il  molo  fino al furgone,  l'unico mio conforto era

    l'idea che il "Dancer"  era  assicurato.  Ci  sarebbe  stata  un'altra

    barca,  non tanto bella né tanto amata come il "Dancer", ma pur sempre

    una barca.

    Nella folla notai la faccia nera e  lucida  di  Hambone  Williams,  il

    traghettatore del porto. Da quarant'anni spingeva avanti e indietro la

    sua vecchia barca per tre pence a viaggio.

    «Hambone»  lo  chiamai.  «Hai portato qualcuno fino al "Dancer",  ieri

    sera?»

    «No, signor Harry.»

    «Proprio nessuno?»

    «Solo la sua cliente.  Aveva lasciato l'orologio  nella  cabina.  L'ho

    accompagnata a prenderlo.»

    «La signora?»

    «Sì, quella con i capelli gialli.»

    «A che ora, Hambone?»

    «Verso le nove... ho fatto male, signor Harry?»

    «No. Non pensarci più.»

    Seppellimmo Judith il giorno dopo a mezzogiorno.  Riuscii a procurarle

    un posto al cimitero accanto a suo padre e sua  madre.  Angelo  ne  fu

    contento.  Disse che non voleva si sentisse sola, lassù sulla collina;

    era ancora mezzo intontito dalla droga e accanto alla tomba rimase  in

    silenzio, con gli occhi spenti.

    La  mattina  dopo  noi  tre  cominciammo  il  lavoro  di  recupero sul

    "Dancer". Lavorammo sodo per dieci giorni e lo spogliammo di qualunque

    pezzo potesse avere un valore,  dai mulinelli da pesca  d'altura  alla

    carabina FN,  alle due eliche di bronzo.  Lo scafo e le sovrastrutture

    avevano subito danni tanto gravi da non avere più nessun valore.

    Alla fine di quel periodo il "Wave Dancer" era diventato  soltanto  un

    ricordo. Ho avuto molte donne, che ora sono solo un pensiero piacevole

    quando ascolto una certa canzone o sento un profumo particolare.  Come

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    loro,  il "Dancer" cominciava già  ad  allontanarsi  nel  passato.  Il

    decimo giorno mi recai a trovare Fred Coker... e appena misi piede nel

    suo  ufficio  capii  che  c'era qualcosa che non andava.  Era nervoso,

    lucido di sudore,  i suoi occhi  si  muovevano  a  scatti  dietro  gli

    occhiali  scintillanti  e  le  mani  gli guizzavano qua e là come topi

    spaventati,  passando sul tampone di carta  assorbente  o  salendo  ad

    aggiustare  il  nodo  della  cravatta  o a lisciare le rade ciocche di

    capelli  sul  cranio  lucido.   Sapeva  che  ero  venuto   a   parlare

    dell'assicurazione.

    «Ora non si agiti, signor Harry, per favore» mi raccomandò. Ogni volta

    che mi sento dire così, comincio ad agitarmi sul serio.

    «Cosa  c'è,  Coker?  Avanti!  Poche storie!» Battei un pugno sul piano

    della scrivania e  lui  sobbalzò  sulla  sedia  tanto  forte  che  gli

    occhiali cerchiati d'oro gli scivolarono sul naso.

    «Signor Harry, per favore...»

    «Avanti, piccolo verme miserabile!»

    «Signor Harry... si tratta dei premi d'assicurazione sul "Dancer".» Lo

    fissai.

    «Vede...  lei non aveva mai presentato nessuna denuncia... mi sembrava

    un tale spreco...»

    Ritrovai la  favella.  «Ha  intascato  i  premi»  bisbigliai,  tradito

    all'improvviso dalla voce. «Non li ha versati alla compagnia.»

    «Lei ha capito» ammise Fred Coker. «Lo sapevo che avrebbe capito.»

    Tentai di saltare sulla scrivania per risparmiare tempo,  ma inciampai

    e caddi.  Fred Coker balzò  dalla  sedia,  sgusciandomi  fra  le  dita

    protese   alla   cieca.   Uscì   di   corsa  dalla  porta  posteriore,

    sbattendosela alle spalle.

    Io sfondai la porta,  schiantando la serratura e lasciandola appesa ai

    cardini rotti.

    Fred  Coker correva come se avesse avuto alle calcagna tutti i diavoli

    dell'inferno,  il che sarebbe stato meglio per lui.  Lo  raggiunsi  al

    portone  che  dava  sul  vicolo e lo sollevai per la gola con una sola

    mano,  schiacciandogli la schiena contro una pila di bare  d'abete  da

    poco prezzo.

    Aveva  perso gli occhiali e piangeva terrorizzato,  grosse lacrime che

    sgorgavano lente dagli occhi miopi e indifesi.

    «Lo sai che sto per ammazzarti»  mormorai,  e  lui  gemette,  i  piedi

    penzoloni a quindici centimetri da terra.

    Tirai  indietro  il pugno destro e mi bilanciai saldamente sulle punte

    dei piedi. Gli avrei staccato la testa. Non potevo farlo...  ma dovevo

    colpire  qualcosa.  Piantai il pugno nella bara vicino al suo orecchio

    destro. Il compensato cedette,  fracassato per tutta la sua lunghezza.

    Fred Coker strillò come una ragazza isterica, e io lo mollai. Le gambe

    non lo sorressero e crollò sul cemento.

    Lo lasciai disteso lì a gemere e a singhiozzare di terrore...  e uscii

    in strada, più vicino alla bancarotta di quanto non fossi mai stato da

    dieci anni a questa parte.

    Il signor Harry si era trasformato d'un sol colpo  in  Fletcher,  topo

    del  molo  e vagabondo appiedato.  Era un caso classico di involuzione

    della specie...  prima di arrivare  al  Lord  Nelson  ragionavo  nello

    stesso  modo  di  dieci  anni  prima.  Calcolavo  già  le possibilità,

    cercando ancora una volta la grossa occasione.

    A quell'ora del pomeriggio Chubby e Angelo erano gli unici clienti del

    bar. Riferii la notizia e loro l'accolsero senza una parola. Non c'era

    niente da dire.

    Bevemmo in silenzio il primo bicchiere, poi chiesi a Chubby: «Che cosa

    farai?» e lui si strinse nelle spalle.

    «Ho ancora la vecchia baleniera...»  Era  un  sei  metri,  di  disegno

    tradizionale,  col ponte scoperto,  ma reggeva bene il mare. «Andrò di

    nuovo a pesca di "mozziconi",  credo.»  I  mozziconi  erano  i  grossi

    gamberi della barriera. Le code congelate rendevano bene. Era così che

    Chubby  si  era  guadagnato  il  pane  prima  che  il  "Dancer"  e  io

    arrivassimo a Saint Mary.

    «Avrai bisogno di  motori  nuovi,  quei  tuoi  vecchi  Sea  Gull  sono

    andati.»  Bevemmo un altro boccale,  mentre facevo il consuntivo delle

    mie finanze...  che diavolo,  duemila dollari non avrebbero fatto gran

    differenza  per  me.  «Ti comprerò due nuovi Evinrude da venti cavalli

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    per la barca, Chubby» mi offrii.

    «Non te lo permetterò, Harry.» Corrugò la fronte indignato e scosse la

    testa.  «Ho messo da parte abbastanza,  lavorando  per  te»  e  rimase

    inflessibile.

    «E tu, Angelo?» domandai.

    «Penso che mi venderò l'anima per un contratto a Rawano.»

    «No.»  Chubby si accigliò alla sola idea.  «Avrò bisogno di uomini per

    la barca.»

    Allora erano a posto.  Ne fui sollevato perché mi sentivo responsabile

    per  tutti  e due.  Ero particolarmente contento che ci fosse Chubby a

    tenere d'occhio Angelo.  Il ragazzo aveva preso molto male la morte di

    Judith.  Era  taciturno  e chiuso,  l'ombra del brillante Romeo di una

    volta.  L'avevo fatto lavorare sodo al recupero del "Dancer",  e  solo

    quello  pareva  potesse  dargli  il tempo necessario per guarire dalla

    ferita.

    Ciò nonostante ora cominciò a bere forte,  ammazzando  bicchierini  di

    scadente cognac locale con interi boccali di birra amara.  Questo è il

    modo più distruttivo di ubriacarsi che io conosca,  un po'  come  bere

    alcool metilico.

    Chubby  e  io  ce  la  prendevamo con calma,  facendo durare la nostra

    birra;  eppure sotto il tono scherzoso covava la certezza che  eravamo

    arrivati  a  un  bivio  e  da  domani in poi non avremmo più viaggiato

    insieme.  Questo dava alla serata la sottile amarezza di  una  perdita

    imminente.

    Quella  sera  c'era  in  porto  un  peschereccio sudafricano che aveva

    attraccato per fare rifornimento ed eseguire delle riparazioni. Quando

    alla fine Angelo perse conoscenza,  Chubby e io cominciammo a cantare.

    Sei  bravacci  dell'equipaggio  del  peschereccio  espressero  la loro

    disapprovazione nei termini più offensivi.  Chubby e io  non  potevamo

    lasciar correre insulti di quel genere.  Uscimmo tutti a discutere nel

    cortile sul retro.

    Fu una discussione epica e quando Wally Andrews arrivò  con  la  ronda

    arrestò tutti, perfino quelli che erano caduti nella mischia.

    «La  mia carne e il mio sangue...» seguitò a ripetere Chubby mentre ci

    avviavamo nelle  celle  sottobraccio,  barcollando.  «Si  è  rivoltato

    contro di me. Il figlio di mia sorella.»

    Wally  fu  tanto  comprensivo  da mandare uno degli agenti giù al Lord

    Nelson  a  prendere  qualcosa  per  rendere  meno  penosa  la   nostra

    prigionia.  Chubby  e  io  divenimmo  molto  amici  degli  uomini  del

    peschereccio nella cella accanto,  passandoci  avanti  e  indietro  la

    bottiglia fra le sbarre.

    Quando  la  mattina  dopo fummo rilasciati,  dato che Wally Andrews si

    rifiutava  di  dar  seguito  alle  accuse,  andai  a  Turtle  Bay  col

    camioncino  per chiudere il bungalow.  Controllai che i piatti fossero

    puliti e sparsi negli armadi qualche manciata di palline antitarme, ma

    non mi diedi la pena di chiudere le porte a chiave.  A Saint  Mary  il

    furto è sconosciuto.

    Per  l'ultima volta mi spinsi a nuoto oltre la barriera e aspettai una

    mezz'ora, sperando che arrivassero i delfini. Non si presentarono e io

    tornai indietro,  feci la doccia e mi cambiai,  presi la  mia  vecchia

    sacca  di tela e cuoio posata sul letto e uscii,  dirigendomi verso il

    camioncino parcheggiato in cortile.  Nell'attraversare la  piantagione

    di palme non mi voltai a guardare indietro, ma promisi a me stesso che

    sarei tornato.

    Parcheggiai  di  fronte all'albergo e accesi un sigaro.  Quando Marion

    finì il suo turno,  a mezzogiorno,  uscì dall'ingresso principale e si

    avviò lungo il viale con il sederino ancheggiante sotto la minigonna.

    Io fischiai e lei mi vide. Scivolò sul sedile accanto a me.

    «Signor  Harry,  mi  spiace  tanto per la barca...» Chiacchierammo per

    qualche minuto prima che potessi farle la domanda.

    «La signorina North,  quand'era ospite dell'albergo,  ha fatto qualche

    telefonata o ha mandato un telegramma?»

    «Non ricordo, signor Harry, ma potrei controllare. «Adesso?»

    «Sicuro» acconsentì Marion.

    «Ancora  una cosa,  potresti controllare anche se Dicky le ha scattato

    una foto?» Dicky era  il  fotografo  ambulante  dell'albergo:  c'erano

    buone  probabilità  che  avesse  nel  suo  archivio una foto di Sherry

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    North.

    Sparì per circa tre quarti d'ora, ma tornò con un sorriso di trionfo.

    «Ha spedito un telegramma la sera  prima  di  partire.»  Mi  tese  una

    velina. «La tenga pure» mi disse mentre leggevo il messaggio.

    Era indirizzato a: MANSON - FLAT 5 - CURZON STREET 97 - LONDON W.1.  e

    il testo diceva: CONTRATTO  FIRMATO.  TORNO  HEATHROW  VOLO  BOAC  316

    SABATO. Non c'era firma.

    «Dicky ha dovuto spulciare tutto l'archivio...  ma ne ha trovata una.»

    Mi porse una foto lucida formato quindici per dieci.  Ritraeva  Sherry

    North,  distesa  su  un lettino sul terrazzo dell'albergo.  Portava il

    bikini e gli occhiali da sole, ma la somiglianza era buona.

    «Grazie Marion.» Le porsi un biglietto da cinque sterline.

    «Accidenti,  signor Harry» esclamò  sorridendo  mentre  se  l'infilava

    nella  scollatura del reggiseno.  «A questo prezzo può prendere quello

    che vuole.»

    «Ho un aereo da prendere,  tesoro.» La baciai sul nasetto camuso e  le

    affibbiai una pacca sul sedere mentre scendeva dal furgoncino.

    Chubby  e  Angelo  vennero  a  salutarmi all'aeroporto.  Chubby doveva

    prendere in custodia il furgone.  Eravamo tutti  mogi  e  al  cancello

    d'imbarco  ci  stringemmo  goffamente  la  mano.  Non  c'era  molto da

    aggiungere, ci eravamo detti tutto le sera prima.

    Quando  l'aereo  col  motore  a  pistoni  decollò,  diretto  verso  il

    continente,  li  scorsi  per  un  attimo,  impalati presso il recinto.

    Sostai più di tre ore a Nairobi prima di proseguire per Londra con  un

    volo della BOAC. Durante il lungo viaggio notturno non dormii granché.

    Erano  molti  anni  che  non  tornavo nella mia terra natale...  e ora

    andavo a compiere una cupa missione di vendetta. Avevo una gran voglia

    di scambiare quattro chiacchiere con Sherry North.

    Quando sei proprio a terra,  quello è il momento di comperarti un'auto

    nuova e un vestito da cento ghinee.  Ostenta un'aria sicura e prospera

    e la gente ci crederà.

    Mi feci la barba e mi cambiai all'aeroporto,  e alla Hertz di Heathrow

    invece  di  una Hillman presi a nolo una Chrysler,  lanciai la valigia

    nel bagagliaio e mi diressi al più vicino pub.

    Ordinai una doppia porzione di uova e prosciutto, innaffiandola con un

    boccale di Courage mentre studiavo  la  carta  stradale.  Era  passato

    tanto tempo che non mi sentivo sicuro del mio senso dell'orientamento.

    La  campagna  inglese  fertile e coltivata era troppo monotona e verde

    dopo la Malesia e l'Africa e il  sole  autunnale  era  d'oro  pallido,

    mentre  io  ero abituato a un sole più luminoso e intenso...  ma fu un

    viaggio piacevole giù per le colline del Surrey, fino a Brighton.

    Parcheggiai la Chrysler sul lungomare di fronte al Grand  Hotel  e  mi

    addentrai nel dedalo di viuzze.

    Erano affollate di turisti, anche se la stagione volgeva al termine.

    Pavillon  Arcade  era  l'indirizzo  che  avevo letto tanto tempo prima

    sulla slitta sottomarina di Jimmy North,  e mi ci volle  quasi  un'ora

    per  trovarlo.  Era  rintanato  in fondo a un cortile e quasi tutte le

    finestre e le porte erano chiuse e sbarrate.

    Il "North's Underwater World" aveva una facciata di tre metri che dava

    sul vicolo.  Era chiuso anche quello e sull'unica vetrata  era  calata

    una  serranda.  Tentai  senza successo di sbirciare oltre l'orlo della

    serratura,  ma dentro era buio,  così bussai alla porta.  Dall'interno

    non  proveniva  nessun  suono e stavo per allontanarmi quando notai un

    quadrato di cartone che un tempo  doveva  essere  stato  attaccato  al

    fondo della vetrina ma era caduto sul pavimento all'interno.  Torcendo

    la testa in modo acrobatico riuscii a leggere il messaggio  scritto  a

    mano  che  fortunatamente  era  caduto  a  faccia in su: "Rivolgersi a

    Seaview, Downers Lane, Falmer,  Sussex".  Tornai alla macchina e tirai

    fuori la carta dallo scomparto del cruscotto.

    Mentre  spingevo  la  Chrysler  lungo  sentieri  stretti,  cominciò  a

    piovere.  Le asticciole del  tergicristallo  respingevano  fiacche  le

    gocce che schizzavano e io aguzzai gli occhi nel crepuscolo precoce.

    Due  volte  smarrii  la  strada,  poi  finalmente  frenai davanti a un

    cancello che si apriva in una folta  siepe.  La  targa  inchiodata  al

    cancello diceva: NORTH SEAVIEW.

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    Percorsi  il  vialetto fra le siepi e sbucai nel cortile lastricato di

    una vecchia fattoria di mattoni rossi a due piani,  con  le  travi  di

    quercia a vista e il muschio verde sul tetto di assicelle in legno. Al

    piano inferiore c'era una luce accesa.

    Parcheggiai  la  Chrysler  e attraversai il cortile fino alla porta di

    cucina,  rialzando il  colletto  per  difendermi  dal  vento  e  dalla

    pioggia.  Bussai  alla  porta  e  sentii  qualcuno muoversi dentro.  I

    chiavistelli scattarono e la parte  superiore  della  porta  si  aprì,

    trattenuta da una catena. Una ragazza guardò fuori verso di me.

    A prima vista non fui impressionato da lei, perché portava un maglione

    blu  da  marinaio  tutto  sformato  ed  era  alta,  con  le  spalle da

    nuotatrice. La giudicai ordinaria... in modo sorprendente.

    Aveva la fronte pallida e ampia,  il naso  grande  ma  non  ossuto  né

    adunco,  e  la bocca larga e cordiale.  Non portava un filo di trucco,

    così le labbra erano rosa chiaro e c'era una spruzzata  di  lentiggini

    sul naso e sulle guance.

    I  capelli erano tirati indietro,  stretti in una grossa treccia sulla

    nuca.  Erano neri,  di un nero lucido e iridescente  alla  luce  della

    lampada, e anche le sopracciglia erano nere, arcuate in modo ardito su

    occhi che parevano anch'essi neri finché non vi batté la luce e allora

    mi  accorsi  che  erano  dello  stesso  azzurro cupo e magnetico della

    corrente del Mozambico quando  il  sole  di  mezzogiorno  vi  batte  a

    perpendicolo.

    Nonostante  il  pallore  del  viso,  aveva un'aria sana.  La sua pelle

    chiara aveva una luminosità ed elasticità tali  che  a  osservarla  da

    vicino,  come  facevo  ora,  pareva  di poter vedere giù attraverso la

    superficie fino al fluire del sangue  pulito  che  saliva  caldo  alle

    guance e al collo.  Si toccò il ricciolo di capelli scuri e serici che

    era sfuggito alla treccia e le ondeggiava leggero sulla tempia.  Fu un

    gesto   aggraziato   che   tradiva   il   suo  nervosismo  e  smentiva

    l'espressione serena degli occhi azzurro cupo.

    A un tratto mi accorsi che era una donna straordinariamente attraente;

    per quanto avesse solo venticinque anni o giù di lì capii che non  era

    più una ragazza,  ma una donna vera.  In lei,  c'erano una forza,  una

    maturità, un profondo senso di calma che trovai affascinante.

    Di solito le donne che preferisco sono  più  vistose,  non  mi  va  di

    investire  troppe  energie nella caccia,  ma questa aveva qualcosa che

    trascendeva le mie esperienze e per la prima volta da anni  mi  sentii

    insicuro.

    Ci  stavamo  fissando  da parecchi secondi,  senza che nessuno dei due

    dicesse una parola o facesse un gesto.

    «Lei è Harry Fletcher» osservò alla fine,  e la sua voce era  bassa  e

    ben modulata. Rimasi a bocca aperta.

    «Come diavolo ha fatto a scoprirlo?» domandai.

    «Venga  dentro.»  Fece scorrere la catenella e aprì la parte inferiore

    della porta,  e io obbedii.  La cucina era calda e  accogliente  e  vi

    aleggiava un buon profumo di cibo.

    «Come fa a sapere il mio nome?» chiesi di nuovo.

    «C'era la sua foto sul giornale...  insieme a quella di Jimmy» spiegò.

    Restammo di nuovo in silenzio, continuando a studiarci.

    Era ancora più alta di quanto avessi pensato all'inizio:  mi  arrivava

    alla  spalla,  con  le  lunghe  gambe strette nei pantaloni blu scuro,

    infilati negli stivali di  cuoio  nero.  Ora  potevo  vedere  la  vita

    sottile e la promessa di bei seni sotto il maglione pesante.

    All'inizio  l'avevo  trovata  ordinaria,  dieci  secondi  dopo l'avevo

    giudicata attraente,  ora dubitavo di aver mai  visto  una  donna  più

    bella. Ci voleva tempo perché il suo effetto si rivelasse in pieno.

    «Mi  ha  messo in svantaggio» dissi alla fine.  «Io non conosco il suo

    nome.»

    «Sono Sherry North» rispose,  e io  la  fissai  un  attimo,  prima  di

    riprendermi dallo choc.  Era molto diversa dall'altra Sherry North che

    avevo conosciuto.

    «Lo sa di non essere l'unica?» chiesi alla fine.

    «Non capisco.» Mi guardò accigliata.

    «E' una lunga storia.»

    «Scusi.» Parve accorgersi per la prima  volta  che  eravamo  in  piedi

    l'uno di fronte all'altro al centro della cucina.  «Si accomodi. Posso

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    offrirle una birra?»

    Prese un paio di lattine di Carlsberg dalla dispensa e si  sedette  di

    fronte a me dall'altra parte del tavolo di cucina.

    «Lei  voleva  raccontarmi una lunga storia?» Staccò le linguette dalle

    lattine e ne fece scivolare una verso di me, poi mi guardò con aria di

    attesa.

    Cominciai a raccontarle una versione riveduta  e  corretta  delle  mie

    esperienze da quando Jimmy North era arrivato a Saint Mary.  Era molto

    facile parlare con lei, come con una vecchia amica. A un tratto provai

    il desiderio di dirle la pura e semplice verità.  Era  importante  che

    fin dall'inizio tutto fosse giusto, senza ombre.

    Era una perfetta sconosciuta,  eppure mi fidavo di lei più di chiunque

    altro avessi mai conosciuto. Le raccontai, per filo e per segno, tutto

    quello che era successo.

    Quando scese il buio mi servì la cena, un gustoso stufato cotto in una

    casseruola di coccio,  che mangiammo con pane fatto in casa e burro di

    fattoria.  Stavo  ancora chiacchierando,  ma non più degli avvenimenti

    recenti di Saint Mary,  e lei mi  ascoltava  in  silenzio.  Finalmente

    avevo  trovato  un  altro  essere umano col quale potevo parlare senza

    riserve.

    Riandai indietro nella mia esistenza, in una confessione completa,  le

    parlai  della  mia giovinezza,  perfino del modo poco ortodosso in cui

    avevo guadagnato il denaro per acquistare il "Wave Dancer" e  di  come

    da allora i miei buoni propositi avessero tentennato.

    Era  mezzanotte  passata  quando  alla  fine  lei  disse:  «Mi  riesce

    difficile credere a tutto quello che  mi  ha  raccontato.  Non  ne  ha

    l'aria...  sembrava così...» parve cercare le parole «... integro». Ma

    si vedeva che non era quello che voleva dire.

    «Ce la metto tutta per esserlo.  Ma qualche volta l'aureola mi scivola

    sugli occhi. Vede, le apparenze ingannano» spiegai, e lei annuì.

    «Sì, è vero» e nel modo in cui lo disse c'era un significato, forse un

    avvertimento.  «Perché  mi  ha  raccontato  tutto questo?  Non è molto

    saggio.»

    «Era tempo che qualcuno lo sapesse, suppongo.  Mi spiace,  è stata lei

    l'eletta.»

    Sorrise.  «Per stasera dorma nella camera di Jimmy» disse.  «Non posso

    correre il rischio che vada fuori a raccontarlo a qualcun altro.»

    La notte prima non avevo dormito e a un tratto mi sentii  esausto.  Mi

    parve  di  non  avere  nemmeno  la  forza di salire le scale fino alla

    camera da letto... ma avevo ancora una domanda da fare.

    «Perché Jimmy è venuto a Saint Mary?  Che cosa cercava?»  chiesi.  «Sa

    con chi stava lavorando, chi erano gli altri?»

    «Non lo so.» Scosse la testa e capii che diceva la verità.

    «Vuole aiutarmi a scoprirlo? Mi aiuterà a trovarli?»

    «Sì,   l'aiuterò»   rispose  alzandosi  da  tavola.   «Ne  riparleremo

    domattina.»

    La stanza di Jimmy era una soffitta,  la falda del tetto le  conferiva

    una  forma  irregolare.  Le  pareti  erano  tappezzate di fotografie e

    scaffali stipati di libri,  trofei sportivi d'argento e la  collezione

    di "bric-à-brac» tipica dei giovani.

    Il letto era alto e il materasso soffice.

    Scesi  a  prendere la valigia dalla Chrysler mentre Sherry cambiava le

    lenzuola. Poi mi indicò il bagno e se ne andò.

    Io rimasi disteso ad ascoltare la pioggia sul tetto solo  per  qualche

    minuto  prima  di  addormentarmi.  Di  notte  mi  svegliai e sentii il

    sussurro  sommesso  della  sua  voce  in  qualche  punto  della   casa

    silenziosa.

    A piedi nudi e in mutande aprii la porta della camera e scivolai senza

    far rumore lungo il corridoio fino alle scale. Guardai giù nell'atrio.

    C'era  una luce accesa e Sherry North era in piedi al telefono a muro.

    Stava parlando nel ricevitore,  le mani chiuse intorno alla  bocca,  a

    voce tanto bassa che non riuscivo a cogliere le parole.  Aveva la luce

    alle spalle.  Portava una camicia da notte  leggera  e  il  suo  corpo

    traspariva attraverso la stoffa sottile come se fosse nuda.

    Mi  ritrovai  a  fissarla con gli occhi sgranati come un guardone.  La

    luce brillava sullo splendore d'avorio della  sua  pelle  e  sotto  il

    tessuto trasparente s'intuivano pieni e vuoti allettanti.

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    Distolsi  a  fatica  gli  occhi  per  tornare  a letto.  Pensando alla

    telefonata di Sherry provai una vaga inquietudine,  ma ben  presto  il

    sonno mi sopraffece di nuovo.

    Al  mattino  la pioggia era cessata ma il terreno era fangoso e l'erba

    pesante e umida quando uscii a respirare una boccata d'aria fresca. Mi

    aspettavo di trovarmi a disagio con Sherry,  dopo la confessione della

    sera prima,  ma non fu così. A colazione parlammo senza problemi e poi

    lei disse: «Ho promesso di aiutarla; cosa posso fare?».

    «Risponda a qualche domanda.»

    «D'accordo, faccia pure.»

    Jimmy North era stato molto riservato,  lei  non  sapeva  che  sarebbe

    andato  a  Saint  Mary.  Le  aveva  detto  di  avere  un contratto per

    installare sott'acqua delle apparecchiature elettroniche alla diga  di

    Cabora-Bassa,  nel  Mozambico  portoghese.  Lei  l'aveva  accompagnato

    all'aeroporto con tutta la sua  attrezzatura.  Per  quanto  ne  sapeva

    viaggiava  solo.  La  polizia  era  venuta  al negozio di Brighton per

    informarla dell'omicidio.  Lei aveva letto gli articoli sui giornali e

    questo era tutto.

    «Nessuna lettera da parte di Jimmy?»

    «No,  niente.» Io annuii,  la banda doveva aver intercettato la posta.

    La lettera che la  falsa  Sherry  mi  avevo  mostrato  era  certamente

    autentica.

    «Non ci capisco niente. Le sembro stupida?»

    «No.»  Tirai fuori un sigaro e l'avevo quasi acceso prima di fermarmi.

    «Le spiace se fumo uno di questi?»

    «No,  non mi dà fastidio» rispose lei,  e  io  ne  fui  lieto,  perché

    sarebbe  stato  un  inferno  rinunciarci.  Lo accesi e aspirai il fumo

    fragrante.

    «Sembra che Jimmy avesse messo le mani su qualcosa  di  grosso.  Aveva

    bisogno  di  appoggio e si era rivolto alle persone sbagliate.  Appena

    hanno creduto di sapere dove  fosse,  hanno  ucciso  lui  e  ci  hanno

    provato  con me.  Quando questo non ha funzionato hanno mandato laggiù

    una donna,  nei panni di  Sherry  North.  Appena  lei  ha  creduto  di

    conoscere la posizione di quest'oggetto,  mi ha teso una trappola ed è

    tornata a casa.  La loro prossima mossa sarà di tornare nella zona  al

    largo di Big Gull, dove li attende un'altra delusione.»

    Lei  riempì di nuovo le tazze di caffè e io notai che si era truccata,

    ma in modo tanto leggero che le lentiggini si vedevano ancora. Ripresi

    in esame il giudizio della sera prima,  concludendo che era una  delle

    donne più belle che avessi mai visto, anche di prima mattina.

    Lei  corrugò la fronte riflettendo,  fissando la tazza di caffè,  e io

    provai il desiderio di toccare una di  quelle  sue  mani  dall'aspetto

    forte, posata sulla tovaglia accanto alla mia.

    «Che  cosa cercavano,  Harry?  E chi erano quelli che l'hanno ucciso?»

    chiese alla fine.

    «Due domande intelligenti.  Ho  degli  indizi  per  tutt'e  due...  ma

    affrontiamo le domande nell'ordine in cui me le ha poste.  Primo,  che

    cosa cercava Jimmy?  Quando sapremo questo potremo dare la  caccia  ai

    suoi assassini.»

    «Non  ho  nessuna idea di quello che potrebbe essere.» Alzò lo sguardo

    su di me.  L'azzurro dei suoi occhi era più chiaro del  giorno  prima,

    era il colore di uno zaffiro purissimo. «Che indizi ha?»

    «La campana della nave. Il disegno che c'era sopra.»

    «Che cosa significa?»

    «Non  lo  so,  ma non dovrebbe essere troppo difficile scoprirlo.» Non

    potevo più resistere alla tentazione.  Misi la mano sopra la sua.  Era

    salda  e  forte  come sembrava e la pelle era calda.  «Ma prima dovrei

    controllare il negozio di Brighton e la stanza di Jimmy qui.  Potrebbe

    esserci qualcosa di utile.»

    Lei  non aveva ritirato la mano.  «D'accordo,  allora andiamo prima al

    negozio?  La polizia l'ha già  perquisito,  ma  forse  si  è  lasciata

    sfuggire qualcosa.»

    «Bene.  Le  offrirò  il  pranzo.»  Le  strinsi la mano e lei la girò e

    ricambiò la stretta.

    «La prendo in parola» ribatté,  ma io ero troppo sbalordito dalla  mia

    stessa  reazione  per  trovare  una risposta scherzosa.  Avevo la gola

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    secca e il polso mi batteva come se avessi corso  per  un  chilometro.

    Lei ritrasse con dolcezza la mano e si alzò.

    «Laviamo i piatti della colazione.»

    Se solo le ragazze di Saint Mary mi avessero visto asciugare i piatti,

    la mia reputazione sarebbe crollata in mille pezzi.

    Lei  mi fece entrare nel negozio dall'ingresso posteriore,  attraverso

    un minuscolo cortile stipato di oggetti eterogenei,  tutti legati alle

    immersioni  e  al  mondo  subacqueo: bombole scartate,  un compressore

    portatile, oblò di ottone e altri relitti di navi naufragate,  perfino

    la mascella di un'orca marina con tutti i denti intatti.

    «Non ci vengo da tanto tempo» si scusò Sherry aprendo la porta. «Senza

    Jimmy...»  Si  strinse  nelle  spalle  e  poi  riprese:  «Devo proprio

    decidermi a vendere tutto questo ciarpame e a chiudere baracca. Potrei

    rivendere il contratto d'affitto, suppongo».

    «Do un'occhiata in giro, d'accordo?»

    «Bene, io metto sul fuoco il bollitore.»

    Cominciai dal cortile, frugando in fretta ma con metodo fra le pile di

    rottami.  Non c'era niente che avesse significato,  per quanto  potevo

    vedere.  Entrai  nel  negozio  e curiosai fra le conchiglie marine e i

    denti di squalo sugli scaffali e nella vetrina.  Alla  fine  vidi  una

    scrivania nell'angolo e cominciai a rovistare nei cassetti.

    Sherry  mi  portò  una  tazza  di  tè  e  si sistemò sull'angolo della

    scrivania mentre io ammucchiavo sul ripiano vecchie fatture,  elastici

    e graffette.  Lessi fino all'ultimo pezzo di carta e scorsi perfino il

    prontuario dei conti fatti.

    «Niente?» chiese Sherry.

    «Niente» risposi, e guardai l'orologio. «Ora di pranzo» annunciai.

    Lei chiuse il negozio e la fortuna  ci  assistette  nella  scelta  del

    ristorante. Fummo destinati a un tavolo appartato nella sala interna e

    io ordinai una bottiglia di Pouilly Fuissé intonata all'aragosta.  Una

    volta che mi fui ripreso dallo choc del prezzo  ridemmo  parecchio,  e

    non  fu  solo  colpa  del  vino.  L'attrazione reciproca era forte,  e

    cresceva sempre più.

    Dopo pranzo tornammo a Seaview e salimmo in camera di Jimmy.

    «Questa è la nostra migliore  opportunità»  ragionai.  «Se  aveva  dei

    segreti,  è  qui  che  doveva  tenerli.» Ma sapevo che mi aspettava un

    lungo lavoro. C'erano centinaia di libri e pile di riviste, per lo più

    «American Argosy»,  «Trident»,  «The Diver» e altre pubblicazioni  per

    subacquei.  Ai  piedi  del  letto  c'era  anche uno scaffale intero di

    fascicoli a molla.

    «Lascio fare a te» disse Sherry uscendo.

    Io tirai giù il contenuto di uno scaffale, mi sedetti allo scrittoio e

    cominciai a sfogliare le pubblicazioni. Vidi subito che era un compito

    ancor più gravoso di quanto avessi pensato.  Jimmy era  stato  uno  di

    quei tipi che leggono con una matita in mano. C'erano note scritte nei

    margini,  commenti,  punti interrogativi ed esclamativi,  e tutto quel

    che gli interessava era sottolineato.

    Verso le otto attaccai lo scaffale che conteneva i fascicoli.  I primi

    due  erano  pieni  di ritagli di giornale su naufragi o altri fenomeni

    marini.  Il  terzo  aveva  una  copertina  di  similpelle  nera  senza

    etichetta.  Conteneva  un  fascio  sottile  di carte e vidi subito che

    erano fuori dell'ordinario.

    Era una serie di lettere,  archiviate con le  buste  e  i  francobolli

    ancora attaccati. Erano in tutto sedici, indirizzate ai signori Parker

    e Wilton, di Fenchurch Street.

    Ogni lettera era di una mano differente,  ma erano scritte tutte nella

    calligrafia elegante del secolo scorso.

    Le buste provenivano da parti diverse dell'antico impero, Canada,  Sud

    Africa,  India,  e  i  francobolli  del diciannovesimo secolo dovevano

    valere da soli una fortuna.

    Dopo che ebbi letto le prime due lettere,  fu  chiaro  che  i  signori

    Parker e Wilton erano stati agenti e commissionari e avevano agito per

    conto  di numerosi clienti illustri al servizio della regina Vittoria.

    Le lettere contenevano  istruzioni  relative  a  proprietà,  denaro  e

    titoli.

    Tutte  le  lettere  erano  datate fra l'agosto 1857 e il luglio 1858 e

    dovevano essere state offerte da  un  antiquario  o  da  un  banditore

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    all'incanto in un lotto unico.

    Le  scorsi  in  fretta: il contenuto era davvero molto noioso,  eppure

    qualcosa  nell'unica  pagina  della  decima  lettera  attirò  la   mia

    attenzione e mi sentii tendere i nervi.

    Due  parole  erano  state sottolineate a matita e in margine c'era una

    nota nella scrittura di Jimmy North.

    "B. Mus. E.6914(8)".

    Ma erano state le parole in sé a colpirmi.

    "Dawn Light", la luce dell'alba.

    Avevo già sentito quelle parole.  Non sapevo con certezza  quando,  ma

    erano significative.

    Cominciai  subito a leggere dall'inizio.  L'indirizzo del mittente era

    un laconico "Bombay", ed era datata 18 settembre 1857.

    "Caro Wilton,

    vi affido con la massima premura l'incarico di sorvegliare e custodire

    in luogo sicuro cinque colli recapitati a mio nome  presso  il  vostro

    indirizzo  di  Londra a mezzo della nave della Compagnia 'Dawn Light',

    che salperà da questo porto prima del 25  corrente,  diretta  al  molo

    della Compagnia del porto di Londra.

    Vi   prego   di   accusare   ricevuta  degli  stessi  con  la  massima

    sollecitudine.

    In fede

    Colonnello Sir Roger Goodchild

    Ufficiale comandante

    Centounesimo Reggimento Fucilieri della Regina.

    Recapito per gentile concessione del capitano comandante della fregata

    di Sua Maestà 'Panther'."

    La carta frusciò e  io  mi  accorsi  che  le  mani  mi  tremavano  per

    l'eccitazione. Sapevo che c'eravamo. Questa era la chiave.

    Stesi con cura la lettera sul tavolino e ci posai sopra un tagliacarte

    d'argento per fermarla.

    Cominciai a rileggerla lentamente, ma qualcosa mi distrasse. Sentii il

    motore di un'automobile che scendeva il vialetto dal cancello.  I fari

    illuminarono la finestra poi girarono l'angolo della casa.

    Mi raddrizzai,  in ascolto.  Il motore si  spense  e  le  portiere  si

    chiusero con un colpo secco.

    Seguì  un  lungo silenzio,  poi un mormorio di voci...  voci maschili.

    Cominciai ad alzarmi dal tavolo.

    Poi  Sherry  urlò.   Il  grido  risuonò  chiaro  nella  vecchia  casa,

    trafiggendomi il cervello come una lancia. Ridestò in me un istinto di

    protezione  così  forte  che scesi le scale ed entrai nell'atrio prima

    ancora di rendermene conto.

    La porta della cucina era aperta e mi fermai sulla soglia. C'erano due

    uomini con Sherry.  Il più massiccio e  anziano  dei  due  portava  un

    soprabito  di  cammello  beige  e un berretto di tweed.  Aveva un viso

    grigiastro,  segnato da rughe profonde,  e  gli  occhi  infossati.  Le

    labbra erano sottili ed esangui.

    Aveva piegato la mano sinistra di Sherry in su,  fra le scapole,  e la

    teneva schiacciata contro il muro vicino al fornello a gas.

    L'altro era più giovane, magro e pallido, a capo scoperto,  con lunghi

    capelli  biondo  grano  che  ricadevano  sulle  spalle della giacca di

    cuoio.  Sorrideva felice,  tenendo l'altra mano di Sherry sulle fiamme

    azzurre del fornello e abbassandola pian piano.

    Lei si dibatteva disperatamente, ma la tenevano ben stretta.

    «Piano,  ragazzo.»  L'uomo  col  berretto  parlava con una voce roca e

    strozzata. «Lasciale il tempo di pensarci.»

    Sherry gridò di nuovo mentre le sue dita venivano spinte  senza  pietà

    in basso, verso le fiamme azzurre che sibilavano.

    «Fa' pure,  tesoro,  strilla quanto ti pare» rise il biondo.  «Non c'è

    nessuno a sentirti.»

    «Tranne  me»  dissi  io,   e  loro  si  voltarono  a  guardarmi,   con

    un'espressione di comico stupore.

    «Chi  diavolo...»  chiese il biondo,  lasciando il braccio di Sherry e

    portando in fretta le mano alla tasca posteriore.

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    Lo colpii due volte,  di sinistro al corpo e di destro  alla  testa  e

    anche  se  nessuno  dei due colpi mi soddisfece in pieno...  non avevo

    sentito la giusta compattezza nell'impatto... l'uomo crollò, piombando

    di peso su una sedia e abbattendosi  contro  la  dispensa.  Non  avevo

    altro tempo per lui e mi dedicai a quello col berretto.

    Si  faceva  ancora  scudo  di Sherry e mentre scattavo in avanti me la

    lanciò addosso. Mi colse sbilanciato e fui costretto ad afferrarla per

    evitare di cadere con lei.

    L'uomo si voltò e schizzò fuori dalla porta alle  sue  spalle.  Mi  ci

    volle  qualche  secondo  per  districarmi  da Sherry e attraversare la

    cucina.  Quando irruppi nel cortile lui era già a metà strada  da  una

    vecchia Triumph sportiva e si voltò a guardare indietro.

    Mi  pareva  di  seguire  il  suo ragionamento;  Non sarebbe riuscito a

    salire in macchina e a girarla col muso verso il sentiero prima che lo

    raggiungessi.  Deviò a sinistra e scattò  verso  l'imbocco  scuro  del

    vialetto,  con  le falde del cappotto che gli svolazzavano dietro.  Lo

    seguii.

    Il terreno di argilla era viscido e lui arrancava  a  fatica.  Scivolò

    rischiando  di cadere e gli fui subito addosso,  tirandomi indietro in

    fretta appena  si  girò  e  sentii  lo  scatto  del  coltello  e  vidi

    lampeggiare  la lama mentre si apriva.  Si abbassò sulle ginocchia con

    il coltello proteso e io gli corsi incontro senza esitare.

    Questa non  se  l'aspettava,  il  balenio  dell'acciaio  paralizza  la

    maggior parte degli uomini. Mirò al ventre, un colpo basso, insidioso,

    ma  gli tremavano le mani ed era senza fiato: il colpo mancò di nerbo.

    Io gli  bloccai  il  polso  e  nello  stesso  tempo  colpii  il  punto

    nevralgico sull'avambraccio.  Il coltello gli scivolò di mano e io gli

    fui sopra.  Cadde pesantemente sulla schiena e anche se il fango aveva

    attutito  l'impatto  io gli piantai un ginocchio nella pancia.  Dietro

    c'erano novantacinque chili di peso e l'aria gli uscì dai polmoni  con

    un sibilo sonoro. Si rannicchiò come un feto, ansimando per riprendere

    fiato,  e  io  lo  girai bocconi.  Il berretto gli cadde dalla testa e

    scoprii che aveva una folta chioma di capelli scuri striati da ciocche

    d'argento.  Ne afferrai un bel ciuffo,  mi sedetti sulle sue spalle  e

    gli schiacciai il viso nel fango giallo.

    «Non  mi  piacciono  i  bulletti che maltrattano le ragazze» gli dissi

    senza scaldarmi, ma dietro di me ruggì il motore della Triumph. I fari

    lampeggiarono e poi ruotarono  in  un  ampio  arco  prima  di  puntare

    direttamente su per il sentiero stretto.

    Sapevo di non aver tramortito a dovere il biondo,  era stato un lavoro

    frettoloso e abborracciato. Lasciai l'uomo nel fango e tornai indietro

    di corsa per il vialetto.  Le ruote della Triumph girarono a vuoto sul

    pavimento  lastricato  del  cortile  e  l'auto  con i fari abbaglianti

    puntati contro di me, balzò avanti, slittando e sbandando nel lasciare

    l'acciottolato per  affrontare  il  sentiero  fangoso.  Il  conducente

    assecondò la sbandata e mi venne addosso.

    Io  mi  appiattii e rotolai nella melma fredda di un canale di scarico

    scoperto che incanalava l'acqua di scolo attraverso la siepe.

    La Triumph urtò di striscio con la fiancata e  l'alta  siepe  la  fece

    deviare  leggermente  dalla  sua  traiettoria.  Le  ruote dal lato più

    vicino girarono con violenza sull'orlo  della  cimosa  di  pietra  del

    canale,  a  pochi  centimetri  dal  mio  viso,  e mi cadde addosso una

    pioggia di ramoscelli. Poi l'auto passò oltre.

    Rallentò all'altezza dell'uomo col cappotto di cammello infangato. Lui

    era inginocchiato sull'orlo della strada e si issò  sul  sedile  della

    Triumph. Proprio mentre io strisciavo fuori dal canale per raggiungere

    di  corsa l'auto sportiva,  questa ripartì di nuovo,  schizzando fango

    dalle ruote posteriori. La rincorsi,  ma acquistò velocità e scattò su

    per il pendio.

    Rinunciai,  mi  girai  e tornai indietro di corsa,  cercando le chiavi

    della Chrysler nelle tasche dei pantaloni fradici,  e  mi  accorsi  di

    averle lasciate sul tavolo in camera di Jimmy.

    Sherry era appoggiata allo stipite della porta aperta della cucina. Si

    stringeva  al  petto la mano ustionata e aveva i capelli in disordine.

    La manica del maglione, strappata, pendeva dalla spalla.

    «Non sono riuscita a fermarlo, Harry» ansimò. «Ci ho provato.»

    «Come va?» le chiesi,  rinunciando a ogni  idea  di  inseguire  l'auto

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    sportiva quando vidi la sua sofferenza.

    «Leggermente ustionata.»

    «Ti porto da un medico.»

    «No,  non  ce n'è bisogno» ma il suo sorriso era contratto dal dolore.

    Salii in camera di Jimmy e  dal  mio  assortimento  di  medicinali  da

    viaggio  presi  un  Doloxene  per  il  dolore  e  un Mogadon per farla

    dormire.

    «Non mi servono» protestò lei.

    «Devo tapparti il naso e costringerti a inghiottirli?»  le  chiesi,  e

    lei sorrise, scosse la testa e li mandò giù.

    «Dovresti  fare  un bagno» mi disse.  «Sei zuppo» e io mi accorsi a un

    tratto di essere fradicio e infreddolito.

    Quando tornai in cucina,  riscaldato dal bagno,  lei era già intontita

    dalle  pillole,  ma  aveva  preparato  il caffè,  correggendolo con un

    bicchierino di whisky. Lo bevemmo seduti uno di fronte all'altra.

    «Che cosa volevano?» chiesi. «Che cosa ti hanno detto?»

    «Credevano che sapessi perché Jimmy era andato a Saint Mary.  Volevano

    saperlo.»

    Riflettei. Qualcosa non quadrava e la cosa m'impensierì.

    «Credo...»  la  voce  di Sherry era incerta e lei barcollò leggermente

    quando tentò di alzarsi. «Ehi, che cosa mi hai dato?»

    La presi in braccio e lei protestò debolmente,  ma la portai in camera

    sua.  Era  tutta di cinz,  con la carta da parati decorata a rose.  La

    distesi sul letto, le tolsi le scarpe e la coprii con la trapunta.

    Sospirò e chiuse gli occhi. «Penso che ti terrò vicino» mormorò.  «Sei

    molto utile.»

    Così  incoraggiato,  mi  sedetti  sull'orlo  del  letto  e  la cullai,

    lisciandole i capelli sulle tempie e accarezzandole la fronte;  la sua

    pelle  sembrava velluto caldo.  Si addormentò in un attimo.  Spensi la

    luce e stavo per uscire, quando ci ripensai.

    Mi sfilai le scarpe e scivolai sotto la trapunta.  Nel  sonno  lei  si

    girò  con  molta  naturalezza finendo fra le mie braccia e io la tenni

    stretta.

    Era una sensazione piacevole e ben presto mi addormentai  anch'io.  Mi

    svegliai  all'alba.  Sherry  aveva  il  viso schiacciato contro il mio

    collo, una gamba e un braccio sopra di me, e i suoi capelli morbidi mi

    facevano il solletico alla guancia.

    Senza svegliarla mi liberai,  la  baciai  sulla  fronte,  raccolsi  le

    scarpe  e  tornai  in  camera mia.  Era la prima volta che passavo una

    notte intera con una bella donna fra le braccia senza  far  altro  che

    dormire. Mi sentii orgoglioso della mia virtù.

    La  lettera  era  rimasta sullo scrittoio della stanza di Jimmy,  dove

    l'avevo lasciata, e prima di andare in bagno la rilessi tutta. La nota

    a matita in margine, "B. Mus.  E.6914(8)",  mi lasciava perplesso e mi

    ci arrovellai mentre mi radevo.

    La pioggia era cessata e le nuvole si stavano diradando,  quando scesi

    in cortile per esaminare il teatro dello scontro della notte prima. Il

    coltello giaceva nel fango e lo raccolsi,  lanciandolo oltre la siepe.

    Entrai  in  cucina,  battendo  i  piedi  e  sfregandomi le mani per il

    freddo.

    Sherry aveva cominciato a preparare la colazione.

    «Come va la mano?»

    «Fa male» ammise.

    «Troveremo un dottore sulla via di Londra.»

    «Cosa ti fa pensare che andrò a  Londra?»  chiese  lei  con  prudenza,

    mentre imburrava il pane tostato.

    «Due  cose.  Non  puoi  restare qui.  Il branco di lupi tornerà.» Alzò

    subito gli occhi ma restò in silenzio.  «L'altra è che hai promesso di

    aiutarmi... e la pista porta a Londra.»

    Lei  non  ne  era  convinta,  perciò  mentre  mangiavamo le mostrai la

    lettera che avevo trovato nel fascicolo di Jimmy.

    «Non vedo il nesso» disse lei alla fine,  e io ammisi con  franchezza:

    «Non  è chiaro neanche per me».  Parlando accesi il primo sigaro della

    giornata e l'effetto fu quasi magico.  «Ma appena ho visto  le  parole

    "Dawn Light" qualcosa è scattato...» mi interruppi. «Mio Dio» ansimai.

    «Ci  sono.  La  "Dawn  Light"!»  Ricordai i frammenti di conversazione

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    portati sul ponte del "Wave Dancer" dal condotto di ventilazione della

    cabina.

    "Per avere la luce dell'alba allora dovremo...",  la  voce  di  Jimmy,

    chiara  e  tesa  per  l'aspettativa.  "Se la luce dell'alba è dove..."

    Allora quelle parole ripetute mi avevano lasciato perplesso.  Mi erano

    rimaste nella memoria come una lisca di pesce in gola.

    Cominciai a spiegarlo a Sherry,  ma ero così eccitato che mi sgorgò di

    bocca un fiotto  confuso  di  parole.  Lei  rise,  avvertendo  la  mia

    eccitazione, ma senza capire le spiegazioni.

    «Ehi!» protestò. «Cosa stai dicendo?»

    Ricominciai, ma arrivato a metà mi fermai per fissarla in silenzio.

    «E ora che c'è?» Era mezzo divertita, mezzo esasperata. «Questa storia

    sta facendo impazzire anche me.»

    Io presi la forchetta. «La campana. Ti ricordi la campana di cui ti ho

    parlato? Quella che Jimmy ha tirato su a Gunfire Reef?»

    «Sì, certo.»

    «Ti  ho  detto  che aveva sopra delle lettere,  corrose per metà dalla

    sabbia.»

    «Si, va' avanti.»

    Graffiai con la forchetta il burro, usandolo come lavagna.

    «VVN L...»

    Tracciai le lettere che erano state incise nel bronzo.

    «Era così» dissi. «Allora non significava niente, ma ora...»

    Completai in fretta le lettere: "DAWN LIGHT".

    E lei le fissò,  annuendo lentamente,  mentre il quadro  cominciava  a

    prendere forma.

    «Dobbiamo scoprire qualcosa su questa nave, la "Dawn Light".»

    «Come?»

    «Dovrebbe essere facile. Sappiamo che era della Compagnia delle Indie,

    devono  esserci  delle  registrazioni,  ai  Lloyd's o al ministero del

    Commercio.»

    Lei mi prese di mano  la  lettera  e  la  rilesse.  «Probabilmente  il

    bagaglio  del  prode  colonnello  conteneva  calze  sporche  e vecchie

    camicie.» Fece una smorfia e me la restituì.

    «Sono a corto di calze» replicai.

    Sherry preparò una valigia e fui lieto di notare  che  aveva  la  rara

    virtù  di  saper  viaggiare leggera.  Scese a parlare con il fittavolo

    mentre io caricavo  i  bagagli  sulla  Chrysler.  Lui  avrebbe  tenuto

    d'occhio  la  casa durante la sua assenza,  e lei tornando indietro si

    limitò a chiudere a chiave la porta di cucina e salì  in  macchina  al

    mio fianco.

    «Buffo» osservò. «Sembra l'inizio di un lungo viaggio.»

    «Ho i miei piani» l'avvertii, guardandola con malizia.

    «Una  volta  ho  pensato  che  avevi  un'aria  sana» disse lei in tono

    afflitto «ma quando fai così...»

    «Sexy, vero?» ammisi, e guidai la Chrysler su per il vialetto.

    Trovai un dottore a Haywards Heath.  Ormai la mano di  Sherry  si  era

    coperta  di brutte vesciche,  grosse bolle biancastre che le pendevano

    dalle dita come chicchi d'uva bianca.  Lui le svuotò e bendò di  nuovo

    la mano.

    «Ora  fa più male» mormorò lei mentre proseguivamo verso nord e rimase

    pallida e silenziosa per il  dolore.  Io  rispettai  il  suo  silenzio

    finché non arrivammo ai sobborghi della città.

    «Dovremmo trovare un posto dove stare» suggerii. «Qualcosa di comodo e

    di centrale.»

    Lei mi guardò con aria interrogativa.

    «Probabilmente  sarebbe  molto  più comodo ed economico se prendessimo

    una camera matrimoniale da qualche parte, non è vero?»

    Io sentii qualcosa agitarmisi dentro,  qualcosa di caldo ed eccitante.

    «Strano  che  l'abbia detto tu,  stavo proprio per suggerire la stessa

    cosa.»

    «Lo so» rise,  per la prima volta da due ore.  «Ti ho  risparmiato  il

    disturbo.» Scosse la testa,  sempre ridendo.  «Io starò da mio zio. Ha

    una camera libera nel suo appartamento a Pimlico e dietro l'angolo c'è

    un piccolo pub. E' simpatico e pulito... potresti trovare di peggio.»

    «Il tuo senso dell'umorismo mi fa impazzire» borbottai.

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    Telefonò allo zio da una cabina, mentre io aspettavo in auto.

    «Tutto a posto» mi disse salendo in macchina. «E' in casa.»

    Era un appartamento al pianterreno di una strada tranquilla vicino  al

    fiume.  Portai  la  valigia  di Sherry mentre lei mi faceva strada,  e

    suonai il campanello.

    L'uomo che aprì la porta era piccolo e snello.  Era sulla sessantina e

    indossava  un  cardigan grigio con le toppe ai gomiti.  Ai piedi aveva

    delle pantofole di feltro.  L'abbigliamento  casalingo  era  piuttosto

    incongruo,  perché  i  suoi  capelli  grigio ferro erano rigorosamente

    tagliati a spazzola come i baffetti rigidi.  Aveva la pelle  chiara  e

    rosea,  ma  fu  il  fiero  scintillio  da  predatore  dell'occhio e il

    portamento militare delle spalle che mi misero in guardia.  Questo era

    un tipo sveglio.

    «Mio zio,  Dan Wheeler.» Sherry si fece da parte per presentarci. «Zio

    Dan, questo è Harry Fletcher.»

    «Il giovanotto di cui mi parlavi» annuì lui brusco.  La sua  mano  era

    ossuta  e  asciutta  e  il suo sguardo pungeva come l'ortica.  «Entra.

    Entrate tutti e due.»

    «Non voglio disturbarla,  signore...» Mi  riuscì  del  tutto  naturale

    chiamarlo  così,  un'eco del mio addestramento militare di tanto tempo

    prima. «Devo trovarmi anch'io una camera.»

    Zio Dan e Sherry  si  scambiarono  un'occhiata  e  mi  parve  che  lei

    scuotesse la testa in modo quasi impercettibile,  ma la mia attenzione

    era rivolta più in là, all'appartamento. Era monastico e rigorosamente

    mascolino, e pareva confermare il mio primo giudizio dell'uomo. Volevo

    avere a  che  fare  con  lui  il  meno  possibile,  ma  d'altra  parte

    continuare a vedere Sherry il più possibile.

    «Verrò  a  prenderti  fra  un'ora per il pranzo,  Sherry» e quando lei

    accettò li lasciai e tornai alla Chrysler.  Il pub che Sherry mi aveva

    raccomandato  era il Windsor Arms e quando accennai al nome dello zio,

    come lei mi aveva suggerito,  mi sistemarono in una stanza  tranquilla

    sul  retro,  con  una  bella  vista  sul  cielo  e sulle antenne della

    televisione.  Mi distesi vestito sul  letto  e  mentre  aspettavo  che

    passasse  l'ora riflettei sulla famiglia North e sui suoi parenti.  Di

    una cosa sola ero certo...  che Sherry North numero 2 non  mi  sarebbe

    passata  accanto  come  una  meteora  nella notte.  Ero intenzionato a

    starle  incollato,   eppure  c'erano  molti  aspetti  che  ancora   mi

    lasciavano confuso.  Sospettai che fosse una persona più complicata di

    quanto suggerisse il suo bel viso sereno.  Sarebbe stato  interessante

    scoprirlo.  Misi da parte l'idea,  mi sedetti e allungai la mano verso

    il telefono.  Nei venti minuti che seguirono feci tre telefonate.  Una

    al  Lloyd's  Register  of Shipping,  in Fenchurch Street,  un'altra al

    National Maritime Museum  a  Greenwich  e  l'ultima  all'India  Office

    Library  in  Blackfriars  Road.  Lasciai  la  Chrysler  nel parcheggio

    privato dietro al pub - a Londra un'auto dà più fastidi che altro -  e

    tornai a casa dello zio.  Aprì la porta Sherry, già pronta per uscire.

    Mi piaceva questo in lei, era puntuale.

    «Zio Dan non ti è simpatico,  vero?» mi sfidò a tavola,  e io  cambiai

    prudentemente discorso.

    «Ho  fatto  qualche  telefonata.  Il  posto  che  stiamo cercando è in

    Blackfriars Road. E' a Westminster. L'India Office Library. Ci andremo

    dopo mangiato.»

    «E' davvero molto caro quando si arriva a conoscerlo.»

    «Senti, ragazza mia, è tuo zio. Tientelo.»

    «Ma perché, Harry? M'interessa.»

    «Che cosa fa per vivere... esercito, marina?»

    Mi fissò. «Come hai fatto a capirlo?»

    «Li riconosco al volo.»

    «E' dell'esercito, ma è in pensione... che importanza ha?»

    «Che cosa vuoi provare?» Le agitai sotto il naso il menù.  «Se  prendi

    il   roast-beef,   io   proverò  l'anitra»  e  lei  abboccò  all'esca,

    concentrandosi sul cibo.

    Gli India Office Archives  erano  ospitati  in  uno  di  quei  moderni

    edifici   squadrati  di  vetro  verdastro  e  pannelli  d'acciaio  blu

    aviazione.

    Sherry e io ci armammo di lasciapassare e firmammo il registro.  Prima

    ci  dirigemmo alla sala del catalogo e di lì alla sezione marina degli

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    archivi. Questi erano presidiati da una signora dal viso severo, con i

    capelli sale e pepe e gli occhiali cerchiati d'acciaio.

    Le porsi un modulo di richiesta per il dossier che doveva contenere il

    materiale sulla nave "Dawn Light", della Compagnia delle Indie,  e lei

    sparì tra file di scaffali d'acciaio alti fino al soffitto.

    Passarono venti minuti prima che tornasse,  posando davanti a me,  sul

    banco un voluminoso dossier.

    «Deve firmare qui» mi disse,  indicando una colonna sulla cartella  di

    cartone  rigido.  «Strano!»  osservò.  «Lei  è il secondo che richiede

    questo fascicolo in meno di un anno.»

    Fissai la firma di J.A. North nell'ultima casella. Seguivamo da vicino

    le orme di Jimmy, pensai, firmando RICHARD SMITH sotto il suo nome.

    «Potete usare una delle scrivanie  laggiù.»  Ci  indicò  l'altro  lato

    della  stanza.  «E  cercate di tenere in ordine il fascicolo,  se vi è

    possibile.»

    Sherry ed io ci sedemmo alla scrivania spalla a spalla e io sciolsi il

    nastro che teneva insieme il fascicolo.

    La "Dawn Light" era del  tipo  noto  come  fregata  Blackwell,  tipico

    prodotto dei cantieri Blackwell dell'inizio del diciannovesimo secolo.

    Il   tipo   era  molto  simile  alle  fregate  della  marina  militare

    dell'epoca.

    Era stata costruita a Sunderland  per  l'onorevole  Compagnia  Inglese

    delle  Indie Orientali e aveva una stazza di milletrecento tonnellate.

    Alla linea di galleggiamento misurava sessantotto metri, con un fianco

    di sette metri e novanta.  Un fianco così stretto l'avrebbe resa molto

    veloce ma piuttosto scomoda col mare grosso.

    Era  stata  varata  nel  1832,  proprio un anno prima che la Compagnia

    perdesse il monopolio sulla Cina,  e questo colpo di  sfortuna  pareva

    che avesse pesato su tutta la sua carriera.

    Nello  stesso fascicolo era conservata un'intera serie di rapporti sui

    procedimenti  di  varie  commissioni   d'inchiesta.   Il   suo   primo

    comandante,  che  si  gloriava  del nome di Hogge,  durante il viaggio

    inaugurale aveva mandato la "Dawn Light" in secca nel Diamond Harbour,

    sul fiume Hooghly.  La corte aveva accertato che  era  in  preda  agli

    effetti dell'alcool e l'aveva privato del comando.

    La  sequela  di  disgrazie  era  continuata.   Nel  1840,  durante  la

    traversata dell'Atlantico meridionale,  il  secondo  l'aveva  lasciata

    accostare  mentre era di guardia,  e gli alberi erano partiti.  Mentre

    rollava alla deriva,  trascinandosi dietro le sovrastrutture che erano

    ricadute di lato,  era stata avvistata da un olandese. I rottami erano

    stati asportati e la nave rimorchiata  nella  Baia  della  Tavola.  La

    commissione  di  recupero  aveva  versato una ricompensa di dodicimila

    sterline.

    Nel 1846, mezzo equipaggio,  sceso a terra sulla costa selvaggia della

    Nuova  Guinea,  era stato catturato dai cannibali e massacrato.  Erano

    morti in sessantatré.

    Poi, il 23 settembre del 1857, la nave era salpata da Bombay,  diretta

    a Saint Mary, Capo di Buona Speranza, Sant'Elena e il porto di Londra.

    «La  data.»  Puntai  il  dito sulla riga.  «Questo è il viaggio di cui

    parla Goodchild nella lettera.»

    Sherry annuì senza rispondere.  Negli ultimi minuti avevo scoperto che

    leggeva più in fretta di me. Dovevo impedirle di voltare pagina quando

    io  ero  arrivato appena a tre quarti.  Ora i suoi occhi saettavano da

    una riga all'altra,  lei aveva il colorito  acceso  e  si  mordeva  il

    labbro inferiore.

    «Avanti» mi sollecitò. «Sbrigati!» e io dovetti trattenerle il polso.

    La  "Dawn Light" non aveva mai raggiunto Saint Mary...  era scomparsa.

    Tre mesi dopo era stata considerata  dispersa  in  mare  con  tutti  i

    membri dell'equipaggio e i Lloyd's avevano impartito agli assicuratori

    l'ordine di onorare le polizze di proprietari e spedizionieri.

    Il  manifesto  di  carico  era  imponente  per una nave tanto piccola,

    perché trasportava dalla Cina all'India un carico che consisteva di:

    364 CASSE Dl TE',  494 MEZZE CASSE DI TE';  72 tonnellate  per  conto,

    Signori Dunbar e Green;

    101  CASSE  DI TE',  618 MEZZE CASSE DI TE';  65 tonnellate per conto,

    Signori Simpson, Wyllie & Livingstone;

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    577 BALLE DI SETA; 82 tonnellate per conto, Signori Elder & C.;

    5 CASSE DI MERCE; 4 tonnellate per conto, Col. Sir Roger Goodchild;

    16 CASSE DI MERCE; 6 tonnellate per conto, Maggiore John Cotton;

    10 CASSE DI MERCE; 2 tonnellate per conto, Lord Elton;

    26 SCATOLE SPEZIE VARIE; 2 tonnellate per conto, Signori Paulson & C.

    Senza parole puntai l'indice sulla quarta voce della  lista  e  Sherry

    annuì  di nuovo,  con gli occhi lucenti come zaffiri.  La richiesta di

    risarcimento era stata accolta e la faccenda sembrava chiusa allorché,

    nell'aprile del 1858,  quattro mesi dopo,  era arrivata in Inghilterra

    la  "Walmer Castle",  della Compagnia delle Indie,  portando a bordo i

    superstiti dalla "Dawn Light".

    Erano sei.  L'ufficiale in seconda,  Andrew Barlow,  un nostromo e tre

    gabbieri.  C'era  anche una giovane donna di ventidue anni,  Charlotte

    Cotton, una passeggera che tornava in patria con il padre, un maggiore

    del Quarantesimo Fanteria.

    Il  secondo,   Andrew  Barlow,   aveva  prestato  testimonianza   alla

    commissione  d'inchiesta  e  sotto  la  narrazione scarna,  le domande

    ampollose e le risposte prudenti si celava  una  vicenda  eccitante  e

    romantica, un'epopea di naufragio e di sopravvivenza.

    Leggendo  mi  accorsi  che  i  pochi  elementi  che  avevo raccolto si

    adattavano perfettamente alla storia.

    Due settimane dopo la partenza da Bombay,  la "Dawn Light"  era  stata

    investita  da  una furiosa tempesta proveniente da sud-est.  Per sette

    giorni  la  violenza  del  fortunale  aveva  infuriato  senza  tregua,

    incalzando  la  nave.  Potevo  immaginarmelo chiaramente,  uno di quei

    violenti cicloni che avevano divelto  il  tetto  del  mio  bungalow  a

    Turtle Bay.

    Ancora  una volta la "Dawn Light" era stata disalberata: erano rimasti

    in piedi l'albero di trinchetto,  l'albero di mezzana e il  bompresso.

    Il  resto  era  stato spazzato via dalla tempesta e data la mole delle

    onde non era stato possibile innalzare un albero di maestra di fortuna

    o issare pennoni.

    Così,  quando si era avvistata terra sottovento,  la  nave  non  aveva

    avuto nessuna possibilità di sfuggire al suo destino.  Una congiura di

    vento e di correnti l'aveva scagliata nella gola  di  una  barriera  a

    imbuto sulla quale l'impeto della tempesta si abbatteva come un tuono.

    La  nave  si  era  incagliata  e Andrew Barlow,  con l'aiuto di dodici

    membri dell'equipaggio,  era riuscito a calare in mare una  scialuppa.

    Quattro passeggeri,  compresa Miss Charlotte Cotton,  avevano lasciato

    la nave danneggiata e Barlow,  con un'insolita combinazione  di  buona

    fortuna e abilità marinaresca, era riuscito a trovare un passaggio tra

    il mare infuriato e i coralli micidiali fino alle acque più tranquille

    della spiaggia.

    Finalmente avevano spinto la scialuppa a riva, sulla spiaggia cosparsa

    di  detriti  di  un'isola.  Qui i sopravvissuti si erano stretti l'uno

    all'altro per quattro giorni, mentre il ciclone esauriva la sua forza.

    Barlow era salito da solo sulla sommità del più  meridionale  dei  tre

    picchi  dell'isola.   La  descrizione  era  perfettamente  chiara.  Si

    trattava dei Tre Vecchi e di Gunfire Reef. Su questo non c'era dubbio.

    Era così,  dunque,  che Jimmy North aveva saputo che  cosa  cercare...

    l'isola con tre vette e una barriera di corallo.

    Barlow  aveva  rilevato  le  coordinate  dello scafo danneggiato della

    "Dawn Light" mentre giaceva tra le mascelle di corallo, spazzata dalle

    onde  incalzanti.   Il  secondo  giorno  lo  scafo  della  nave  aveva

    cominciato  a  cedere  e  mentre Barlow osservava dalla vetta la parte

    prodiera era stata trascinata oltre la  barriera,  scomparendo  in  un

    baratro cupo fra i coralli. La poppa era ricaduta in mare ed era stata

    ridotta in schegge.

    Quando  alla  fine  il  cielo  si era schiarito e il vento era caduto,

    Andrew Barlow aveva scoperto che  i  suoi  compagni  erano  gli  unici

    sopravvissuti  di  un  gruppo di centoquaranta anime.  Gli altri erano

    periti nel mare in tempesta.

    A ovest, bassa sull'orizzonte,  aveva avvistato una massa di terra che

    sperava fosse il continente africano.  Aveva imbarcato di nuovo i suoi

    compagni sulla scialuppa e avevano attraversato il canale interno.  Le

    sue speranze si erano avverate,  era l'Africa, ma come sempre ostile e

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    crudele.

    I diciassette naufraghi avevano iniziato un lungo e pericoloso viaggio

    verso sud e tre mesi dopo solo Barlow,  quattro  marinai  e  Charlotte

    Cotton avevano raggiunto il porto di Zanzibar. La malaria, gli animali

    selvaggi e la sfortuna li avevano decimati...  e anche i sopravvissuti

    erano ridotti dalla fame a  scheletri  viventi,  gialli  di  febbre  e

    tormentati dalla dissenteria per l'acqua infetta.

    La  commissione  d'inchiesta aveva lodato Andrew Barlow e la Compagnia

    gli aveva assegnato una ricompensa di cinquecento sterline per  meriti

    di servizio.

    Quando  finii  di  leggere  alzai  gli  occhi  su  Sherry.   Mi  stava

    osservando.  «Accidenti!» esclamò,  e anch'io  mi  sentii  sopraffatto

    dalla portata dell'antico dramma.

    «Tutto combacia, Sherry» le dissi. «E' tutto lì.»

    «Sì» riconobbe lei.

    «Dobbiamo vedere se qui hanno i disegni.»

    La  Sala  Stampe  e  Disegni  era  al terzo piano e una rapida ricerca

    condotta da un'austera assistente rivelò subito  la  "Dawn  Light"  in

    tutto il suo splendore.

    Era  un tre alberi aggraziato,  dalla lunga linea bassa.  Non aveva né

    vela quadra né vela di mezzana.  Inalberava invece una grossa randa  e

    una  serie completa di coltellacci.  Il lungo cassero di poppa forniva

    lo spazio  per  parecchie  cabine  passeggeri  e  le  scialuppe  erano

    disposte in cima alla cabina di coperta a poppa.

    Era  ben armata,  con tredici portelli per parte verniciati di nero da

    cui poteva puntare il lungo cannone da diciotto libbre per difendersi,

    nei mari ostili a est del Capo di Buona Speranza oltre il quale faceva

    la spola fra Cina e India.

    «Ho bisogno di bere qualcosa»  dissi,  raccogliendo  i  disegni  della

    "Dawn Light". «Ne farò fare delle copie.»

    «A che scopo?» volle sapere Sherry.

    L'assistente  emerse dalla sua tana fra le pile di vecchie stampe e di

    fronte alla mia richiesta di fotocopie si succhiò le guance.

    «Le costeranno settantacinque pence» tentò di scoraggiarmi.

    «E' un prezzo ragionevole» ribattei.

    «E  non  saranno  pronte  prima  della  settimana  prossima»  aggiunse

    inesorabile.

    «Oh  povero  me»  esclamai,  dedicandole il mio sorriso speciale.  «Ne

    avevo proprio bisogno per domani pomeriggio.»

    Il sorriso la smontò: perse l'aria risoluta  e  tentò  di  ficcare  le

    ciocche di capelli in disordine sotto le stanghette degli occhiali.

    «Be', vedrò cosa posso fare» concesse.

    «E'  molto  gentile  da  parte  sua,  davvero  gentile» e la lasciammo

    piuttosto perplessa, ma compiaciuta.

    Il senso dell'orientamento mi stava tornando e trovai senza difficoltà

    la strada di El Vino's. Il fiume serale di giornalisti che scorreva da

    Fleet Street non l'aveva ancora invaso e trovammo un tavolo in  fondo.

    Ordinai due vermut e levammo i bicchieri in un brindisi.

    «Sai,  Harry, Jimmy aveva centinaia di progetti. Tutta la sua vita era

    una gigantesca caccia al tesoro.  Ogni settimana o quasi annunciava di

    aver  scoperto  la posizione di una nave,  del tesoro dell'Armada o di

    una città azteca sprofondata o  di  un  relitto  di  bucanieri...»  Si

    strinse  nelle  spalle.  «Ho  sviluppato  una  profonda diffidenza nei

    confronti di storie simili. Ma questa...» Sorseggiò il vino.

    «Ricapitoliamo gli elementi in nostro  possesso»  suggerii.  «Sappiamo

    che Goodchild ci teneva molto che il suo agente ricevesse cinque colli

    e  li  tenesse  in custodia al sicuro.  Sappiamo che doveva spedirli a

    bordo della "Dawn Light" e ne aveva mandato  preavviso,  probabilmente

    tramite un amico personale, il comandante della fregata Panther.»

    «Giusto» riconobbe lei.

    «Sappiamo  che  quelle  casse  erano  elencate sul manifesto di carico

    della nave.  Che la nave andò perduta,  presumibilmente con  le  casse

    ancora a bordo.  Conosciamo l'esatta posizione del relitto. Ne abbiamo

    avuto la conferma dalla campana della nave.»

    «Ancora giusto.»

    «Solo che non sappiamo cosa contenevano quelle casse.»

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    «Calze sporche» insistette lei.

    «Quattro tonnellate di calze sporche?» chiesi io, e la sua espressione

    cambiò. Il peso del carico non le aveva detto niente.

    «Ah» le dissi sorridendo «ti era sfuggito. Lo pensavo. Leggevi così in

    fretta che afferravi solo la metà.»

    Mi fece una smorfia.

    «Quattro tonnellate,  mia cara,  è un bel po' di roba,  qualunque cosa

    sia.»

    «D'accordo» convenne lei.  «Le cifre non significano molto per me,  lo

    ammetto. Ma mi sembra parecchio.»

    «Lo stesso peso di  una  Rolls  Royce,  tanto  per  dirlo  in  termini

    comprensibili» e i suoi occhi si dilatarono,  diventando di un azzurro

    più cupo.

    «E' molto.»

    «E' chiaro che Jimmy sapeva che cosa fosse e aveva prove sufficienti a

    convincere dei finanziatori molto coriacei. L'hanno preso sul serio.»

    «Tanto sul serio da...» e s'interruppe.  Per un attimo vidi  nei  suoi

    occhi  l'antica  pena  per  la  morte  di Jimmy.  Ne fui imbarazzato e

    distolsi lo sguardo,  fingendomi impegnato a estrarre la lettera dalla

    tasca interna.

    La spiegai con cura sul tavolo fra noi.  Quando guardai Sherry, lei si

    era ricomposta.

    La nota scritta a matita in margine attirò di nuovo la mia attenzione.

    «"B.  Mus.  sei nove uno quattro otto"» lessi ad alta  voce.  «Nessuna

    idea?»

    «"Bachelor of Music".»

    «Oh, questa è bella.»

    «Prova  a  far  di  meglio» mi sfidò,  e io ripiegai dignitosamente la

    lettera e ordinai di nuovo da bere.

    «Bene, con quell'indizio siamo andati molto avanti» osservai dopo aver

    pagato il cameriere.  «Sappiamo di che cosa si trattava.  Ora possiamo

    seguire l'altra pista.»

    Lei si protese in avanti e m'incoraggiò senza parlare.

    «Ti  ho  raccontato  della  tua omonima,  la bionda Sherry North?» Lei

    annuì.  «La sera prima di  lasciare  l'isola  mandò  un  telegramma  a

    Londra.»  Tirai  fuori  dal  portafoglio la velina e la tesi a Sherry.

    Mentre la leggeva,  ripresi: «Questo era chiaramente un messaggio  per

    il suo principale,  Manson. Dev'essere lui il cervello della faccenda.

    Ora voglio cominciare a muovermi in questa direzione».  Finii  il  mio

    vermut. «Ti riporterò dal tuo marziale zio e mi farò vivo domani.»

    Le  sue  labbra si contrassero in una linea cocciuta che non avevo mai

    visto prima e nei suoi occhi brillò  un  balenio  simile  al  blu  del

    metallo di una pistola.

    «Harry Fletcher, se pensi di piantarmi in asso proprio quando le acque

    cominciano ad agitarsi, devi aver perso quel po' di cervello che hai.»

    Il taxi ci lasciò in Berkeley Square e io la guidai in Curzon Street.

    «Svelta,   prendimi  sottobraccio»  le  mormorai,  lanciando  indietro

    un'occhiata furtiva.  Obbedì all'istante e percorremmo cinquanta metri

    prima che lei bisbigliasse: «Perché?».

    «Perché  mi  piace»  ribattei  sorridendo  e  tornando  alla  mia voce

    naturale.

    «Oh,  tu!» Fece per svincolarsi,  ma  la  trattenni  e  lei  capitolò.

    Bighellonammo su per la strada verso Shepherd Market, fermandoci qua e

    là davanti alle vetrine come una coppia di turisti.

    Il  numero  97  di  Curzon Street era uno di quei condominii dal costo

    astronomico, sei piani di facciata in mattoni e un portone decorato di

    bronzo  e  vetro  oltre  il  quale  si  stendeva  un  atrio  di  marmo

    sorvegliato da un portiere in uniforme. Passammo oltre, arrivammo fino

    al  White Elephant Club e lì traversammo la strada e tornammo indietro

    sul marciapiede opposto.

    «Potrei andare a chiedere al portiere se  il  signor  Manson  occupava

    l'interno cinque» si offrì Sherry.

    «Magnifico» le dissi. «E se risponde di sì, che cosa fai? Gli dici che

    Harry Fletcher lo saluta?»

    «Sei un vero pagliaccio» disse, e tentò di nuovo di ritirare la mano.

    «C'è  un  ristorante  quasi  di  fronte  al caseggiato.» Le impedii di

    ritrarsi. «Prendiamo un tavolo vicino alla vetrata, beviamo un caffè e

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    stiamo un po' a guardare.»

    Erano appena passate le tre quando ci sistemammo vicino  alla  vetrata

    con  una buona visuale sull'altro lato della strada,  e l'ora seguente

    trascorse in modo piacevole. Scoprii che tenere allegra Sherry non era

    affatto  un'impresa  difficile:  avevamo  in  comune  un  certo  senso

    dell'umorismo e mi piaceva sentirla ridere.

    Ero  nel  mezzo  di  una  storiella  lunga  e  complicata  quando  fui

    interrotto dall'arrivo al numero 97 di una Rolls Royce Silver  Wraith.

    Frenò  accostando  al  marciapiede,  e  uno  chauffeur con un'elegante

    divisa grigio tortora scese dall'auto ed entrò nell'atrio.  Lui  e  il

    portiere attaccarono discorso e io ripresi la storiella.

    Dieci  minuti  dopo  si  scatenò  di  fronte  un'improvvisa  attività.

    L'ascensore cominciò una serie di rapidi andirivieni  scaricando  ogni

    volta  un'ondata  di  bagagli assortiti in coccodrillo.  Il portiere e

    l'autista li portavano fuori e li caricavano sulla Rolls. Non finivano

    mai, e Sherry osservò: «Qualcuno parte per una lunga vacanza.» Sospirò

    con desiderio.

    «Che ne diresti di un'isola tropicale con l'acqua azzurra e la  sabbia

    bianca, un bungalow col tetto di paglia fra le palme...»

    «Basta così» esclama lei. «In un giorno d'autunno nella vecchia Londra

    non posso nemmeno sopportare l'idea.»

    Stavo  per consolidare le mie posizioni quando il portiere e l'autista

    scattarono sull'attenti,  le porte di vetro dell'ascensore si aprirono

    ancora una volta e ne uscirono un uomo e una donna.

    Lei  indossava  una pelliccia di visone color miele e i capelli biondi

    erano raccolti sulla  testa  in  un'elaborata  acconciatura  di  stile

    greco.  La  collera  mi  colpì  come  un pugno nello stomaco quando la

    riconobbi.

    Era Sherly North numero 1. La gentile signora che aveva spedito Judith

    e il "Wave Dancer" sul fondo del porto grande.

    Con lei c'era un uomo di media statura,  coi capelli  castano  chiaro,

    lunghi  secondo  la moda e arricciati sulle orecchie.  Era leggermente

    abbronzato,  probabilmente da una lampada al quarzo,  ed  era  vestito

    troppo bene. In modo molto costoso, ma sgargiante, come un personaggio

    dello spettacolo.

    Aveva  la  mascella pesante e un lungo naso carnoso con occhi dolci da

    gazzella,  ma la bocca era dura.  Una bocca avida che ricordavo  molto

    bene.

    «Manson!»  esclamai.  «Cristo!  Manson Resnick...  Manny Resnick.» Era

    proprio il tipo d'uomo cui poteva rivolgersi Jimmy North  con  la  sua

    proposta  eccentrica.  Proprio come tanto tempo prima mi ero rivolto a

    lui con i miei piani per la rapina  dell'oro  all'aeroporto  di  Roma.

    Manny  era  un  imprenditore della malavita e chiaramente aveva salito

    molti gradini della scala dal nostro ultimo incontro.

    Ora  faceva  le  cose  in  grande,  pensai,   mentre  attraversava  il

    marciapiede  e saliva sul sedile posteriore della Rolls,  accanto alla

    bionda in visone.

    «Aspetta qui» dissi in fretta a Sherry,  mentre la Rolls partiva verso

    Park Lane.

    Mi precipitai fuori cercando disperatamente un taxi per seguirli.  Non

    ce n'erano,  e  io  rincorsi  la  Rolls  pregando  disperatamente  che

    comparisse  un grosso taxi nero con la scritta luminosa sul tetto,  ma

    proprio davanti ai miei occhi l'auto svoltò a destra in  South  Audley

    Street e accellerò dolcemente allontanandosi.

    Mi  fermai  all'angolo ma era già lontana,  e s'insinuava nel traffico

    diretto a Grosvenor Square.

    Mi voltai e tornai  lentamente,  deluso,  dove  mi  aspettava  Sherry.

    Sapevo che aveva visto giusto. Manny e la bionda erano in partenza per

    un  lungo  viaggio.  Non  aveva  senso  restare ancora nei paraggi del

    numero 97 di Curzon Street.

    Sherry mi aspettava fuori del ristorante.

    «Di che si trattava?» domandò,  e io  la  presi  sottobraccio.  Mentre

    tornavamo verso Berkeley Square glielo spiegai.

    «Quell'uomo  probabilmente è lo stesso che ha ordinato l'assassinio di

    Jimmy,  è anche il responsabile delle mie ferite e quello che ha fatto

    arrostire la tua bella manina... in breve, il capo.»

    «Lo conosci?»

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    «Ho fatto degli affari con lui molto tempo fa.»

    «Che begli amici hai.»

    «Negli  ultimi tempi ho cercato di migliorare» replicai,  stringendole

    il braccio. Lei ignorò la mia galanteria.

    «E la donna?  E' quella di Saint Mary,  quella che ha fatto saltare in

    aria la tua barca e la ragazza?»

    Sperimentai  un  violento  accesso  della  stessa collera che mi aveva

    afferrato pochi minuti prima,  quando  avevo  visto  quell'animale  da

    preda fasciato nel visone.

    Al mio fianco Sherry boccheggiò: «Harry, mi fai male!».

    «Scusa.» Allentai la presa sul suo braccio.

    «Credo  che  questo risponda alla mia domanda» mormorò in tono triste,

    massaggiandosi la parte dolente.

    Il bar del Windsor Arms era tutto pannelli di quercia scura e  specchi

    antichi. Era affollato quando Sherry e io entrammo. Fuori era sceso il

    buio,  e  il  vento  gelido  faceva  turbinare  le foglie cadute nelle

    cunette.

    Il tepore del bar era accogliente. Trovammo dei posti in un angolo, ma

    la folla ci spinse l'uno contro l'altro,  costringendomi a passare  un

    braccio  intorno  alle spalle di Sherry,  e le nostre teste erano così

    vicine che potemmo continuare la nostra  conversazione  riservata  nel

    bel mezzo di un locale pubblico.

    «Credo  di  sapere  dov'erano  diretti  Manny  Resnick e la sua amica»

    dissi.

    «A Big Gull?» chiese  Sherry,  e  quando  annuii  lei  proseguì:  «Gli

    occorreranno una barca e dei sommozzatori».

    «Non preoccuparti, Manny li troverà.»

    «E noi che cosa facciamo?»

    «Noi?» chiesi.

    «E'  un  modo  di  dire»  si corresse lei con affettazione.  «Che cosa

    farai?»

    «Ho una scelta. Posso scordarmi di tutto... o tornare a Gunfire Reef e

    cercare di scoprire che cosa diavolo  c'era  nelle  cinque  casse  del

    colonnello Goodchild.»

    «Ti servirà dell'attrezzatura.»

    «Non  sarà  tanto  elaborata  come quella di Manny Resnick,  ma potrei

    metterla insieme.»

    «Come stai a soldi, o è una domanda indiscreta?»

    «La risposta è la stessa. Posso metterne insieme abbastanza.»

    «Acqua azzurra e sabbia bianca» mormorò lei con voce sognante.

    «...e fronde di palma che frusciano agli alisei.»

    «Piantala Harry.»

    «Gamberi succulenti che arrostiscono sui carboni e io che ti faccio la

    serenata» continuai senza scrupoli.

    «Sei un vigliacco» esclamò.

    «Se resti qui, non saprai nemmeno se erano calze sporche» insistetti.

    «Potresti dirmelo per lettera» supplicò.

    «Me ne guarderò bene.»

    «Dovrò venire con te» decise alla fine.

    «Brava ragazza» le strinsi la spalla.

    «Ma insisto  per  pagare  la  mia  parte,  non  voglio  diventare  una

    mantenuta.» Aveva intuito che ero in ristrettezze.

    «Detesto l'idea di intaccare i tuoi principi» le dissi felice e il mio

    portafogli sospirò di sollievo. Mi sarei dissanguato a organizzare una

    spedizione a Gunfire Reef con quello che mi era rimasto.

    C'erano  molte cose da discutere ora che la decisione era stata presa.

    Sembrava che fossero passati  solo  pochi  minuti  quando  il  padrone

    annunciò: «E' ora, signori».

    «Di  notte le strade sono pericolose» avvertii Sherry.  «Non credo che

    dovremmo rischiare.  Al piano di sopra ho una stanza molto comoda  con

    una bella vista...»

    «Avanti,  Fletcher.» Sherry si alzò. «Farai meglio a riaccompagnarmi a

    casa, o ti sguinzaglierò dietro mio zio.»

    Mentre percorrevamo il mezzo isolato fino all'appartamento dello  zio,

    ci accordammo per vederci il giorno dopo a pranzo.  Io avevo una lista

    di commissioni da sbrigare  in  mattinata,  comprese  le  prenotazioni

    sull'aereo,  mentre  Sherry  doveva  far  rinnovare  il  passaporto  e

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    ritirare le copie fotostatiche dei disegni della "Dawn Light".

    Sulla porta dell'appartamento ci guardammo,  a un tratto tutti  e  due

    intimiditi.  Era  così  terribilmente  scontato  che mi venne quasi da

    ridere.  Sembravamo una coppia di teen-ager all'antica,  alla fine del

    nostro   primo   appuntamento...   ma   qualche   volta   un   po'  di

    sentimentalismo non guasta.

    «Buonanotte,  Harry» disse lei,  e con l'innata abilità  femminile  mi

    fece capire in modo indefinibile che era disposta a lasciarsi baciare.

    Le sue labbra erano morbide e calde e il bacio si protrasse a lungo.

    «Dio mio!» mormorò lei con voce roca, e finalmente si ritrasse.

    «Sei  sicura  di  non  voler cambiare idea?  E una bella stanza: acqua

    calda e fredda, tappeti sul pavimento, T.V...»

    Lei si lasciò sfuggire una risatina tremula e mi respinse  dolcemente.

    «Buonanotte, Harry caro» ripeté, e mi lasciò.

    Uscii  in  strada e m'incamminai a passo lento verso il pub.  Il vento

    era caduto,  si sentiva l'umidità salire dal fiume  poco  lontano.  La

    strada  era deserta ma lungo il marciapiede erano allineati veicoli in

    sosta, paraurti contro paraurti fino all'angolo.

    Passeggiavo lungo il marciapiede  senza  fretta  di  andare  a  letto,

    trastullandomi  perfino  con  l'idea  di  fare  prima una capatina sul

    lungofiume. Avevo le mani sprofondate nelle tasche della giacca,  e mi

    sentivo rilassato e felice mentre pensavo a Sherry.

    C'erano  molte  cose  su  cui riflettere,  in lei,  molti aspetti poco

    chiari o non ancora spiegati,  ma per lo più accarezzavo  il  pensiero

    che  forse  finalmente  era nato qualcosa che poteva durare più di una

    notte,  una settimana o un mese...  qualcosa che era già forte  e  non

    sarebbe diminuito come sempre col passare del tempo, ma invece sarebbe

    divenuto più forte.

    A  un  tratto  una  voce accanto a me esclamò: «Harry!».  Era una voce

    d'uomo,  una voce strana,  e io  mi  volsi  istintivamente  in  quella

    direzione. Capii subito che era stato un errore.

    Chi  parlava  era  seduto  sul  sedile  posteriore  di  una delle auto

    parcheggiate.  Era una Rover nera.  Il finestrino era aperto e il  suo

    viso era solo una chiazza pallida nel buio dell'interno.

    Feci  un  tentativo  disperato  di tirare le mani fuori dalle tasche e

    girarmi nella direzione da cui sapevo che  sarebbe  venuto  l'attacco.

    Nel farlo abbassai la testa, mi piegai e qualcosa sibilò vicino al mio

    orecchio colpendomi la spalla con effetto paralizzante.

    Scattai  all'indietro  con i gomiti,  incontrando qualcosa di solido e

    sentendo un rantolo di dolore. Poi mi trovai le mani libere e girai in

    fretta su me stesso,  fintando,  perché sapevo che avrebbero usato  di

    nuovo il manganello.

    Erano solo ombre indistinte, minacciose e imponenti, vestite di scuro.

    Sembravano un esercito,  ma erano solo in quattro,  più uno nell'auto.

    Erano tutti grossi e  uno  aveva  il  manganello  alzato  per  colpire

    ancora.  Lo  presi sotto il mento con il palmo della mano,  facendogli

    scattare la testa all'indietro,  e pensai che forse gli avevo rotto il

    collo, perché crollò di schianto sul marciapiede.

    Un  ginocchio  puntò verso il mio inguine,  ma io mi voltai e lo presi

    alla coscia,  sfruttando lo slancio  per  controbattere.  Fu  un  buon

    colpo, che mi rintronò nella spalla; l'uomo lo ricevette al petto e fu

    proiettato  all'indietro,  ma  subito  uno  di  loro  mi si attaccò al

    braccio trattenendolo e un pugno mi  arrivò  a  segno  sulla  guancia,

    sotto l'occhio. Sentii la pelle lacerarsi.

    Un  altro  mi  fu  alle  spalle,  un  braccio  intorno  alla  gola per

    strangolarmi,   ma  io  mi  sollevai  e  caricai.   Ci  rotolammo  sul

    marciapiede serrati in un groviglio.

    «Tienilo  fermo»  esclamò  un'altra voce,  bassa e ansiosa.  «Lasciami

    assestare un altro colpo.»

    «Secondò te che diavolo stiamo cercando di fare?» ansimò un  altro,  e

    finimmo  contro  la fiancata della Rover.  Restai inchiodato lì e vidi

    che quello col manganello era in piedi.  Vibrò un  altro  colpo  e  io

    tentai  di  girare  la testa,  ma mi colse alla tempia.  Non mi stordì

    completamente, ma mi tolse ogni forza di combattere.  Mi sentii subito

    debole come un bambino, capace appena di reggermi in piedi.

    «Ecco, mettetelo dietro.» Mi ficcarono al centro del sedile posteriore

    della  Rover  e  due  di  loro  mi si piazzarono ai lati.  Le portiere

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    sbatterono, il motore si avviò vibrando e partimmo veloci.

    La mente mi si schiarì, ma avevo la tempia insensibile e mi sentivo la

    testa leggera come un palloncino.  Sul sedile anteriore erano in  tre,

    di dietro uno per parte.  Avevano tutti il fiatone e l'uomo accanto al

    guidatore si massaggiava piano il collo e la mascella. Quello alla mia

    destra aveva mangiato dell'aglio e mi  alitava  in  faccia  mentre  mi

    perquisiva in cerca di armi.

    «Ti devo avvertire che qualcosa ti è morto in bocca parecchio tempo fa

    ed  è  ancora  lì»  gli  dissi,  con  la  lingua  gonfia  e  la  testa

    indolenzita, ma non ne valeva la pena. Non dette segno di aver sentito

    e continuò ostinato nel suo lavoro. Alla fine si ritenne soddisfatto e

    io mi rassettai i vestiti.

    Proseguimmo in silenzio per cinque minuti, costeggiando il fiume verso

    Hammersmith,  prima che tutti avessero  ripreso  fiato  e  si  fossero

    leccati le ferite, poi il conducente parlò.

    «Senti,  Manny  vuole  parlarti,  ma  ha  detto  che  non era una cosa

    importante.  Una semplice curiosità.  Ha detto anche  di  non  perdere

    tempo,  se ci davi filo da torcere, solo di farti secco e buttarti nel

    fiume.»

    «Simpatico, quel Manny» osservai.

    «Chiudi il becco!» ordinò il conducente. «Quindi, vedi, dipende da te.

    Comportati bene e vivrai un po' più a lungo.  Ho sentito dire che  eri

    un tipo sveglio,  Harry.  Ci aspettavamo che saltassi fuori, da quando

    Lorna ti ha mancato sull'isola,  ma quant'è vero Iddio  non  pensavamo

    che saresti sfilato su e giù per Curzon Street come una fanfara. Manny

    non  riusciva  a  crederci.  Ha  detto:  "Non  può  essere  Harry.  Si

    dev'essere rammollito". L'ha rattristato. "Così cadono i potenti.  Che

    non si sappia per le strade di Ascalona", ha detto.»

    «E' Shakespeare» spiegò quello col fiato che sapeva di aglio.

    «Chiudi il becco» esclamò il conducente, poi riprese a parlare. «Manny

    era triste, ma non al punto da piangere o altro, capisci.»

    «Capisco» borbottai.

    «Chiudi  il becco» scattò il conducente.  «Manny ha detto: "Non fatelo

    qui.  Seguitelo fino a un bel posticino tranquillo e  prelevatelo.  Se

    viene  con le buone portatelo a fare quattro chiacchiere con me...  se

    fa i capricci buttatelo nel fiume".»

    «Ora sì che lo riconosco, il mio Manny.  E' sempre stato un frugoletto

    dal cuore tenero.»

    «Chiudi il becco» disse il conducente.

    «Sono proprio impaziente di rivederlo.»

    «Resta buono e zitto e forse avrai questa fortuna.»

    Rimasi  così  per tutta la notte mentre imboccavamo la M4 e filavamo a

    ovest.  Erano le due del mattino quando entrammo a Bristol,  aggirando

    il centro della città e seguendo l'A4 giù fino ad Avonmouth.

    Fra  gli altri panfili nel porticciolo c'era un grosso yacht a motore.

    Era ormeggiato al molo e aveva calato la passerella. Il nome dipinto a

    poppa e a prua era "Mandrake".  Era una barca d'alto mare con lo scafo

    d'acciaio verniciato in bianco e blu, dalla linea piacevole. Mi sembrò

    veloce  e stabile,  probabilmente dotata di un'autonomia sufficiente a

    raggiungere qualsiasi porto del mondo.  Un giocattolo per ricchi.  Sul

    ponte  c'erano  delle  figure,  quasi  tutti  gli oblò avevano le luci

    accese e sembrava pronta a prendere il mare.

    Quando attraversammo lo spazio  aperto  fino  alla  passerella  mi  si

    affollarono  intorno.  La  Rover  fece  marcia indietro e si allontanò

    mentre salivamo sul ponte del "Mandrake".

    Il salone era arredato con troppo gusto per lo stile di Manny Resnick,

    doveva essere opera dei proprietari precedenti o di un arredatore.  Il

    pavimento  era  coperto  da  una  moquette verde bosco con le tende di

    velluto intonate,  i mobili erano di teak scuro e  cuoio  lucido  e  i

    quadri erano tele di ottima fattura, intonati all'arredamento.

    Questo  battello  valeva  almeno mezzo milione di sterline e capii che

    era preso a nolo. Probabilmente Manny l'aveva affittato per sei mesi e

    ci aveva imbarcato i suoi uomini...  perché  non  mi  aveva  mai  dato

    l'idea di essere un lupo di mare.

    Mentre  aspettavamo  al  centro  della  moquette,  un  gruppo  cupo  e

    silenzioso, sentii il suono inconfondibile della passerella che veniva

    ritirata e degli ormeggi mollati.  Il tremito dei motori  divenne  una

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    pulsazione  regolare  e  le luci del porto scivolarono dietro gli oblò

    mentre superavamo l'ingresso del porto e ci spingevamo nelle acque del

    fiume Severn.

    Quando il "Mandrake" virò di bordo per discendere il  fiume  verso  il

    mare  aperto,  oltre  Weston-super-Mare  e Berry,  riconobbi i fari di

    Portshead Point e Red Cliff Bay.

    Finalmente entrò Manny: indossava una  vestaglia  di  seta  azzurra  e

    aveva  il  viso  ancora  gonfio di sonno,  ma i capelli ondulati erano

    pettinati con cura e il sorriso era bianco e avido.

    «Harry» esclamò «te l'avevo detto che saresti tornato.»

    «Salve, Manny. Non posso dire che sia un gran piacere.»

    Rise in tono leggero e si rivolse alla donna che l'aveva  seguito  nel

    salone.  Era  truccata  con  cura  e  ogni  capello  dell'acconciatura

    elaborata era al suo posto.  Portava un lungo abito guarnito di  pizzo

    alla gola e ai polsi.

    «Hai già conosciuto Lorna, credo, Lorna Page.»

    «La prossima volta che mandi qualcuno ad accalappiarmi,  Manny,  cerca

    un tipo di classe. Con la vecchiaia sto diventando difficile.»

    La donna socchiuse gli occhi con uno sguardo velenoso ma sorrise.

    «Come va la tua barca, Harry? La tua bella barca?»

    «E' diventata una bara schifosa.» Mi rivolsi di nuovo a Manny. «Di che

    cosa si tratta, Manny, possiamo metterci d'accordo?»

    Lui scosse la  testa  con  mestizia.  «Non  credo,  Harry.  Lo  vorrei

    proprio,  se  non  altro in nome dei vecchi tempi.  Ma non ti ci vedo.

    Primo,  non hai niente da offrire...  e questo è un pessimo  punto  di

    partenza. Secondo, so che sei troppo sentimentale. Manderesti all'aria

    qualunque  patto per ragioni puramente emotive.  Non potrei fidarmi di

    te,  Harry,  non faresti che pensare a Jimmy North e alla  tua  barca,

    alla  piccola  ragazza isolana che ci è andata di mezzo e alla sorella

    di Jimmy North che  abbiamo  dovuto  eliminare...»  Trovai  una  magra

    consolazione  nella scoperta che evidentemente Manny non sapeva ancora

    cos'era  successo  al  plotone  di  esecuzione  che  aveva  mandato  a

    sistemare  Sherry North e che lei era ancora vivissima.  Tentai di far

    suonare sincera la mia voce e convincenti i miei modi.

    «Ascolta,  Manny,  io sono molto attaccato alla vita.  Posso  scordare

    tutto, se necessario.»

    Rise di nuovo. «Se non ti conoscessi troppo bene, ti crederei, Harry.»

    Scosse ancora la testa. «Mi spiace, niente patti.»

    «Allora perché ti sei preso la briga di farmi portare qui?»

    «Già  due volte ho mandato qualcun altro a fare questo lavoro,  Harry.

    Tutt'e due le volte ti hanno mancato.  Stavolta voglio  essere  certo.

    Nel  viaggio verso Città del Capo incroceremo qualche specchio d'acqua

    profondo e io ti appenderò al collo qualcosa di molto pesante.»

    «Città del Capo?» chiesi.  «Così,  dai la caccia di persona alla "Dawn

    Light". Che cos'ha di tanto affascinante quel vecchio relitto?»

    «Andiamo,  Harry.  Se  non  lo  sapessi  non  mi daresti tanto filo da

    torcere.» Rise, e io ritenni opportuno non rivelare la mia ignoranza.

    «Credi di poter ritrovare la strada?» chiesi alla bionda.  «Il mare  è

    grande  e  le isole si assomigliano tutte.  Penso che dovreste tenermi

    come garanzia» insistetti.

    «Mi spiace,  Harry.» Manny si diresse verso il bar di teak  e  ottone.

    «Da bere?» chiese.

    «Scotch» risposi, e lui riempì un bicchiere a metà e me lo portò.

    «Per  essere  del  tutto  sincero  con  te,  questo avviene in parte a

    beneficio di Lorna.  Hai amareggiato questa  ragazza,  Harry,  non  so

    perché... ma ci teneva in modo particolare a essere presente per dirti

    addio. Questo genere di cose le piace... vero, tesoro?... la eccita.»

    Io  vuotai  il  bicchiere.  «Ne  ha  proprio  bisogno...  Come tu e io

    sappiamo bene,  a letto non  vale  granché  senza  questi  trucchetti»

    osservai,  e  Manny mi colpì alla bocca,  spaccandomi le labbra,  e il

    whisky mi bruciò la carne viva.

    «Mettetelo sotto chiave» disse piano. Mentre mi spintonavano fuori dal

    salone e lungo il ponte a proravia, mi consolai col pensiero che Lorna

    avrebbe dovuto rispondere a qualche domanda sgradevole. Ai due lati le

    luci sulle sponde  scorrevano  all'indietro  nella  notte  a  velocità

    costante, e il fiume era nero e largo.

    Sulla  parte anteriore del ponte,  sopra il castello di prua,  sorgeva

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    una bassa cabina di coperta e un boccaporto dava su una  scaletta  che

    portava a un piccolo corridoio. Evidentemente questi erano gli alloggi

    dell'equipaggio;  le  porte  del  corridoio si aprivano sulle cabine e

    sulla mensa.

    A prua c'era una porta d'acciaio  e  un  cartello  stampato  indicava:

    "Magazzino  del  castello  di  prua".  Mi  spinsero  oltre la soglia e

    sbatterono il pesante battente.  La serratura scattò e io mi  ritrovai

    solo  in  un cubicolo d'acciaio,  probabilmente un metro e ottanta per

    uno e venti.  Le paratie erano rivestite da armadietti  e  l'aria  era

    umida e stantia.

    La  mia  prima  preoccupazione  fu  di trovare un'arma qualsiasi.  Gli

    armadi erano tutti chiusi a chiave e le ante erano di  quercia  spessa

    un paio di centimetri.  Ci sarebbe voluta un'ascia per sfondarle,  ciò

    nondimeno provai.  Tentai anche di sfondare la porta usando la  spalla

    come  ariete,  ma  lo  spazio  era  troppo ristretto e non riuscivo ad

    acquistare sufficiente slancio.

    Comunque il rumore attirò l'attenzione.  La porta si aprì di scatto  e

    comparve  un  uomo  dell'equipaggio,  con  una  grossa e brutta Rueger

    Magnum calibro 41 in pugno, a distanza di sicurezza.

    «Piantala» intimò.  «Li dentro non c'è niente» e  indicò  la  pila  di

    vecchi  giubbotti  salvagente  contro  la parete opposta.  «Siediti là

    buono e zitto,  altrimenti chiamo qualcuno dei ragazzi per farti  dare

    una lezione.» Sbatté la porta e io mi lasciai cadere sui giubbotti.

    Era  chiaro che c'era sempre un uomo di guardia alla porta.  Gli altri

    dovevano essere a distanza di voce.  Non mi ero aspettato che  aprisse

    la  porta  ed  ero stato colto di sorpresa.  Dovevo indurlo a farlo di

    nuovo... ma stavolta avrei tentato la fuga. C'erano poche probabilità,

    me ne rendevo conto.  Lui non  doveva  fare  altro  che  puntare  quel

    cannone nel ripostiglio e premere il grilletto.  Non poteva fallire il

    bersaglio.

    Mi  serviva  un  diversivo,   una  specie  di  copertura  per  potermi

    avvicinare. Guardai di nuovo con rimpianto gli armadietti, poi dedicai

    la  mia  attenzione  alle  tasche.   Mi  avevano  ripulito  per  bene:

    l'accendino e i sigari,  le chiavi della macchina,  il temperino tutto

    sparito.  Ma mi avevano lasciato il fazzoletto tre banconote da cinque

    sterline ripiegate nella tasca posteriore se l'erano lasciate sfuggire

    e avevo ancora l'orologio.

    Guardai la pila di giubbotti salvagente e mi alzai per  scostarli.  In

    mezzo  c'era  una  cassetta  di  legno  per  la  frutta  che conteneva

    materiali di scarto per le pulizie.  Uno spazzolone  di  nylon  per  i

    pavimenti,  stracci,  una scatola di detersivo,  mezza forma di sapone

    giallo e una bottiglia di cognac piena a metà di  un  liquido  chiaro.

    Svitai il tappo e annusai. Era benzina.

    Mi  sedetti di nuovo per riesaminare la mia posizione,  cercando senza

    molto successo di trovare uno spiraglio.

    L'interruttore della luce era fuori della porta e la luce in alto  era

    coperta  da  una spessa plafoniera di vetro.  Mi alzai e mi arrampicai

    sugli armadietti,  puntellandomi  mentre  smontavo  la  plafoniera  ed

    esaminavo la lampadina. Un filo di speranza c'era.

    Ridiscesi e scelsi uno dei pesanti giubbotti di tela. Il fermaglio del

    cinturino  d'acciaio  del  mio orologio formava una lama spuntata: con

    quella lacerai e tagliuzzai la tela, aprendo un buco abbastanza grande

    da far passare l'indice.  Strappai il tessuto e tirai fuori a manciate

    l'imbottitura di kapok bianco.  L'ammucchiai sul pavimento,  lacerando

    altri giubbotti fino a formare un bel mucchio.

    Inzuppai i cascami di cotone con  la  benzina  della  bottiglia  e  ne

    portai  con  me  una  manciata  quando  mi  arrampicai  di  nuovo fino

    all'apparato di illuminazione.  Svitai la lampadina e  piombai  subito

    nel buio.  Lavorando solo col tatto premetti l'imbottitura imbevuta di

    benzina vicino ai morsetti della corrente.  Non avevo niente da  usare

    come  isolante,  perciò tenni il cinturino d'acciaio dell'orologio fra

    le mani nude e lo usai per provocare un cortocircuito.

    Ci fu un lampo azzurro sfrigolante, la benzina prese fuoco all'istante

    e una scarica da 180 volts mi  colpì  come  una  rosa  di  pallini  da

    caccia,  buttandomi  giù  dal  mio  trespolo.  Caddi  di  schianto sul

    tavolato, con una palla di kapok in fiamme fra le mani.

    Fuori sentii deboli suoni  irritati  e  incolleriti.  Ero  riuscito  a

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    mandare  in  corto  circuito  tutto  il  sistema  d'illuminazione  del

    castello di prua.  Lanciai in fretta  il  kapok  ardente  sul  mucchio

    preparato e le fiamme si levarono allegre.  Mi spazzolai dalle mani le

    scintille,  avvolsi il  fazzoletto  intorno  alla  bocca  e  al  naso,

    afferrai  uno  dei  salvagenti intatti e andai ad appostarmi contro la

    porta d'acciaio.

    In pochi secondi la benzina evaporò e il  cotone  cominciò  a  fumare,

    sprigionando un denso fumo nero dal puzzo terribile.  Lo sgabuzzino si

    riempì e gli occhi cominciarono a lacrimarmi.  Tentai di respirare  ma

    il fumo mi straziava i polmoni e fui assalito da una tosse violenta.

    Dietro la porta si sentì un altro grido.

    «Sta  bruciando  qualcosa.» E si sentì rispondere: «Cristo,  accendete

    quelle luci.»

    Non aspettavo altro,  cominciai a battere sulla porta di acciaio  e  a

    gridare  con  tutta  la voce che avevo in gola.  «Fuoco!  La nave va a

    fuoco!» Non era tutta scena.  Il fumo nella mia prigione era spesso  e

    denso  e  dal  kapok  in fiamme se ne sprigionava dell'altro.  Mi resi

    conto che se nessuno apriva la  porta  entro  sessanta  secondi  sarei

    morto  soffocato  e  le mie grida dovettero risultare convincenti.  La

    guardia spalancò la porta,  puntando il grosso revolver e diresse  nel

    ripostiglio la luce di una pila.

    Ebbi  appena  il tempo di notare quei dettagli e di vedere che le luci

    della nave erano ancora spente e figure incerte vagavano a caso  nella

    penombra... poi una densa nuvola di fumo fuoriuscì dal ripostiglio.

    Io  uscii  insieme  al  fumo  come  un  toro  dal  recinto,   cercando

    disperatamente l'aria fresca e atterrito dall'idea di essere  arrivato

    tanto vicino all'asfissia.  L'idea centuplicò le mie forze. La guardia

    finì lunga distesa sotto il mio  impeto  e  mentre  cadeva  la  Rueger

    sparò.  La fiammata, luminosa come un flash, rischiarò tutta la zona e

    mi permise di orientarmi per ritrovare la scaletta di  boccaporto  che

    portava al ponte.

    Nello  spazio  ristretto  il  lampo dello sparo fu così assordante che

    sembrò paralizzare le altre figure indistinte.  Arrivai a mezza strada

    dalla  scaletta prima che uno di loro balzasse per intercettarmi.  Gli

    assestai una spallata nel petto e il fiato gli uscì di colpo  come  da

    un pallone bucato.

    Ora  si sentivano grida preoccupate e un'altra sagoma bloccava i piedi

    della scala.  Attraversando il corridoio avevo acquistato  velocità  e

    concentrai  tutto il mio peso in un calcio che colpì l'uomo al ventre,

    facendolo piegare in due e cadere in ginocchio. Mentre precipitava una

    torcia gli illuminò il viso e vidi che era il mio amico con  il  fiato

    all'aglio.  Gli  posai un piede sulla spalla e lo usai come trampolino

    per balzare su, a metà della scala.

    Delle mani mi afferrarono alla caviglia,  ma le respinsi con un calcio

    e mi trascinai all'altezza del ponte.  Avevo solo un piede sui pioli e

    mi aggrappavo con una mano al giubbotto salvagente e  con  l'altra  al

    corrimano d'ottone.  In quel momento d'impotenza la porta che dava sul

    ponte fu  bloccata  da  un'ennesima  sagoma  scura...  e  le  luci  si

    accesero. Un improvviso bagliore accecante di luce.

    L'uomo  sopra  di  me  era  il  ragazzo  col  manganello e vidi la sua

    espressione di gioia selvaggia mentre lo  sollevava  sulla  mia  testa

    indifesa.  L'unico  modo  di  schivarlo  era  mollare  il  corrimano e

    ricadere sul ponte di prua, che era pieno di gorilla inferociti.

    Guardai indietro e stavo per lasciare la presa  quando  dietro  di  me

    l'uomo  con  la  Rueger  Magnum  si  mise a sedere intontito,  sollevò

    l'arma,  tentando di controbilanciare il movimento della  nave,  e  mi

    sparò. La pesante pallottola mi fischiò dentro l'orecchio, spaccandomi

    quasi  il  timpano,  e  colpì in mezzo al petto l'uomo col manganello.

    L'impatto lo sollevò,  proiettandolo all'indietro in mezzo  al  ponte.

    Rimase sospeso sul sartiame dell'albero di trinchetto,  con le braccia

    allargate come uno spaventapasseri,  e con uno scatto disperato io  lo

    seguii  sul  ponte  e  rotolai  in  piedi  continuando  a stringere il

    giubbotto.

    Dietro a  me  la  Rueger  abbaiò  di  nuovo  e  sentii  la  pallottola

    scheggiare  la  cimasa  del  boccaporto.  Con tre falcate mi portai al

    parapetto e mi tuffai oltre la fiancata con un salto  mortale.  Colpii

    la  superficie  nera  dell'acqua,  ma fui trascinato a fondo perché il

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    vortice delle eliche mi attirò, facendomi roteare.

    L'acqua era gelida da morire,  pareva che mi  penetrasse  nei  polmoni

    conficcandomi spilli di ghiaccio nel midollo delle ossa.

    Il  giubbotto salvagente mi aiutò a tornare finalmente in superficie e

    mi guardai intorno stravolto.

    Le luci della costa sembravano chiare e  luminosissime,  scintillavano

    bianche oltre l'acqua nera. Qui al largo il mare era agitato e le onde

    di superficie mi sballottavano su e giù.

    Il  "Mandrake"  proseguiva a velocità costante verso il vuoto nero del

    mare aperto. Mentre si allontanava con tutte le luci accese pareva una

    nave da crociera pavesata a festa.

    Con movimenti impacciati mi tolsi le scarpe e la giacca, poi riuscii a

    infilare le braccia nelle maniche del  giubbotto.  Quando  guardai  di

    nuovo,  il "Mandrake" era lontano un miglio, ma a un tratto cominciò a

    virare e dal ponte partì il lungo raggio bianco di un  riflettore  che

    prese a danzare sulla superficie buia del mare.

    Guardai  di  nuovo  verso  terra,  individuando  le  luci della boa di

    English Ground e mettendola in relazione con il faro di  Flatholm.  In

    pochi  secondi,  la  posizione  relativa  delle  due  luci era variata

    leggermente,  la marea stava calando e la corrente  puntava  a  ovest.

    Cominciai a nuotare assecondandola.

    Il Mandrake aveva rallentato e stava tornando indietro.  Il riflettore

    girava e brillava,  scrutava e frugava,  continuando ad avanzare verso

    di me.

    Sfruttai  la  corrente,  nuotando  con una lunga bracciata laterale in

    modo da non rompere la superficie e fare  schiuma,  trattenendomi  dal

    sollevare  il  braccio  mentre la nave illuminata si avvicinava sempre

    più. Quando arrivò alla mia altezza,  il raggio del riflettore frugava

    lo specchio d'acqua libera sul lato opposto del "Mandrake".

    La  corrente  mi  aveva  allontanato  dalla  sua  traiettoria,   e  il

    "Mandrake"   era   arrivato   all'estremità   del   suo   raggio    di

    perlustrazione...  a  circa  centocinquanta  metri  di distanza...  ma

    riuscivo a scorgere gli uomini sul ponte. La vestaglia di seta azzurra

    di Manny Resnick splendeva sotto le luci come l'ala di una farfalla  e

    sentivo  la  sua  voce  levarsi  piena  di  collera,   ma  non  potevo

    distinguere le parole.

    Il fascio di luce del riflettore puntò verso di me come il lungo  dito

    bianco  di  un  accusatore.  Perlustrava  il  mare seguendo uno schema

    rigoroso come la trama di una tela e al prossimo passaggio mi  avrebbe

    individuato  certamente.  Raggiunse la fine del passaggio trasversale,

    girò e tornò indietro.  Io mi trovavo sulla traiettoria di  curva  del

    raggio,  ma nell'attimo in cui mi passò sopra,  una spinta capricciosa

    del mare sollevò una  massa  d'acqua  scura  e  io  ricaddi  nel  cavo

    dell'onda.  La  luce,  diffusa dalla cresta dell'onda,  passò su di me

    senza  individuarmi  e  proseguì  nella  sua  ricerca  sistematica   e

    implacabile.

    Mi avevano mancato.  Ormai proseguivano,  tornando verso la foce della

    Severn.  Io rimasi affidato all'abbraccio ruvido del giubbotto di tela

    e li osservai allontanarsi, assalito dalla nausea per il sollievo e la

    reazione  nervosa.   Ma  ero  libero.   Tutto  quello  di  cui  dovevo

    preoccuparmi, adesso, era quanto tempo ci voleva a morire assiderati.

    Ripresi a nuotare,  osservando le luci del "Mandrake" rimpicciolire  e

    perdersi sullo sfondo costellato di lustrini della costa.

    Avevo lasciato l'orologio nel castello di prua,  così non seppi quanto

    tempo era passato prima che perdessi ogni sensibilità nelle braccia  e

    nelle gambe.

    Tentai  di  continuare  a  nuotare,  ma non ero certo che i muscoli mi

    rispondessero.

    Cominciai a provare la magnifica  sensazione  di  fluttuare  libero  e

    leggero.  Le  luci  di terra svanirono e mi parve di essere avvolto da

    nuvole bianche calde e soffici.  Pensai che se questa era la morte non

    era  tanto  brutta  come  la  dipingevano e ridacchiai come un'idiota,

    andando alla deriva nel giubbotto fradicio.

    Mi chiesi con interesse perché avessi perso la vista, non era così che

    l'avevo sentita descrivere.  Poi a un tratto m'accorsi che con  l'alba

    si era levata la nebbia ed era stato questo ad accecarmi. Comunque, la

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    luce  del giorno stava acquistando intensità: riuscivo a vedere fino a

    sei metri di distanza nei banchi di nebbia turbinante.

    Chiusi gli occhi e mi addormentai;  il  mio  ultimo  pensiero  fu  che

    questo probabilmente era il mio ultimo pensiero.  Mi venne di nuovo da

    ridere, mentre il buio mi sommergeva.

    Mi svegliarono delle voci,  molto nitide e vicine  nella  nebbia,  con

    l'accento  pastoso  e musicale del Galles.  Tentai di gridare e con la

    sensazione di compiere una grande impresa lanciai una specie di  grido

    stridulo da gabbiano.

    Dalla  nebbia  emerse  la sagoma scura e tozza di una vecchia barca da

    aragoste.  Si lasciava trasportare dalla corrente,  e due uomini erano

    protesi oltre la fiancata intenti a disporre le nasse.

    Emisi un altro grido stridulo e uno degli uomini alzò lo sguardo. Ebbi

    l'impressione  di  due  occhi  celesti in un viso rubicondo,  rugoso e

    segnato dalle intemperie,  con un berretto e una vecchia pipa di erica

    bianca stretta fra denti giallastri e irregolari.

    «Buongiorno» gracchiai.

    «Cristo!» esclamò il pescatore senza mollare il cannello della pipa.

    Trovai asilo nella minuscola timoneria,  avvolto m una vecchia coperta

    sudicia,  e bevvi del tè fumante senza zucchero da una tazza di smalto

    scheggiato, scosso da brividi così violenti che la tazza mi saltellava

    fra le mani strette.

    Tutto  il  mio  corpo  era  di una deliziosa sfumatura di azzurro e il

    risveglio della circolazione fu una tortura  angosciosa.  I  miei  due

    salvatori erano uomini taciturni, con uno straordinario rispetto della

    privacy   altrui,   probabilmente  inculcato  in  loro  da  una  lunga

    ascendenza di bucanieri e contrabbandieri.

    Prima che sistemassero le nasse e cominciassero il viaggio di  ritorno

    verso  casa  si  era fatto mezzogiorno e io mi ero scongelato.  I miei

    vestiti si erano asciugati sulla stufa nella minuscola cambusa e avevo

    la pancia piena di pane scuro e sandwich con sgombro affumicato.

    Entrammo a Port Talbot e quando tentai di ricompensarli del loro aiuto

    con i miei biglietti da cinque spiegazzati,  il più  anziano  dei  due

    pescatori mi puntò addosso uno sguardo azzurro e glaciale.

    «Ogni  volta che strappo un uomo al mare mi sento totalmente ripagato,

    signore. Si tenga i soldi.»

    Il viaggio di ritorno a Londra fu un,  incubo di autocorriere e  treni

    della  sera.  Quando  uscii  con  passo  malfermo  dalla  stazione  di

    Paddington,  alle dieci della mattina dopo,  capii perché un  paio  di

    poliziotti avessero rallentato la loro maestosa andatura per guardarmi

    bene in faccia. Dovevo avere l'aria di un galeotto evaso.

    Il  tassista  osservò con occhio disincantato la mia barba scura lunga

    di due giorni,  il labbro  gonfio  e  l'occhio  pesto.  «Il  marito  è

    rientrato troppo presto, vero, amico?» mi chiese, e io gemetti piano.

    Sherry North apri la porta dell'appartamento di suo zio e mi fissò con

    gli occhi azzurri dilatati dallo stupore.

    «Oh,  mio  Dio,  Harry!  Cosa  diavolo  ti è successo?  Hai un aspetto

    terribile.»

    «Grazie» ribattei. «Questo mi risolleva davvero il morale.»

    Mi prese per il braccio,  guidandomi in casa.  «Ero fuori di  me.  Due

    giorni!  Ho chiamato perfino la polizia,  gli ospedali... tutto quello

    che mi veniva in mente.»

    Lo zio si aggirava sullo  sfondo  e  la  sua  presenza  m'innervosiva.

    Rifiutai  l'offerta  di un bagno e di abiti puliti...  e invece portai

    Sherry con me al Windsor Arms.

    Lasciai la porta del bagno aperta mentre mi radevo e facevo il  bagno,

    così potevamo parlare, e anche se lei restò fuori del mio campo visivo

    mentre  ero  nella  vasca,  pensai che fra noi si stava sviluppando un

    utile senso d'intimità.

    Le  riferii  nei  dettagli  il  mio  sequestro  a  opera  dei  gorilla

    ammaestrati  di  Manny  Resnick  e  la  mia  fuga,  senza  fare nessun

    tentativo di sminuire il  mio  ruolo  eroico,  e  lei  ascoltò  in  un

    silenzio che potevo attribuire solo a un'ammirazione affascinata.

    Emersi  dal  bagno  con  un  asciugamano legato intorno alla vita e mi

    sedetti sul letto per finire il racconto, mentre Sherry medicava tagli

    e abrasioni.

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    «Ora devi andare alla polizia,  Harry» disse  lei  alla  fine.  «Hanno

    tentato di ucciderti.»

    «Sherry, tesoro mio, ti prego, non continuare a parlare di polizia. Mi

    rende nervoso.»

    «Ma, Harry...»

    «Scordati  della  polizia  e ordina qualcosa da mettere sotto i denti.

    Non mi ricordo più da quanto tempo non mangio.»

    L'albergo ci mandò in camera una bella grigliata di bacon e  pomodori,

    uova fritte, pane tostato e tè. Mentre mangiavo, tentai di ricollegare

    la   recente   svolta   degli   avvenimenti   alle  nostre  precedenti

    informazioni e di modificare in conseguenza i nostri piani.

    «A proposito,  tu eri sulla lista delle vittime.  Non intendevano solo

    allestire un barbecue con le tue dita.  Manny Resnick era convinto che

    i suoi ragazzi ti avessero ucciso» e sul suo bel viso passò una strana

    espressione.  «A  quanto  pare  volevano  eliminare  chiunque  sapesse

    qualcosa della "Dawn Light".»

    Presi un altro boccone di uova e prosciutto e masticai in silenzio.

    «Almeno adesso abbiamo una tabella di marcia.  Lo yacht di Manny,  che

    fra parentesi si chiama "Mandrake", sembra molto veloce e potente,  ma

    impiegherà lo stesso tre o quattro settimane per raggiungere le isole.

    Questo ci lascia un certo margine.»

    Sherry mi versò il tè, aggiungendo il latte da ultimo come piace a me.

    «Grazie,  Sherry,  sei  un  angelo di misericordia.» Lei tirò fuori la

    lingua e io proseguii:  «Qualunque  cosa  sia  quello  che  cerchiamo,

    dev'essere qualcosa di straordinario.  Quello yacht che Manny ha preso

    in affitto sembra il panfilo reale.  Deve aver sborsato poco  meno  di

    centomila sterline,  per questo scherzetto. Dio, vorrei proprio sapere

    che cosa contengono quelle cinque casse.  Ho tentato di sondare Manny,

    ma mi ha riso in faccia.  Ha detto che dovevo saperlo,  altrimenti non

    mi sarei dato tanta pena...».

    «Oh, Harry.» Il viso di Sherry s'illuminò.  «Tu hai portato le cattive

    notizie... ora tienti pronto per quelle buone.»

    «Non temere, reggerò il colpo.»

    «Sai la nota di Jimmy sulla lettera, "B. Mus."?»

    Annuii. «"Bachelor of Music"?»

    «No, idiota... British Museum.»

    «Temo di non seguirti.»

    «Ne  discutevo  con  lo zio Dan e lui l'ha riconosciuta subito.  E' la

    segnatura di un'opera nella biblioteca del British Museum.  Lui ha una

    tessera  d'ingresso.  Sta  facendo  delle  ricerche  per un libro e ci

    lavora spesso.»

    «Potremo entrarci?»

    «Tentar non nuoce.»

    Attesi quasi due ore sotto l'enorme cupola azzurro e oro della sala di

    lettura del British Museum, mentre il desiderio di fumare un sigaro mi

    attanagliava il petto come una morsa.

    Non sapevo cosa stavo aspettando...  avevo solo riempito il modulo  di

    richiesta  con  la  segnatura di Jimmy North...  così quando alla fine

    l'inserviente mi posò  davanti  un  grosso  volume,  lo  afferrai  con

    impazienza.

    Era  un'edizione  Secker  e  Warburg pubblicata per la prima volta nel

    1963. L'autore era un certo dottor P.A. Ready e il titolo era impresso

    in oro sul dorso: "Tesori leggendari del mondo".

    Prima di aprire il libro,  mi soffermai un attimo a  riflettere  e  mi

    chiesi  quale catena di coincidenze avesse consentito a Jimmy North di

    seguire questo gioco a rimpiattino  di  antichi  indizi.  Aveva  letto

    prima questo libro,  spinto dalla divorante ossessione per i relitti e

    i tesori marini, per poi imbattersi nel lotto di vecchie lettere?  Non

    l'avrei mai saputo.

    C'erano quarantanove capitoli, ognuno dedicato a una voce particolare.

    Lessi attentamente l'indice.

    Vi  erano  elencati tesori aztechi,  il vasellame e le verghe d'oro di

    Panama,  bottini di bucanieri,  una  miniera  d'oro  sperduta  fra  le

    Montagne Rocciose,  una valle di diamanti nel Sud Africa,  le navi del

    tesoro dell'Armada,  il vascello  "Lutine"  addetto  al  trasporto  di

    lingotti d'oro, da cui era stata recuperata la famosa campana "Lutine"

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    dei Lloyd's,  il carro d'oro di Alessandro Magno, altri tesori marini,

    antichi e moderni,  dalla Seconda guerra mondiale  fino  al  sacco  di

    Troia,  tesori  di Mussolini,  Prete Gianni,  Dario,  generali romani,

    corsari e pirati di Barberia e Coromandel.  Era un'immensa  profusione

    di fatti e di fantasia, storia e congetture. Tesori di città perdute e

    civiltà  dimenticate,  da  Atlantide  alla  favolosa  città  d'oro nel

    deserto del Kalahari...  C'era tanto materiale  che  non  sapevo  dove

    mettere le mani.

    Con  un sospiro mi dedicai alla prima pagina,  saltando introduzione e

    prefazione. Cominciai a leggere.

    Alle cinque avevo sfogliato superficialmente sedici capitoli  che  non

    potevano avere a che fare con la "Dawn Light" e ne avevo letti a fondo

    cinque,  e  ormai  avevo capito come mai Jimmy North si fosse lasciato

    contagiare dal  romanticismo  e  dall'eccitazione  del  cacciatore  di

    tesori.  Solleticavano  anche  me,  queste  storie di grandi ricchezze

    abbandonate,  che aspettavano solo di essere raccolte da qualcuno  che

    avesse la fortuna e la costanza di scovarle.

    Guardai il nuovo orologio giapponese col quale avevo sostituito il mio

    Omega  e mi precipitai fuori dal massiccio portale di pietra del museo

    per attraversare Great Russel Street,  diretto al mio appuntamento con

    Sherry. Lei mi aspettava nel bar affollato del Running Stag.

    «Mi spiace» dissi. «Mi ero scordato dell'ora.»

    «Avanti.»  Mi  afferrò  per  il  braccio.  «Sto  morendo  di sete e di

    curiosità.»

    Le offrii una pinta di birra per la sete, ma riuscii solo a infiammare

    la sua curiosità con il titolo del libro.  Voleva rispedirmi subito in

    biblioteca, prima ancora che avessi finito la cena, ma io tenni duro e

    riuscii  a  fumare mezzo sigaro prima di lasciarmi trascinare fuori al

    freddo.

    Le detti la chiave della mia stanza al Windsor Arms, la sistemai su un

    taxi e le dissi di aspettarmi li.  Poi mi affrettai  a  tornare  nella

    sala di lettura.

    Il  capitolo  seguente  del  libro era intitolato: "Il Gran Mogol e il

    Trono della Tigre".

    Cominciava con una breve introduzione storica che spiegava come Babur,

    discendente di Timur e Gengis Khan,  i  due  famigerati  flagelli  del

    mondo antico,  avesse attraversato le montagne per scendere nell'India

    settentrionale e fondare l'impero del Gran Mogol.  Mi  accorsi  subito

    che  questo rientrava nell'ambito dei miei interessi,  la "Dawn Light"

    era salpata proprio da quell'antico continente.

    La storia copriva il  periodo  degli  illustri  successori  di  Babur,

    sovrani  musulmani  che  erano  assurti  a  grande potere e influenza,

    avevano costruito città imponenti e lasciato dietro di sé monumenti al

    senso estetico dell'umanità come il Taj Mahal.  Infine  descriveva  il

    declino  della  dinastia  e  la  sua  distruzione nel primo anno della

    rivolta  indiana,  quando  le  forze  inglesi  alla  riscossa  avevano

    infuriato,  saccheggiando  l'antica  cittadella  e  fortezza di Delhi,

    facendo  giustizia  sommaria  dei  principi  mongoli  e  gettando   in

    cattività il vecchio imperatore Bahadur Scià.

    Quindi  l'autore  distoglieva  bruscamente  la  sua attenzione da quel

    vasto panorama storico.

    "Nel  1665  Jean-Baptiste  Tavernier,  un  viaggiatore  e  gioielliere

    francese,  visitò  la corte dell'imperatore mongolo Aurangzeb.  Cinque

    anni dopo pubblicò a Parigi il suo celebre 'Viaggi in  Oriente'.  Pare

    che  egli  abbia  goduto  di  particolare  favore  presso l'imperatore

    musulmano,  poiché gli fu concesso di entrare nelle leggendarie camere

    del  tesoro  della  cittadella  e catalogare vari pezzi di particolare

    interesse.  Fra questi c'era un diamante che egli definì 'Gran Mogol'.

    Tavernier pesò la pietra e ne valutò la mole in duecentottanta carati.

    Descrisse   questo   brillante   perfetto  come  dotato  di  una  luce

    straordinaria e di un colore puro e bianco 'come la Stella Polare  dei

    cieli'.

    L'ospite  di  Tavernier  lo  informò  che la pietra era stata estratta

    dalla famosa miniera di Golconda verso il 1650 e che allo stato grezzo

    era un esemplare prodigioso di settecentottantasette carati.

    Il taglio della pietra era quello caratteristico a rosetta, ma non era

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    simmetrico,  perché risultava più grande da una parte.  Da  allora  la

    pietra  non  è  stata più segnalata e molti ritengono che Tavernier in

    realtà  abbia  visto  il  Koh-i-noor  o  l'Orloff.  Tuttavia  è  molto

    improbabile  che un osservatore e orefice esperto come Tavernier possa

    aver sbagliato così grossolanamente nel peso e nella  descrizione.  Il

    Koh-i-noor  prima  di  venir  tagliato  di  nuovo a Londra era solo di

    centonovantun carati e certamente non era una rosetta.  L'Orloff,  per

    quanto  fosse  tagliato a rosetta,  era ed è una gemma simmetrica,  di

    centonovantanove  carati.   La  descrizione  non  si  può  minimamente

    paragonare   con  quella  di  Tavernier  e  tutte  le  prove  indicano

    l'esistenza di un enorme diamante  bianco  che  è  sparito  dal  mondo

    conosciuto.

    Nel  1739,  quando  lo  scià di Persia Nadir penetrò in India e occupò

    Delhi, non tentò di conservare le proprie conquiste,  ma si accontentò

    di  un  enorme  bottino,  che  comprendeva il diamante Koh-i-noor e il

    trono del pavone dello scià Jehan.  Sembra probabile che  il  diamante

    'Gran  Mogol'  sia  sfuggito  al  rapace  persiano  e  che dopo la sua

    ritirata Mohammed Scià, l'imperatore designato,  privato del suo trono

    tradizionale,  abbia ordinato la costruzione di un sostituto. Tuttavia

    l'esistenza di questo nuovo tesoro rimase avvolta nel  mistero  e  per

    quanto ci siano allusioni in proposito nelle cronache indigene, si può

    citare una sola testimonianza europea.

    Il  diario  dell'ambasciatore  inglese  alla  corte di Delhi nell'anno

    1747, Sir Thomas Jenning, descrive un'udienza concessa dall'imperatore

    mongolo,  in cui egli era avvolto in sete preziose e ornato di fiori e

    gioielli,  seduto  su  un  grande trono d'oro.  La forma del trono era

    quella di una tigre feroce,  con le mascelle  spalancate  e  un  unico

    occhio  ciclopico  risplendente.  Il corpo della tigre era incastonato

    con straordinaria abilità di ogni sorta di pietre preziose. Sua maestà

    è stata tanto benigna da lasciarmi accostare al  trono  per  esaminare

    l'occhio  della  tigre,  che  mi  assicurò  essere  un grosso diamante

    risalente al regno del suo antenato Aurangzeb.

    Era il 'Gran Mogol' di Tavernier,  ora incorporato nel trono di  tigre

    dell'India?  Se è così,  allora si deve dar credito a una strana serie

    di circostanze con la quale dobbiamo porre fine al  nostro  studio  di

    questo tesoro perduto.

    Il  16  settembre  1857  furiosi combattimenti riempirono le strade di

    Delhi di morti e feriti e l'esito della lotta rimase in sospeso mentre

    le forze inglesi e le truppe indigene rimaste fedeli combattevano  per

    liberare  la  città  dai 'sepoy' ammutinati e impadronirsi dell'antica

    fortezza che dominava la città.

    Mentre infuriava il combattimento, un gruppo di fedeli truppe indigene

    del Centounesimo reggimento,  al comando  di  due  ufficiali  europei,

    ricevette  l'ordine  di  attraversare  il fiume e aggirare le mura per

    controllare la strada verso il nord.  Lo  scopo  era  di  impedire  ai

    membri della famiglia reale mongola o ai capi ribelli di fuggire dalla

    città condannata.

    I due ufficiali europei erano il capitano Matthew Long e il colonnello

    Sir Roger Goodchild..."

    Il  nome  mi  balzò incontro dalla pagina,  e non solo perché qualcuno

    l'aveva sottolineato a matita. In margine, sempre a matita,  c'era uno

    dei caratteristici punti esclamativi di Jimmy North. L'irriverenza del

    giovane   James   per   i   libri   includeva  quelli  appartenenti  a

    un'istituzione venerabile come il British Museum.  Scoprii di avere le

    guance in fiamme per l'eccitazione.  Questo era l'ultimo frammento che

    mancava al puzzle. Ormai il quadro era completo e i miei occhi corsero

    attraverso la pagina.

    "Nessuno saprà mai che cosa  successe  quella  notte,  su  una  strada

    deserta  in  mezzo alla giungla indiana,  ma sei mesi dopo il capitano

    Long e il Subahdar indiano Ram Panat prestarono testimonianza  davanti

    alla corte marziale istruita contro il colonnello Goodchild.

    Descrissero  come avevano intercettato un gruppo di nobili indiani che

    fuggiva dalla città in fiamme.  Il gruppo  comprendeva  tre  sacerdoti

    musulmani  e due principi di sangue reale.  Alla presenza del capitano

    Long uno dei principi aveva tentato di  comprare  la  propria  libertà

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    offrendosi  di  guidare  gli ufficiali inglesi a un grande tesoro,  un

    trono d'oro a forma di tigre e con un solo occhio di diamante.

    Gli ufficiali avevano accettato e i principi li avevano guidati fino a

    una moschea nella giungla. Nel cortile della moschea c'erano sei carri

    tirati da buoi.  I conducenti avevano disertato e quando gli ufficiali

    inglesi  erano smontati da cavallo e avevano esaminato il contenuto di

    questi veicoli, era risultato che contenevano davvero un trono d'oro a

    forma di tigre.  Il trono  era  stato  diviso  in  quattro  parti  per

    facilitarne il trasporto... quarti posteriori, trono, quarti anteriori

    e testa. Alla luce delle lanterne queste sezioni apparvero adagiate su

    un letto di paglia, splendenti d'oro e incrostate di pietre preziose e

    semipreziose.

    Il  colonnello  Roger  Goodchild  aveva allora ordinato che principi e

    sacerdoti  fossero  giustiziati  all'istante.  Erano  stati  allineati

    contro  il  muro  esterno  della  moschea  e  uccisi  con una salva di

    moschetto.  Il colonnello stesso si era aggirato fra i nobili  caduti,

    somministrando  il  'coup-de-grâce'  con  il  revolver  d'ordinanza In

    seguito i cadaveri erano stati gettati in un pozzo  fuori  delle  mura

    della moschea.

    I  due  ufficiali  si  erano  separati: il capitano Long con il grosso

    della truppa indigena era tornato a pattugliare le mura  della  città,

    mentre  il colonnello,  il Subahdar Ram Panat e quindici 'sepoy' erano

    ripartiti con i carri.

    La testimonianza  del  Subahdar  indiano  alla  corte  marziale  aveva

    descritto  come  avessero  portato a ovest il prezioso carico passando

    attraverso le linee inglesi grazie  all'autorità  del  colonnello.  Si

    erano  acquartierati  per tre giorni in un piccolo villaggio indigeno.

    Qui il carpentiere locale e i suoi due figli avevano lavorato sotto la

    direzione del colonnello per costruire quattro solide casse  di  legno

    che  dovevano contenere le quattro parti del trono.  Il colonnello nel

    frattempo si era dedicato a rimuovere  dalla  statua  le  pietre  e  i

    gioielli  incastonati nel metallo.  La posizione di ciascuna era stata

    annotata con cura su un diagramma preparato da Goodchild e  le  pietre

    erano  state  numerate  e  racchiuse in una cassetta di ferro del tipo

    usato sul campo dagli ufficiali pagatori dell'esercito per la custodia

    di monete e contante.

    Una volta che il trono e le pietre erano stati racchiusi nelle quattro

    casse e nella cassetta di ferro,  queste erano state caricate di nuovo

    sui carri e il viaggio era proseguito verso la stazione ferroviaria di

    Allahabad.

    Lo  sfortunato  carpentiere  e  i  suoi  figli erano stati obbligati a

    unirsi al convoglio.  Il Subahdar ricordò che  quando  la  strada  era

    entrata  in  una  zona  di  foresta fitta il colonnello era smontato e

    aveva condotto i tre artigiani fra gli  alberi.  Erano  risuonati  sei

    colpi di pistola e il colonnello era tornato solo."

    Interruppi  per qualche istante la lettura per riflettere sulla figura

    del prode colonnello. Mi sarebbe piaciuto presentarlo a Manny Resnick,

    dovevano avere molto in comune. Sogghignai e ripresi a leggere.

    "Il  sesto  giorno  il  convoglio  aveva  raggiunto  Allahabad  e   il

    colonnello  aveva  invocato  la priorità militare per sistemare le sue

    cinque casse su una tradotta che tornava a Bombay. Fatto questo, lui e

    il suo piccolo presidio avevano raggiunto il reggimento a Delhi.

    Sei mesi dopo, il capitano Long, appoggiato dal sottufficiale indiano,

    Ram Panat,  elevò le sue accuse contro l'ufficiale.  Possiamo supporre

    che  i  ladri  si fossero divisi;  forse il colonnello Goodchild aveva

    deciso che una parte era meglio di tre. Sia come sia, da allora nessun

    indizio è venuto alla luce sulla sorte del tesoro.

    Il processo celebrato a Bombay fu una 'cause  célèbre'  e  godette  di

    ampia pubblicità in India e in patria,  ma il punto debole dell'accusa

    fu che non c'era nessun bottino da esibire, e i morti non parlano.

    Il colonnello fu riconosciuto non  colpevole.  Tuttavia  la  pressione

    dello   scandalo  non  gli  lasciò  altra  scelta  che  rassegnare  le

    dimissioni e tornare a Londra. Se riuscì in qualche modo a portare con

    sé il diamante "Gran Mogol" e il trono d'oro della tigre,  il  seguito

    della  sua esistenza non autorizza a ritenere che fosse in possesso di

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    grandi ricchezze. In società con una ben nota signora della città aprì

    in Bayswater Road una casa da gioco che ben  presto  si  guadagnò  una

    dubbia  fama.  Il  colonnello  Sir  Roger  Goodchild  morì  nel  1871,

    probabilmente di sifilide terziaria contratta durante il soggiorno  in

    India.  La  sua morte diede nuovo vigore alle voci sul favoloso trono,

    ma queste si spensero subito per mancanza di elementi  concreti  e  il

    suo segreto scese nella tomba con lui.

    Forse  avremmo  dovuto intitolare questo capitolo "Il tesoro che non è

    mai esistito".

    "Neanche per sogno, amico", pensai, al settimo cielo.  "E' esistito ed

    esiste".  E ricominciai la storia dall'inizio, ma stavolta presi degli

    appunti a beneficio di Sherry.

    Lei mi aspettava seduta sulla poltrona presso  la  finestra  e  appena

    entrai mi saltò addosso.

    «Dove  sei stato?» domandò.  «Sono rimasta qui tutta la sera a rodermi

    il fegato dalla curiosità.»

    «Non ci crederai mai» le dissi, e pensai che stesse per strozzarmi.

    «Harry  Fletcher,   hai  dieci  secondi  di  tempo  per   tagliare   i

    preamboli... dopo di che ti cavo gli occhi.»

    Parlammo a lungo,  fin dopo mezzanotte, e a quell'ora il pavimento era

    disseminato di carte che studiavamo stando a quattro zampe. C'erano le

    carte nautiche dell'arcipelago di Saint Mary,  le  copie  dei  disegni

    della  "Dawn Light",  le note che avevo ricavato dalla descrizione del

    naufragio fatta dal secondo ufficiale e gli appunti presi  nella  sala

    di lettura del British Museum.

    Avevo tirato fuori la mia fiasca da viaggio d'argento e bevemmo Chivas

    Regal  dal  bicchiere  di  plastica  del  bagno  discutendo  ipotesi e

    progetti,  o tentando di stabilire in quale sezione dello scafo  della

    "Dawn  Light"  erano state stivate le cinque casse,  cercando anche di

    calcolare come si fosse infranta la  nave,  quale  parte  fosse  stata

    spazzata oltre la barriera e quale fosse ricaduta in mare aperto.

    Avevo  abbozzato  una  dozzina  di  eventualità  e  avevo cominciato a

    stendere un inventario  dell'attrezzatura  minima  necessaria  per  la

    spedizione,  alla quale facevo delle aggiunte man mano che mi venivano

    in mente nuove voci o Sherry dava intelligenti suggerimenti.

    Avevo dimenticato che era una  subacquea  di  prim'ordine,  ma  me  ne

    rammentai  mentre  parlavamo.  Ora  mi  rendevo  conto  che  in questa

    spedizione  non  sarebbe  stata  una  semplice  passeggera:   i   miei

    sentimenti  per lei si stavano tingendo di rispetto professionale e lo

    stato d'animo di allegria mista a cameratismo stava creando in noi  un

    crescendo di tensione fisica.

    Le  guance  lisce e pallide di Sherry erano arrossate dall'eccitazione

    mentre stavamo inginocchiati sul tappeto spalla  a  spalla.  Si  volse

    ridendo per dirmi qualcosa,  e le luci azzurre nei suoi occhi, a pochi

    centimetri dai miei, erano provocanti e invitanti.

    A un tratto tutti i troni d'oro e i diamanti favolosi di questo  mondo

    potevano  aspettare il loro turno.  Riconoscemmo entrambi il momento e

    ci volgemmo l'una all'altro con impazienza.  Ci consumava  una  febbre

    divorante  e facemmo l'amore sui disegni della "Dawn Light"...  il che

    era probabilmente la cosa più bella che  fosse  mai  capitata  a  quel

    disgraziato vascello.

    Quando  alla  fine  la portai a letto e i nostri corpi si allacciarono

    sotto la trapunta,  sapevo che tutte le brevi  acrobazie  amorose  che

    avevano  preceduto  il  mio  incontro  con questa donna erano prive di

    significato.  Quello che avevo appena trovato trascendeva la carne per

    diventare  qualcosa  di  spirituale...  e  se  non  era amore,  era il

    sentimento più vicino all'amore che avessi mai provato.

    La mia voce era velata e incerta per la meraviglia,  mentre tentavo di

    spiegarglielo.  Lei  rimase distesa contro il mio petto senza parlare,

    ascoltando le parole che non avevo mai detto a nessuna donna, e quando

    m'interruppi mi strinse...  era chiaramente un  invito  a  continuare.

    Credo che stessi ancora parlando quando ci addormentammo.

    Vista dall'alto,  l'isola di Saint.  Mary ha la forma di uno di quegli

    strani pesci abissali,  dal corpo tozzo e deforme,  con  grosse  pinne

    ventrali  e caudali nei punti più insoliti e una bocca enorme,  troppo

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    larga per il resto.

    La bocca era il porto grande e  la  città  si  annidava  al  punto  di

    congiunzione  delle  mascelle.  I  tetti  di  lamiera splendevano come

    specchi di segnalazione nel mantello  verde  cupo  della  vegetazione.

    L'aereo  descrisse  dei cerchi sull'isola,  offrendo ai passeggeri uno

    spettacolo di spiagge bianche come la neve e acqua tanto  limpida  che

    ogni dettaglio delle barriere coralline e degli abissi roteava sfumato

    sotto la superficie come in un enorme dipinto surrealista.

    Sherry  teneva  il  viso  schiacciato  contro il finestrino rotondo di

    perspex e lanciò gridolini estasiati quando il  Fokker  Friendship  si

    abbassò  sui  campi di ananas dove le donne interruppero il lavoro per

    guardare in su verso di noi.  Toccammo terra e rullammo fino all'unico

    edificio   dell'aeroporto,   sul   quale   un  pannello  pubblicitario

    annunciava "Saint Mary.  La perla dell'Oceano  Indiano",  e  sotto  il

    cartello scorgemmo altre due perle di grande valore.

    Avevo  telegrafato  a  Chubby  e  lui si era portato dietro Angelo per

    darci il benvenuto. Angelo si precipitò alla barriera per abbracciarmi

    e prendermi la borsa e io lo presentai a Sherry.

    Tutto  l'atteggiamento  di  Angelo  subì  una  profonda   metamorfosi.

    Sull'isola  c'è  un attributo estetico stimato più di ogni altro.  Una

    ragazza può avere i denti  sporgenti  e  gli  occhi  strabici,  ma  se

    possiede una carnagione "chiara" avrà interi plotoni di corteggiatori.

    Un  colorito  chiaro  non  significa  essere  libera  dall'acne,  ma è

    piuttosto una gradazione del colore della  pelle...  E  Sherry  doveva

    avere  una  delle  carnagioni  più  chiare  che  si  fossero mai viste

    sull'isola.

    Angelo la fissò, in stato di trance, mentre lei gli stringeva la mano,

    poi si riscosse,  mi restituì la borsa e prese invece la sua.  Poi  la

    seguì a pochi passi come un cane fedele, osservandola con aria solenne

    e  sfoggiando  un sorriso smagliante ogni volta che lei guardava nella

    sua direzione. Fu il suo schiavo fin dal primo momento.

    Chubby ci venne incontro più dignitosamente,  massiccio  e  immutabile

    come una scogliera di granito scuro,  e il suo viso era contorto in un

    cipiglio ancor più feroce del solito mentre mi stritolava la  mano  in

    una  stretta  callosa  e borbottava qualcosa riguardo al fatto che era

    bello rivedermi.

    Fissò Sherry, e lei tremò un po' sotto la ferocia del suo sguardo,  ma

    poi accadde qualcosa che non avevo mai visto prima.  Chubby sollevò il

    vecchio berretto malconcio,  scoprendo la  cupola  marrone  lucente  e

    liscia  della  pelata in un inaudito sfoggio di galanteria ed esibì un

    sorriso così largo da scoprire le gengive di plastica rosa  dei  denti

    finti.  Quando  le  valigie  di  Sherry  furono  scaricate dalla stiva

    dell'aereo,  spinse da parte Angelo,  ne prese una in ogni mano  e  la

    guidò  fino  al furgoncino.  Angelo la seguì devotamente e io arrancai

    dietro di loro sotto il peso del mio bagaglio.  Era  abbastanza  ovvio

    che il mio equipaggio approvava la mia scelta, una volta tanto.

    Ci  riunimmo  nella cucina della casa di Chubby e la signora Chubby ci

    servì torta di banane e caffè,  mentre suo marito e io concludevamo un

    accordo  d'affari.  Per un compenso pattuito a fatica,  lui mi avrebbe

    noleggiato per un periodo indefinito la sua barca da gamberi con i due

    nuovi motori Evinrude. Lui e Angelo avrebbero formato l'equipaggio, al

    vecchio salario,  e ci sarebbe stato un grosso  premio  speciale  alla

    fine dell'ingaggio, se avessimo avuto successo. Non entrai in dettagli

    sullo  scopo  della spedizione,  ma lasciai capire solo che ci saremmo

    accampati sulle isole più esterne del gruppo e che Sherry e io avremmo

    lavorato sott'acqua.

    Quando ci fummo accordati, suggellando il patto con uno schiaffo sulla

    mano,  secondo  il  tradizionale  rito  locale,   era  già  pomeriggio

    inoltrato e la febbre dell'isola aveva cominciato a riaffermare i suoi

    diritti  sulla mia costituzione.  La febbre dell'isola impedisce a chi

    ne è affetto di fare oggi quello che si può ragionevolmente  rimandare

    all'indomani,  così  lasciammo  Chubby  e  Angelo ai loro preparativi,

    mentre Sherry e io ci  fermammo  un  attimo  da  "Ma"  Eddy  per  fare

    provviste,  prima  di spingere il camioncino oltre la cresta e giù fra

    le palme fino a Turtle Bay.

    «E' una favola» mormorò Sherry quando si trovò sull'ampia veranda  del

    bungalow. «Incredibile.» Scosse la testa guardando le palme dal tronco

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    arcuato e più avanti la sabbia di un bianco accecante.

    Io  andai  a  mettermi alle sue spalle,  passandole le braccia intorno

    alla vita e attirandola a me.  Lei si appoggiò all'indietro contro  il

    mio corpo, incrociando le braccia sulle mie e stringendomi le mani.

    «Oh,  Harry,  non  credevo  che  sarebbe  stato così.» In lei si stava

    operando un cambiamento,  lo sentivo chiaramente.  Assomigliava a  una

    pianta  invernale  alla quale sia stato negato troppo a lungo il sole,

    ma nel suo atteggiamento c'erano delle  riserve  che  non  riuscivo  a

    sondare  e che mi lasciavano perplesso.  Non era una persona semplice,

    facile da capire. C'erano in lei barriere,  conflitti che trasparivano

    solo  come  ombre  scure  negli  abissi dei suoi occhi azzurro oceano,

    ombre come quelle degli squali assassini che  nuotano  in  profondità.

    Più  di  una  volta,  quando credeva di non essere osservata,  l'avevo

    sorpresa a lanciarmi uno sguardo che sembrava a un tempo calcolatore e

    ostile... come se mi odiasse.

    Questo era accaduto prima del nostro arrivo sull'isola,  ma ora pareva

    che  come  la pianta invernale lei stesse sbocciando al sole;  come se

    qui potesse scrollarsi di dosso un peso che prima  le  aveva  oppresso

    l'animo.

    Si  sfilò  le scarpe con un calcio e a piedi nudi piroettò nel cerchio

    delle  mie  braccia,  sollevandosi  poi  sulla  punta  dei  piedi  per

    baciarmi.

    «Grazie, Harry. Grazie di avermi portato qui.»

    La signora Chubby aveva spazzato i pavimenti, arieggiato la biancheria

    e disposto fiori nei vasi.  Ispezionammo il bungalow mano nella mano e

    anche se Sherry espresse la sua ammirazione per l'arredamento  pratico

    e  il  solido  mobilio  di  gusto  mascolino,  nei suoi occhi mi parve

    d'intravedere quella  scintilla  che  ogni  donna  tradisce  prima  di

    cominciare  a  spostare  i  mobili  e  a  gettar  via gli umili tesori

    amorosamente raccolti da un uomo nel corso della sua esistenza.

    Quando si fermò a sistemare il vaso di fiori  che  la  signora  Chubby

    aveva  piazzato  sul  vasto  tavolo da refettorio in legno di canfora,

    capii che avremmo visto dei cambiamenti a Turtle Bay...  ma  strano  a

    dirsi l'idea non mi preoccupava.  Di colpo mi accorsi che ero stufo di

    fare da cuoco e da governante a me stesso.

    Ci mettemmo il costume da bagno in  camera  da  letto...  già,  perché

    nelle  poche  ore  trascorse  da  quando  avevamo  fatto l'amore avevo

    scoperto che Sherry aveva un senso del pudore fin troppo sviluppato, e

    sapevo  che  ci  sarebbe  voluto  del  tempo  prima  che  riuscissi  a

    convertirla  alla  disinvolta  tenuta  da bagno adottata a Turtle Bay.

    Tuttavia un parziale compenso al temporaneo eccesso  di  abbigliamento

    fu rappresentato dalla vista di Sherry North in bikini.

    Era la prima volta che avevo l'opportunità di guardarla in piena luce.

    La  sua  qualità  più  sorprendente  era la grana fine e la luminosità

    della pelle.  Era alta,  e anche se le spalle erano troppo larghe e  i

    fianchi  un  tantino  troppo stretti,  la vita era sottile e il ventre

    piatto,  con un piccolo ombelico delicatamente cesellato.  Sono sempre

    stato   del  parere  che  i  turchi  avessero  ragione  a  considerare

    l'ombelico una parte estremamente erotica del corpo femminile:  quello

    di Sherry avrebbe fatto scendere in mare un'intera flotta.

    Non le piaceva che la guardassi a occhi spalancati.  «Oh, nonnina, che

    occhioni grandi che hai» esclamò,  avvolgendosi un asciugamano intorno

    alla  vita  come un sarong.  Ma poi si avviò a piedi nudi sulla sabbia

    con un involontario ondulare delle anche e del seno  che  ammirai  con

    piacere privo di inibizioni.

    Lasciammo  gli  asciugamani  al  limite dell'alta marea e corremmo giù

    sulla sabbia umida e compatta fino all'orlo del mare limpido e  caldo.

    Lei nuotava con una bracciata sciolta e ingannevolmente lenta,  che le

    imprimeva una tale velocità nell'acqua, che dovetti impegnarmi a fondo

    per raggiungerla e tenerle testa.

    Superata la barriera rallentammo il ritmo e lei cominciò ad  avere  il

    fiato corto. «Sono fuori esercizio» ansimò.

    Mentre ci riposavamo,  guardai al largo e in quell'attimo un corteo di

    pinne nere affiorò in superficie in  fila  per  due,  puntando  veloce

    verso di noi, e non potei nascondere la mia gioia.

    «Sei  un'ospite  di  riguardo»  le  dissi.  «Questa  è  un'accoglienza

    eccezionale.» I delfini si disposero in circolo intorno a noi come  un

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    branco di cagnolini eccitati,  facendo capriole mentre esaminavano con

    attenzione Sherry.  Sapevo che rifuggivano quasi tutti gli estranei ed

    era raro che si lasciassero toccare al primo incontro,  e anche allora

    solo dopo un assiduo corteggiamento.  Invece con  Sherry  fu  amore  a

    prima  vista,  quasi  dello  stesso  calibro che le avevano dimostrato

    Chubby e Angelo.

    Nel giro di un quarto d'ora la stavano già trascinando  in  una  folle

    corsa in slitta,  mentre lei strillava di gioia.  Appena scivolava giù

    dal dorso di un delfino ce n'era un altro che le dava un buffetto  col

    muso, lottando fieramente per ottenere la sua attenzione.

    Quando  alla  fine  ebbero  esaurito le energie di entrambi e tornammo

    esausti a nuoto verso la spiaggia,  uno dei grossi maschi seguì Sherry

    nell'acqua bassa che le arrivava appena alla vita. Qui si rovesciò sul

    dorso,  con  il  sorriso  fisso  da ebete dei delfini,  mentre lei gli

    strofinava il ventre con manciate di sabbia ruvida e bianca.

    A sera,  mentre eravamo seduti sulla veranda a bere insieme un whisky,

    si  sentiva  ancora  il  vecchio  maschio  fischiare  e schiaffeggiare

    l'acqua con la coda, nel tentativo di attirarla di nuovo in mare.

    La mattina dopo lottai coraggiosamente per respingere un nuovo assalto

    della febbre dell'isola e la tentazione di oziare  nel  letto,  specie

    quando  Sherry  si  svegliò accanto a me con un viso fresco e roseo da

    bambina, gli occhi chiari, il respiro profumato e le labbra invitanti.

    Dovevamo controllare l'attrezzatura recuperata dal "Wave Dancer" e  ci

    occorreva un motore per far funzionare il compressore. Chubby partì in

    missione  con  un  pugno  di  banconote  e  tornò  con  un  motore che

    richiedeva attente cure.  Dato che questo mi  tenne  occupato  per  il

    resto  del giorno Sherry fu spedita da "Ma" Eddy per l'attrezzatura da

    campeggio e le provviste.  Avevamo fissato un limite  massimo  di  tre

    giorni per la partenza e i tempi erano stretti.

    Era ancora buio quando prendemmo posto nella barca,  Chubby e Angelo a

    poppa presso i motori, Sherry e io appollaiati come passeri in cima al

    carico.

    L'alba fu un trionfo incandescente di rosso  e  oro,  promessa  di  un

    altro  giorno  torrido,  mentre  Chubby ci portava a nord su una rotta

    possibile solo a una barca piccola e a un  abile  marinaio,  sfiorando

    isole  e barriere,  a volte con appena quaranta centimetri d'acqua fra

    la chiglia e le terribili zanne di corallo.

    Eravamo tutti in uno stato d'animo di attesa.  E non credo proprio che

    fosse  la  prospettiva  di  un'enorme  ricchezza a eccitarmi,  in quel

    momento...  tutto quello di cui avevo davvero bisogno nella  vita  era

    un'altra  barca  buona  come  il  "Wave  Dancer"...  piuttosto  era il

    pensiero di poter strappare al mare un  tesoro  raro  e  prezioso.  Se

    quello che cercavamo fosse stato oro, in verghe o in monete, credo che

    non  mi  avrebbe  attirato  neanche  la  metà.  Il  mare  era l'eterno

    avversario e ci trovavamo di fronte per l'ennesima volta.

    Quando il sole sorse dalle  onde  i  colori  smaglianti  dell'alba  si

    stemperarono  nell'azzurro metallico del cielo e a prua Sherry si alzò

    per sfilarsi la casacca e i pantaloni di tela jeans.  Sotto portava il

    bikini  e  riposti i vestiti nella borsa di tela tirò fuori un tubo di

    lozione solare con la  quale  cominciò  a  ungere  il  suo  bel  corpo

    pallido.

    Chubby e Angelo reagirono con manifesto orrore. Tennero una frettolosa

    e  scandalizzata  consultazione,  dopo di che Angelo fu spedito a prua

    con un telone per innalzare un riparo.  Seguì un  acceso  dialogo  fra

    Angelo e Sherry.

    «Si  rovinerà la pelle,  signorina Sherry» protestò Angelo,  ma lei lo

    rispedì sconfitto a poppa.

    Lì i due rimasero seduti come familiari in lutto a una veglia funebre,

    Chubby col viso contratto in un  cipiglio  cupo  e  terribile,  Angelo

    torcendosi  le mani per l'ansia.  Alla fine non ne poterono più e dopo

    un'altra discussione sotto voce Angelo fu scelto ancora una volta come

    emissario e strisciò in avanti  sul  carico  per  assicurarsi  il  mio

    appoggio.

    «Non puoi lasciarglielo fare, Harry» supplicò. «Diventerà "scura".»

    «Credo  che  questa  sia l'intenzione,  Angelo» gli risposi.  Comunque

    avvertii Sherry di fare attenzione  al  sole  di  mezzogiorno  e  lei,

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    obbediente, si coprì quando sbarcammo su una spiaggia per consumare il

    pranzo.

    Era  metà  del  pomeriggio  quando scorgemmo le vette dei Tre Vecchi e

    Sherry esclamò: «Proprio come li ha descritti il vecchio ufficiale».

    Accostammo dalla parte dell'oceano,  attraverso  lo  stretto  specchio

    d'acqua  calma  fra  l'isola  e  la barriera.  Quando passammo davanti

    all'ingresso del canale attraverso il quale  avevo  guidato  il  "Wave

    Dancer"  per  sfuggire  alla  motovedetta di Zinballa,  Chubby e io ci

    scambiammo un sorriso compiaciuto poi mi rivolsi  a  Sherry  e  glielo

    indicai.

    «Penso  d'installare  il campo base sull'isola: ci serviremo del varco

    per raggiungere la zona del naufragio.»

    «Mi sembra un po' rischioso.» Lei osservò con  diffidenza  lo  stretto

    canale.

    «Ci risparmierà ogni giorno un giro molto lungo... e non è brutto come

    sembra.  Una volta ci ho fatto passare a tutta velocità il mio cruiser

    da quindici metri.»

    «Devi essere  pazzo.»  Spinse  sulla  testa  gli  occhiali  scuri  per

    guardarmi.

    «Ormai dovresti essere buon giudice in questo campo.» Le sorrisi e lei

    ricambiò il sorriso.

    «Sono già un'esperta» si vantò. Il sole le aveva scurito le lentiggini

    sul naso e sulle guance.  Aveva una di quelle pelli tanto rare che non

    si arrossano né si irritano quando sono esposte al sole. Al contrario,

    era del tipo che assume subito una tonalità color miele scuro.

    La marea era alta quando doppiammo la punta settentrionale  dell'isola

    entrando   in  un'insenatura  riparata  e  Chubby  fece  approdare  la

    baleniera sulla sabbia a soli venti metri dalla prima fila di palme.

    Sbarcammo il carico,  trasportandolo a una buona distanza  dal  limite

    dell'alta  marea,  e  lo  ricoprimmo  di  nuovo  con  tela  cerata per

    proteggerlo dalla salsedine onnipresente.

    Quando finimmo era tardi.  Il sole aveva perso ogni calore e le  ombre

    lunghe   delle   palme   rigavano   il  terreno  mentre  ci  avviavamo

    faticosamente verso l'interno,  portando solo i bagagli personali e un

    contenitore  d'acqua  dolce da venti litri.  Alle spalle del picco più

    settentrionale, generazioni di pescatori in visita avevano scavato nel

    pendio ripido una serie di caverne poco profonde.

    Scelsi  una  grossa  caverna  perché  facesse  da  magazzino  per   le

    attrezzature e una più piccola come alloggio per Sherry e me. Chubby e

    Angelo  ne  scelsero  un'altra,  a  circa cento metri lungo il pendio,

    schermata da un tratto di macchia.

    Lasciai Sherry intenta a spazzare il nostro nuovo appartamento con una

    scopa ricavata da un ramo di palma e a stendere i sacchi  a  pelo  sul

    materasso gonfiabile,  mentre io prendevo la rete da lancio e scendevo

    alla baia.

    Era buio quando tornai con una filza di una dozzina di  grossi  cefali

    striati.  Angelo  aveva  acceso  il  fuoco e il bollitore gorgogliava.

    Mangiammo in un silenzio  soddisfatto  e  poi  Sherry  e  io  restammo

    distesi  nella nostra caverna ad ascoltare i grossi granchi violinisti

    frusciare fra le palme.

    «E' primordiale» bisbigliò Sherry «come se fossimo il primo uomo e  la

    prima donna della terra.»

    «Io Tarzan, tu Jane» ribattei, e lei ridacchiò stringendosi a me.

    All'alba  Chubby salpò da solo sulla baleniera per il lungo viaggio di

    ritorno fino a Saint Mary.  Sarebbe tornato  il  giorno  dopo  con  un

    carico  completo  di latte,  di benzina e di acqua dolce,  sufficienti

    all'incirca per un paio di settimane.

    Angelo e io ci sobbarcammo l'ingrato compito di trasportare fino  alle

    caverne   tutto  l'equipaggiamento  e  le  provviste.   Io  montai  il

    compressore,  riempii le bombole vuote e controllai l'attrezzatura  da

    immersione  e  Sherry  sistemò  i  nostri  vestiti  e in generale rese

    confortevoli i nostri alloggi.

    Il giorno dopo lei e io girammo  per  l'isola,  scalando  le  cime  ed

    esplorando le valli e le spiagge sottostanti. Avevo sperato di trovare

    acqua,  una sorgente o un pozzo trascurato dagli altri visitatori,  ma

    naturalmente non ce n'erano.  Quei  vecchi  pescatori  astuti  non  si

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    lasciavano sfuggire niente.

    L'estremità  meridionale dell'isola,  la più lontana dal nostro campo,

    era un'impenetrabile palude salmastra,  racchiusa fra la montagna e il

    mare.  Costeggiammo  ettari  di  fango mefitico e folta erba palustre.

    Nell'aria pesante aleggiava un fetore di vegetazione putrefatta  e  di

    pesci morti.

    Colonie  di granchi rossi e violacei avevano disseminato le distese di

    fango con i fori delle loro tane, da cui sbirciavano con le antenne al

    nostro passaggio.  Fra le mangrovie  gli  aironi  accudivano  ai  loro

    piccoli,  appollaiati con una sola zampa lunga sui nidi arruffati, e a

    un certo punto sentii uno spruzzo e vidi  guizzare  in  un  acquitrino

    qualcosa che poteva essere solo un coccodrillo.

    Lasciammo  le  paludi malariche e salimmo più in alto,  poi ci facemmo

    strada fra i boschetti di arbusti verso il picco meridionale.

    Sherry decise di scalare anche questo.  Tentai di dissuaderla,  perché

    era il più alto e ripido. Le mie proteste non sortirono nessun effetto

    e  anche  dopo  aver  raggiunto una stretta cengia sotto la parete sud

    della cima lei insistette per continuare.

    «Se il secondo ufficiale della "Dawn Light" ha trovato  una  via  fino

    alla cima, ci salirò anch'io» annunciò.

    «Da lì avresti la stessa visuale che dalle altre vette» sottolineai.

    «Non è questo il punto.»

    «Allora qual è?» chiesi,  e lei mi scoccò l'occhiata di commiserazione

    riservata di solito ai bambini e ai deficienti, si rifiutò di degnarmi

    di una risposta e continuò la  prudente  avanzata  laterale  lungo  la

    cengia.

    Sotto  di  noi  c'era  un  salto di almeno sessanta metri e se nel mio

    formidabile arsenale di talento e  coraggio  c'è  una  lacuna,  è  che

    soffro di vertigini.  D'altra parte sarei rimasto in equilibrio su una

    gamba sola  in  cima  alla  cattedrale  di  San  Paolo  piuttosto  che

    confessarlo   alla  signorina  North  e  così  la  seguii  con  grande

    riluttanza.

    Per fortuna pochi passi più avanti lei lanciò un grido  di  trionfo  e

    dalla  cengia  sbucò  in  una stretta fessura verticale che solcava la

    parete.  La frattura della roccia aveva formato un  camino  facile  da

    scalare,  nel quale la seguii con sollievo. Quasi subito Sherry lanciò

    un altro grido.

    «Oh,  buon Dio,  Harry,  guarda!» e mi indicò un punto riparato  della

    parete,  in  fondo  alla  rientranza buia.  Tanto tempo prima qualcuno

    aveva pazientemente inciso un'iscrizione sulla superficie piatta della

    pietra.

    A. BARLOW

    NAUFRAGATO IN QUESTO LUOGO

    14 OTTOBRE 1858

    Mentre la  fissavo,  sentii  la  mano  di  Sherry  cercare  la  mia  e

    stringerla cercando conforto.  L'intrepida alpinista era sparita, e la

    sua espressione pareva quasi spaventata mentre osservava la scritta.

    «Dà i brividi» sussurrò.  «E' come se fosse stata scritta ieri...  non

    tanti anni fa.»

    Per  la  verità  le  lettere erano rimaste al riparo dalla corrosione,

    tanto che sembravano incise da poco,  e io mi guardai intorno come  se

    mi aspettassi di vedere il vecchio marinaio che ci spiava.

    Quando  alla  fine scalammo il ripido camino fino alla sommità eravamo

    ancora soggiogati  da  quel  messaggio  che  giungeva  da  un  passato

    lontano.  Restammo  seduti lì per quasi due ore a osservare la risacca

    frangersi in lunghe linee bianche sul Gunfire  Reef.  Il  varco  nella

    barriera  e la grande fossa scura del Break apparivano nitidissime dal

    nostro osservatorio,  mentre il percorso dello stretto  canale  fra  i

    coralli  si  distingueva  a  malapena.  Da  qui  Arthur  Barlow  aveva

    osservato l'agonia della "Dawn Light",  l'aveva vista spezzarsi  sotto

    l'impeto dell'alta marea.

    «Ora il tempo lavora contro di noi,  Sherry» le dissi, mentre il clima

    di vacanza degli ultimi giorni evaporava.  «Sono passate due settimane

    da  quando  Manny  Resnick  è  salpato col "Mandrake".  Ormai non sarà

    lontano da Città del Capo. Quando arriverà lì lo sapremo.

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    «Come?»

    «Ho un vecchio amico che vive  laggiù.  E'  socio  dello  Yacht  Club,

    sorveglierà   il  traffico  e  mi  telegraferà  appena  il  "Mandrake"

    attracca.

    Guardai giù verso il pendio posteriore del picco e per la prima  volta

    notai  la  nebbiolina azzurra del fumo che si levava fra le cime delle

    palme, dal fuoco di Angelo.

    «Finora in questo viaggio sono stato un po' avventato» borbottai.  «Ci

    siamo  comportati  come un gruppo di scolaretti a un picnic.  D'ora in

    poi dovremo rinforzare i sistemi  di  sicurezza...  proprio  oltre  il

    canale  c'è il mio vecchio amico Suleiman Dada e il "Mandrake" entrerà

    in queste acque prima di  quanto  mi  farebbe  comodo.  D'ora  in  poi

    dovremo tenerci ben defilati.»

    «Quanto tempo ci servirà, secondo te?» chiese Sherry.

    «Non  so,  tesoro...  ma  sta'  sicura  che  sarà più di quanto sembri

    possibile.  Siamo condizionati dalla necessità  di  traghettare  tutta

    l'acqua  e  il carburante da Saint Mary e potremo lavorare nella fossa

    solo per poche ore a ogni cambio di marea,  quando le condizioni e  la

    profondità  dell'acqua ce lo consentiranno.  Chissà che cosa troveremo

    laggiù,  una volta cominciato,  e per finire potremmo scoprire  che  i

    pacchetti  del  colonnello erano conservati nella stiva di poppa della

    "Dawn Light", quella parte della nave che è finita in mare aperto.  Se

    è così, allora puoi dire addio a tutto.»

    «Tutto  questo  l'abbiamo  già  rimuginato,   vecchio  pessimista»  mi

    rimbrottò Sherry. «Pensa a qualcosa di bello.»

    Così facemmo,  finché alla fine non scorsi il minuscolo puntino scuro,

    come  una pulce d'acqua sulla superficie d'ottone del mare,  Chubby di

    ritorno da Saint Mary con la baleniera.

    Scendemmo dalla vetta e ci affrettammo  ad  andargli  incontro.  Stava

    giusto doppiando la punta ed entrando nella baia quando sbucammo sulla

    spiaggia.  La baleniera sprofondava nell'acqua sotto il pesante carico

    di carburante e acqua potabile.  E Chubby era ritto a  poppa,  grosso,

    solido ed eterno come una roccia.  Quando agitammo la mano e gridammo,

    piegò la testa con aria solenne, ricambiando il nostro saluto.

    La signora Chubby aveva mandato una  torta  di  banane  per  me  e  un

    cappello  di  fronde  di  palma intrecciate per Sherry.  Evidentemente

    Chubby le  aveva  riferito  il  comportamento  di  Sherry,  e  la  sua

    espressione divenne ancor più lugubre del solito quando si accorse che

    il danno era già fatto.  Sherry aveva assunto il colore di un biscotto

    a media cottura.

    Al  calar  della  sera  avevamo  già  trasportato  fino  alla  caverna

    cinquanta latte.  Poi ci riunimmo accanto al fuoco dove Angelo cuoceva

    una zuppa isolana di molluschi che aveva pescato quel pomeriggio nella

    laguna. Era tempo di raccontare al mio equipaggio il vero motivo della

    nostra spedizione.  Di Chubby potevo fidarmi che non avrebbe  rivelato

    nulla,  anche  sotto  la  tortura,  ma  avevo  atteso che Angelo fosse

    confinato sull'isola prima di dirglielo. Era noto per aver commesso le

    più  mostruose   indiscrezioni...   di   solito   nel   tentativo   di

    impressionare una delle sue ragazze.

    Ascoltarono  in  silenzio  la  mia  spiegazione  e  quando ebbi finito

    restarono muti.  Angelo aspettava l'imbeccata da Chubby...  e lui  non

    era  tipo  da scoprire le sue batterie.  Sedeva fissando accigliato il

    fuoco e il suo viso pareva una di quelle maschere di rame  provenienti

    da  un tempio azteco.  Quando ebbe creato la giusta atmosfera teatrale

    di  suspense,  frugò  nella  tasca  posteriore  e  ne  cavò  fuori  un

    borsellino, così vecchio e logoro che il cuoio era quasi consunto.

    «Quand'ero  ragazzo  e  pescavo nella fossa a Gunfire Reef,  presi una

    grossa cernia maschio.  Quando gli aprii la pancia  ci  trovai  dentro

    questo.»  Estrasse  dal  borsellino un disco rotondo.  «Da allora l'ho

    tenuto come portafortuna,  anche quando un ufficiale di una nave mi ha

    offerto dieci sterline.»

    Mi tese il disco e io lo esaminai alla luce del fuoco.  Era una moneta

    d'oro della misura di uno scellino.  Il verso era coperto di caratteri

    orientali  che non riuscii a decifrare ma il recto portava uno stemma,

    due leoni rampanti che sostenevano uno scudo e una testa con una cotta

    di maglia.  Lo stesso disegno che avevo visto sulla campana di  bronzo

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    della nave a Big Gull.  La legenda sotto lo scudo diceva: AUS: REGIS &

    SENAT: ANGLIA,  mentre sul  bordo  era  inciso  il  titolo  orgoglioso

    ENGLISH EAST INDIA COMPANY.

    «Mi  ero  sempre  ripromesso  di  tornare a Gunfire Break...  pare che

    questa sia  la  volta  buona»  riprese  Chubby,  mentre  io  esaminavo

    minuziosamente la moneta. Non c'era data, ma non avevo dubbi che fosse

    un  "mohur"  d'oro della Compagnia.  Avevo letto della moneta,  ma non

    l'avevo mai vista.

    «Secondo me,  quella  vecchia  cernia  l'ha  vista  luccicare  e  l'ha

    inghiottita»  continuò Chubby.  «Dev'essergli rimasta incastrata nello

    stomaco finché non l'ho pescata.»

    Gli restituii la moneta. «Be', Chubby,  allora questo dimostra che c'è

    un po' di verità nella mia storia.»

    «Sembra  di sì,  Harry» ammise,  e io andai nella caverna a prendere i

    disegni della "Dawn Light" e una lanterna a gas.  Studiammo i disegni.

    Il  nonno  di  Chubby  aveva  navigato come gabbiere su una nave della

    Compagnia,  il che faceva di Chubby una specie  di  esperto.  Lui  era

    dell'opinione  che  tutto il bagaglio dei passeggeri e altri colli più

    piccoli dovevano essere stivati vicino al castello di prua,  e io  non

    mi sognai di discutere con lui.  Mai gettarsi il malocchio da sé, come

    Chubby mi aveva ammonito tante e tante volte.

    Quando tirai fuori le tavole delle maree e cominciai  a  calcolare  la

    differenza d'orario per la nostra latitudine,  Chubby sorrise davvero.

    Anche se era difficile riconoscere il suo sorriso come tale.  Sembrava

    più che altro un sogghigno di scherno, perché Chubby non aveva fiducia

    nelle  file di cifre stampate sui libri.  Preferiva giudicare le maree

    con l'orologio marino che aveva in testa. L'avevo sentito indicare con

    precisione le maree con una settimana di anticipo  senza  affidarsi  a

    nessun'altra fonte.

    «Credo  che  avremo  un'alta  marea  all'una  e  quaranta  di  domani»

    annunciai.

    «Amico, per una volta ci hai azzeccato» ammise Chubby.

    Senza gli enormi carichi che  le  erano  stati  imposti  negli  ultimi

    tempi, la baleniera sembrava volare. Spinta dai due Evinrude si lanciò

    nello  stretto  canale  attraverso  la barriera come un furetto in una

    tana di conigli.

    Angelo era ritto a prua e faceva segnalazioni con le mani per indicare

    gli ostacoli sott'acqua a Chubby che stava a poppa.  Avevamo scelto un

    momento  propizio e Chubby affrontava con sicurezza la debole risacca.

    La  piccola  baleniera  alzava  la  testa  e  scalciava  sulle   onde,

    spruzzandoci di schiuma.

    Il  passaggio  era  più  stretto  che  pericoloso e Sherry strillava e

    rideva eccitata.

    Chubby ci portò sparati attraverso la strozzatura fra le scogliere  di

    corallo,  con  qualche metro di margine ai fianchi perché la baleniera

    era larga la metà del "Wave Dancer",  poi proseguimmo  zigzagando  nel

    budello tortuoso del canale e infine sbucammo nella fossa.

    «Non serve tentare di gettare l'ancora» grugnì Chubby «qui è profondo.

    La barriera scende a picco.  Sotto la chiglia abbiamo quaranta metri e

    il fondo è un disastro.»

    «Come farai a tenerla ferma?» gli chiesi.

    «Qualcuno deve restare ai motori e manovrare.»

    «Berrà un sacco di carburante, Chubby.»

    «Ho detto forse il contrario?» borbottò lui.

    Con la marea appena a metà,  di tanto in tanto un'ondata si  riversava

    oltre la barriera. Era appena una cascatella spumeggiante che scendeva

    nella fossa,  coprendo la superficie di bollicine come in un bicchiere

    di birra.  Tuttavia col montare della marea anche la  risacca  sarebbe

    diventata  più  forte.  Ben  presto  sarebbe stato poco sicuro restare

    nella fossa e avremmo dovuto filarcela.  Avevamo  circa  due  ore  per

    lavorare, in base allo studio della marea. Era un'altalena di troppo o

    troppo  poco.  Con  la  bassa  marea  c'era  acqua  insufficiente  per

    affrontare l'ingresso del canale,  con l'alta  marea  la  risacca  che

    superava la barriera poteva travolgere la baleniera scoperta. Dovevamo

    valutare con cura ogni mossa.

    Ormai  ogni minuto era prezioso.  Sherry e io avevamo già indossato la

    muta con la maschera  sulla  fronte  e  mancava  solo  che  Angelo  ci

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    sollevasse   sulla   schiena   il  pesante  respiratore  e  stringesse

    l'imbragatura di cinghie.

    «Pronta, Sherry?» le chiesi, e lei annuì,  il boccaglio già stretto in

    bocca.

    «Andiamo.»

    Ci  lasciammo cadere oltre la fiancata e sprofondammo insieme sotto lo

    scafo a forma di sigaro della baleniera.  Sopra di noi  la  superficie

    era  uno  specchio d'argento vivo e l'acqua che si rovesciava oltre la

    barriera riempiva  lo  strato  superiore  d'acqua  di  un'eruzione  di

    bollicine di champagne.

    Scesi,  tenendomi al livello di Sherry. Era a suo agio e respirava col

    ritmo lento del subacqueo esperto,  che economizza l'aria e ossigena a

    fondo  il corpo.  Mi sorrise,  le labbra deformate dal boccaglio e gli

    occhi dilatati dalla maschera di vetro,  e  sollevando  i  pollici  mi

    segnalò che andava tutto bene.

    Puntai  a  testa  in  giù verso il fondo e cominciai a pedalare con le

    pinne,  scendendo in fretta,  restio a sprecare aria  in  una  discesa

    lenta.

    La fossa si apriva ai nostri piedi come un abisso tenebroso. Le pareti

    di  corallo  circostanti  intercettavano  gran  parte  della luce e le

    davano un aspetto spettrale.  L'acqua era fredda e tetra e sentii  una

    fitta  di  timore  quasi superstizioso.  C'era qualcosa di sinistro in

    quel luogo, come se una forza maligna fosse in agguato negli abissi.

    Incrociai le dita lungo i fianchi e  procedetti,  seguendo  la  parete

    verticale.  Il corallo era disseminato di caverne buie e sporgenze che

    aggettavano dalle pareti inferiori.  Corallo di centinaia  di  qualità

    diverse,  che  sporgeva in forme bizzarre e affascinanti,  tinte di un

    intero spettro  di  colori.  Alghe  e  piante  marine  ondeggiavano  e

    fluttuavano  col  movimento  delle  acque,  come le mani di mendicanti

    supplichevoli o le criniere di cavalli selvaggi.

    Guardai Sherry.  Era vicina,  alle mie spalle,  e  sorrise  di  nuovo.

    Evidentemente   non   condivideva  affatto  il  mio  senso  di  paura.

    Proseguimmo.

    Da sporgenze discrete spuntavano le lunghe antenne gialle dei  gamberi

    giganti,  protendendosi  con  movimenti  cauti,  avvertendo  la nostra

    presenza nell'acqua agitata.  Nuvole di  pesci  corallini  multicolori

    fluttuavano  lungo  la  parete,  scintillando  come  gemme  nella luce

    azzurra sempre più tenue che filtrava negli abissi della fossa.

    Sherry mi batté sulla spalla e ci fermammo a sbirciare in una  caverna

    scura e profonda.  Due grandi occhi da gufo ci scrutarono di rimando e

    quando i miei occhi si furono abituati alla penombra distinsi la testa

    gargantuesca di una cernia.  Era screziata come un  uovo  di  piviere,

    chiazze  brune  e  nere su uno sfondo beige-grigio,  e la bocca era un

    ampio squarcio fra le grosse labbra  gommose.  Mentre  lo  guardavamo,

    l'enorme  pesce  assunse  un  atteggiamento  di  difesa.   Si  dilatò,

    aumentando  la  sua  circonferenza  già  impressionante,   allargò  le

    branchie,  gonfiò  la testa e finalmente aprì la bocca,  rivelando una

    voragine che avrebbe potuto  inghiottire  un  uomo  intero,  un  gozzo

    cavernoso,  tappezzato di denti acuminati.  Sherry mi strinse forte la

    mano.  Ci ritraemmo dalla caverna,  e il pesce chiuse la  bocca  e  si

    placò.  In  qualunque  momento  volessi rivendicare il record mondiale

    nella pesca della cernia, sapevo dove venire a cercare.  Anche tenendo

    conto  dell'effetto  d'ingrandimento  dell'acqua,  giudicai che doveva

    pesare sui quattrocento chili.

    Proseguimmo la discesa lungo la parete di corallo e tutt'intorno a noi

    il meraviglioso mondo marino ribolliva di vita e di bellezza, di morte

    e di pericolo.  Il minuscolo pesce damigella se ne stava al riparo fra

    i  petali velenosi dell'anemone di mare gigante,  immune ai suoi dardi

    mortali;  una murena scivolò furtiva lungo la scogliera come un  lungo

    pennone  da  combattimento  nero,  raggiunse  la sua tana e si volse a

    minacciarci con i temibili denti frastagliati e gli occhi  lucenti  da

    serpente.

    Scendemmo, pedalando con le pinne, e finalmente avvistai il fondo. Era

    una giungla scura di vegetazione marina,  densi steli di bambù di mare

    e alberi di corallo pietrificato sporgevano dal  fogliame  soffocante,

    mentre  tumuli  e  collinette  di  corallo qua e là erano modellati in

    forme che stuzzicavano l'immaginazione  e  nascondevano  chissà  quali

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    sorprese.

    Restammo  sospesi  su  questa  giungla  impenetrabile  e controllai il

    passare del tempo con il cronometro e il profondimetro.  Mi trovavo  a

    trentasei  metri e cinquanta e il tempo trascorso era di cinque minuti

    e quaranta secondi.

    Segnalai a Sherry di restare  dov'era,  scesi  fino  alle  cime  della

    giungla  marina  e  con  cautela scostai il fogliame freddo e viscido.

    Attraversandolo emersi in un'area  sottostante  relativamente  libera.

    Era  una zona crepuscolare,  ricoperta da un tetto di bambù e popolata

    da strane tribù di pesci e animali marini.

    Capii subito che esplorare il fondo della fossa non sarebbe  stato  un

    compito  semplice.  La visibilità qui era ridotta a tre metri o meno e

    la zona che dovevamo esaminare si estendeva in totale  per  un  ettaro

    all'incirca.

    Decisi  di  portare giù Sherry con me: per cominciare avremmo fatto un

    passaggio lungo la  base  della  scogliera,  restando  appaiati  e  in

    contatto visivo.

    Gonfiai i polmoni e sfruttai la spinta ascensionale per sollevarmi dal

    fondo, uscendo dal fogliame allo scoperto.

    All'inizio   non   vidi   Sherry  e  sentii  una  fuggevole  fitta  di

    apprensione.  Poi scorsi la corrente  d'argento  delle  sue  bollicine

    innalzarsi  contro  la  parete  nera  di corallo.  Si era allontanata,

    ignorando le mie istruzioni, e ne fui seccato.  Nuotai verso di lei ed

    ero a sei metri quando mi accorsi di cosa stava facendo. L'irritazione

    cedette istintivamente il passo allo choc e all'orrore.

    Era cominciata la lunga serie di incidenti e contrattempi che dovevano

    perseguitarci a Gunfire Break.

    Dalla  scogliera  di  corallo  sporgeva una bella struttura a forma di

    felce,  dalle curve aggraziate,  dai folti rami di un rosa pallido che

    sfumava nel cremisi.

    Sherry ne aveva staccato un grosso ramo.  Lo teneva fra le mani nude e

    proprio mentre mi precipitavo verso di lei vidi le sue gambe  sfiorare

    leggermente le braccia rosse del temibile corallo di fuoco.

    L'afferrai  per  i  polsi  e  la  strappai  dalla  pianta bellissima e

    crudele.  Le affondai i pollici nella carne,  scuotendole con violenza

    le mani, costringendola a mollare il terribile carico. Ero colto dalla

    frenesia,  sapendo  che dalle loro cellette nei rami di corallo decine

    di migliaia di minuscoli polipi le stavano iniettando  nelle  carni  i

    loro acuminati dardi velenosi.

    Lei  mi  fissava  coi grandi occhi sgomenti,  rendendosì conto che era

    successo qualcosa di grave,  ma senza capire  ancora  cosa  fosse.  La

    strinsi e cominciai subito l'ascesa.  Nonostante l'ansietà stetti bene

    attento a rispettare le regole elementari della  risalita,  senza  mai

    oltrepassare le bollicine, ma muovendomi con loro a velocità costante.

    Controllai  l'orologio:  erano  passati  otto minuti e trenta secondi.

    Questo significava tre minuti a quaranta metri.  Calcolai in fretta le

    soste  di  decompressione,  ma  ero  intrappolato fra l'incudine della

    minaccia di embolia e il martello dell'imminente agonia di Sherry.

    Il  dolore  la  colpì  prima  che  arrivassimo  a  metà  strada  dalla

    superficie;   il  suo  viso  si  contorse  e  il  respiro  si  tramutò

    nell'ansito superficiale e roco della sofferenza acuta, finché temetti

    che potesse compromettere  l'efficienza  meccanica  della  valvola  di

    alimentazione, comprimendola tanto che non poteva più fornirle aria.

    Cominciò  a  contorcersi nella mia stretta e le palme delle mani le si

    arrossarono, mentre segni di un rosso violaceo si levarono sulle cosce

    come cicatrici di frustate...  e io ringraziai Dio per  la  protezione

    che la muta aveva assicurato al torso.

    Quando  la  trattenni per la sosta di decompressione a quattro metri e

    mezzo dalla superficie, lottò selvaggiamente,  scalciando e torcendosi

    nella mia stretta.  Io interruppi la sosta prima che potei e la portai

    in superficie.

    Nell'attimo che le nostre teste sbucarono fuori sputai il boccaglio  e

    gridai: «Chubby! Presto!».

    La  baleniera  era  a cinquanta metri di distanza ma il motore pulsava

    con ritmo costante e Chubby virò di  scatto.  Quando  la  barca  puntò

    verso  di  noi  cedette  il  timone  ad  Angelo e si arrampicò a prua,

    sovrastandoci come un enorme colosso bruno.

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    «E' corallo di fuoco,  Chubby» gridai.  «E' stata colpita  gravemente.

    Tirala fuori!»

    Chubby  si sporse,  l'afferrò alla nuca per l'imbragatura di cinghie e

    la sollevò di peso dall'acqua; lei penzolò dalle sue grosse mani brune

    come un cagnolino annegato.

    Scuotendomi dalle spalle le cinghie lasciai in  acqua  il  respiratore

    perché  Angelo  lo  recuperasse  e,  quando  mi  arrampicai  oltre  la

    fiancata,  Chubby aveva disteso Sherry sulle assi del tavolato ed  era

    chino su di lei, tenendola fra le braccia per placare i suoi spasimi e

    calmare i gemiti e i singhiozzi agonizzanti.

    Trovai  la cassetta del pronto soccorso sotto una pila di attrezzature

    sciolte a prua,  ma avevo le mani inceppate dalla fretta,  nel sentire

    il  pianto  di Sherry alle mie spalle.  Spezzai una fiala di morfina e

    riempii una siringa con il liquido chiaro.  Ormai  ero  tanto  furioso

    quanto preoccupato.

    «Maledizione»  scattai  «come  ti  è  venuta  in  mente un'idiozia del

    genere?»

    Non riuscì a rispondermi,  le  sue  labbra  tremanti  erano  bluastre,

    spruzzate  di  saliva.  Le  pizzicai  la  coscia  e vi conficcai l'ago

    iniettandole il fluido nella carne. Continuai furioso.

    «Corallo di fuoco... Dio mio, altro che esperta di conchiglie. Non c'è

    un ragazzo sull'isola che sia tanto stupido.»

    «Non ci ho pensato, Harry» ansimò lei.

    «Non ci ho pensato...» ripetei.  Il suo dolore mi  pungolava  a  nuovi

    eccessi  di collera.  «Non credevo che avessi qualcosa nella testa con

    cui pensare.»

    Ritirai  l'ago  e  rovistai   nella   cassetta   cercando   lo   spray

    antistaminico.

    «Dovrei darti un sacco di botte...»

    Chubby  alzò gli occhi su di me.  «Harry,  dì solo un'altra parola del

    genere alla signorina Sherry e io... ti spacco la testa.»

    Sorpreso solo a metà, capii che diceva sul serio. L'avevo già visto in

    azione e sapevo che era una cosa da evitare, così gli risposi:

    «Invece di chiacchierare tanto,  che ne diresti di filarcela da qui  e

    tornare sull'isola?»

    «Tu trattala come si deve,  amico, altrimenti ti arrostisco le chiappe

    al punto di farti rimpiangere di non esserci finito tu su un banco  di

    corallo di fuoco al posto suo, capito?»

    Ignorai  questa  risposta  da  ammutinato e spruzzai quei brutti segni

    scarlatti, ricoprendoli con uno strato protettivo di calmante,  poi la

    sollevai  fra  le  braccia e la tenni così mentre la morfina leniva la

    terribile agonia bruciante  delle  punture  e  Chubby  ci  riconduceva

    all'isola.

    Quando  trasportai  Sherry  fino  alla  caverna,  lei era già in stato

    semicomatoso per la droga. Per tutta la notte la vegliai, aiutandola a

    superare  la  violenta  febbre,  accompagnata  da  brividi  e  sudore,

    prodotta  dal  terribile  veleno.  Una  volta sola gemette e bisbigliò

    quasi in delirio: «Mi dispiace,  Harry.  Non lo sapevo.  E'  la  prima

    volta che m'immergo in acque coralline. Non l'ho riconosciuto».

    Nemmeno Chubby e Angelo dormirono.  Sentii il mormorio delle loro voci

    accanto  al  fuoco  e  ogni  ora  uno  dei  due   tossicchiava   fuori

    dell'ingresso  della  caverna  e  poi  chiedeva  con  ansia: «Come va,

    Harry?».

    Al   mattino   Sherry   aveva   superato    gli    effetti    peggiori

    dell'avvelenamento  e  le  punture  si erano trasformate in una brutta

    eruzione di vesciche.  Ma dovettero passare oltre trentasei ore  prima

    che uno di noi si sentisse in vena di affrontare di nuovo la fossa,  e

    allora la marea  era  contraria.  Fu  necessario  aspettare  un  altro

    giorno.

    Ore  preziose ci sfuggivano.  Mi pareva di vedere il "Mandrake" che si

    avvicinava;  mi era sembrata una barca veloce e potente e ogni  giorno

    sprecato assottigliava il vantaggio su cui avevo fatto conto.

    Il  terzo  giorno  tornammo  nella  fossa.  Era  metà del pomeriggio e

    corremmo qualche rischio nel canale,  passando in anticipo sul  flusso

    della marea,  con pochi centimetri di margine sugli ostacoli aguzzi di

    corallo.

    Sherry era ancora in  disgrazia  e  con  le  mani  fasciate  di  bende

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    all'acriflavina  rimase  sulla baleniera a tenere compagnia ad Angelo.

    Chubby e io c'immergemmo insieme, scendendo veloci e soffermandoci sul

    bambù ondeggiante solo il tempo necessario a fissare la prima  boa  di

    posizione.    Avevo    deciso    che    era   necessario   perlustrare

    sistematicamente il fondo della fossa.  Avrei diviso l'intera zona  in

    quadrati,  ancorando  delle boe gonfiabili sulla foresta marina con un

    sottile cavo di nylon.

    Lavorammo per un'ora senza trovare traccia del relitto,  per quanto ci

    fossero  masse di corallo coperte di vegetazione marina che meritavano

    indagini più  attente.  Le  segnai  su  una  lavagnetta  da  subacquei

    attaccata alla coscia.

    Alla  fine  dell'ora  le riserve d'aria nelle due bombole da due metri

    cubi e mezzo erano sgradevolmente esigue. Chubby consumava più aria di

    me,  perché era molto più robusto e la sua tecnica mancava di finezza,

    così controllavo regolarmente il suo indicatore di pressione.

    Lo   portai   su   e   fui   particolarmente  attento  alle  soste  di

    decompressione,  anche se Chubby  mostrava  la  solita  impazienza.  A

    differenza  di  me,  non aveva mai visto un subacqueo salire troppo in

    fretta,  così che il sangue comincia  a  frizzargli  nelle  vene  come

    champagne.  L'agonia che ne risulta può rendere invalido un uomo e una

    bolla d'aria annidata nel cervello può provocare un danno permanente.

    «Niente?» gridò Sherry appena emergemmo,  e feci pollice verso  mentre

    nuotavamo verso la baleniera. Bevemmo una tazza di caffè dal thermos e

    io  fumai  un  sigaro  isolano mentre ci riposavamo e chiacchieravamo.

    Eravamo tutti un po' delusi che il successo non fosse stato immediato,

    ma cercai di tenere alto il morale, anticipando il primo ritrovamento.

    Chubby e  io  montammo  le  valvole  di  alimentazione  sulle  bombole

    ricaricate di fresco e scendemmo di nuovo.  Stavolta mi sarei concesso

    solo quarantacinque minuti di lavoro  a  quaranta  metri,  perché  gli

    effetti  dell'assorbimento  di  gas  nel  sangue  sono cumulativi e le

    immersioni ripetute a grande profondità aumentano il pericolo.

    Lavorammo con prudenza in mezzo alla foresta di steli di bambù  e  sui

    blocchi  di  corallo  rovesciati,  esplorando  le  gole e le fratture,

    fermandoci ogni pochi minuti per  annotare  la  posizione  di  aspetti

    interessanti, poi proseguendo, avanti e indietro a tappe regolari, fra

    le boe di posizione.

    Il  tempo  trascorso era di quarantatré minuti e lanciai un'occhiata a

    Chubby. Nessuna delle mute gli si adattava,  così s'immergeva nudo,  a

    eccezione  di  un antiquato costume da bagno di lana nera.  Pareva uno

    dei miei amici delfini,  solo non altrettanto  aggraziato,  mentre  si

    faceva strada nel folto della vegetazione. Sorrisi al pensiero e stavo

    per  voltarmi quando un raggio di luce filtrò per caso dal baldacchino

    sopra di noi e colpì qualcosa di bianco sul fondo, ai piedi di Chubby.

    Mi avvicinai in fretta ed esaminai l'oggetto.  All'inizio  pensai  che

    fosse un frammento di conchiglia, ma poi notai che era troppo spesso e

    regolare  di forma.  Mi avvicinai ancora e vidi che era incastonato in

    uno strato di corallo in  disfacimento.  Tastai  la  cintura  di  tela

    cercando  la  mia  piccola  leva,  la estrassi dal fodero e staccai il

    blocco di corallo che conteneva l'oggetto  bianco.  Il  blocco  pesava

    circa due chili e mezzo e lo feci scivolare nella sacca di rete.

    Chubby mi osservava e io gli detti il segnale della risalita.

    «Niente?»  esclamò  Sherry appena emergemmo.  L'esilio sulla baleniera

    cominciava  evidentemente  a  darle  sui  nervi.   Era  irritabile   e

    impaziente  ma  io  non  l'avrei  lasciata immergere finché le lesioni

    suppurate sulle mani e sulle cosce non  fossero  guarite.  Sapevo  con

    quanta  facilità  le infezioni secondarie possano attecchire su quelle

    piaghe aperte,  in condizioni simili,  e la imbottivo  di  antibiotici

    tentando di tenerla tranquilla.

    «Non  so»  risposi  mentre nuotavamo verso il battello e le tendevo la

    rete.  La prese con impazienza e mentre noi  salivamo  a  bordo  e  ci

    sfilavamo  l'equipaggiamento la osservò da vicino,  rigirandola fra le

    mani.

    I frangenti si abbattevano già con violenza sulla barriera, ribollendo

    nella fossa,  e  la  baleniera  oscillava  e  ballonzolava  nell'acqua

    agitata.  Angelo  trovava  difficile tenerla in posizione;  era ora di

    andarsene.  Avevamo trascorso sott'acqua il tempo massimo che ritenevo

    sicuro  per  un  giorno,  e  fra poco ormai la possente marea oceanica

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    avrebbe cominciato a scavalcare la  barriera  corallina  inondando  la

    fossa.

    «Portaci a casa,  Chubby» gridai, e lui si diresse ai motori. Tutta la

    nostra  attenzione  era  concentrata  sulla  rischiosa  traversata  di

    ritorno fino al canale. Con la piena della marea le onde si gonfiarono

    sotto la nostra poppa, sollevandoci in alto, passando sotto lo scafo a

    velocità  tale  che la nostra velocità relativa si ridusse a zero e la

    direzione della  baleniera  fu  invertita,  tanto  che  rischiammo  di

    straorzare  e  urtare  con  la  murata contro le pareti di corallo del

    canale. Tuttavia,  l'abilità marinaresca di Chubby non vacillò mai,  e

    alla  fine sbucammo nelle acque riparate dietro la barriera e puntammo

    verso l'isola.

    Ora potevo dedicarmi all'oggetto che avevo recuperato dalla fossa. Con

    Sherry che mi dava un sacco di  consigli  di  cui  non  avevo  davvero

    bisogno  e  mi  raccomandava  di usare prudenza,  disposi il blocco di

    corallo sul banco dei remi e vibrai un colpo secco  con  la  leva.  Si

    divise  in  tre  pezzi  e  rivelò un certo numero di oggetti che erano

    stati inglobati e protetti dai polipi del corallo vivo.

    C'erano tre oggetti rotondi, grigi,  delle dimensioni di biglie,  e io

    ne estrassi uno dal blocco di corallo e lo soppesai.  Era pesante.  Lo

    tesi a Sherry.

    «Secondo te?» le chiesi.

    «Palle di moschetto» rispose senza esitazione.

    «Certo» ammisi. Avrei dovuto riconoscerle e feci ammenda identificando

    l'oggetto seguente.

    «Una chiavetta d'ottone.»

    «Che genio!» esclamò lei con ironia,  e io la ignorai mentre procedevo

    con  delicatezza  a  liberare  l'oggetto  bianco che aveva colpito per

    primo la mia  attenzione.  Alla  fine  venne  via  e  lo  rigirai  per

    esaminare il disegno azzurro impresso su una faccia.

    Era un frammento di porcellana bianca smaltata,  un pezzetto del bordo

    di un piatto decorato con uno stemma.  Metà del  disegno  mancava,  ma

    riconobbi  subito il leone rampante e le parole SENAT: ANGLIA.  Era di

    nuovo lo  stemma  della  Compagnia  delle  Indie,  proveniente  da  un

    servizio di piatti della nave.

    Lo  passai a Sherry e a un tratto capii come doveva essere andata.  Le

    riferii la mia versione e lei ascoltò  in  silenzio,  accarezzando  il

    pezzetto   di   porcellana.   «Quando  alla  fine  i  frangenti  hanno

    danneggiato la poppa e il corallo l'ha squarciata a  metà,  dev'essere

    sprofondata  al  centro  e  tutto  il  pesante  carico  si  dev'essere

    spostato, sfondando la paratia interna.  Si dev'essere riversato tutto

    fuori,  cannoni  e  munizioni,  piatti e argenteria,  fiasche e tazze,

    monete e pistole,  sparpagliandosi sul fondo della  cassa,  una  ricca

    semina   di   manufatti  umani  che  i  coralli  hanno  risucchiato  e

    assorbito.»

    «E le casse del tesoro?» domandò Sherry.  «Saranno cadute fuori  dello

    scafo anche quelle?»

    «Non  lo  so»  ammisi,  e Chubby,  che aveva ascoltato con attenzione,

    sputò fuori bordo e borbottò.

    «La stiva di prua aveva sempre una doppia paratia di tavole di quercia

    spesse otto centimetri,  per impedire al carico di  spostarsi  in  una

    tempesta. Tutto quello che c'era allora, è ancora lì dentro.»

    «E  quell'opinione  ti  sarebbe costata dieci ghinee in Harley Street»

    dissi a Sherry strizzandole l'occhio. Lei rise e si rivolse a Chubby.

    «Non so che cosa faremmo senza di lei,  Chubby caro» e lui assunse  un

    cipiglio  terribile  e  scoprì  a un tratto qualcosa all'orizzonte che

    assorbì la sua attenzione.

    Fu solo più tardi, dopo che Sherry e io avemmo fatto la nostra nuotata

    in una delle spiagge appartate e ci fummo cambiati  e  mentre  eravamo

    seduti  intorno  al  fuoco  a  bere  Chivas Regal e a mangiare gamberi

    freschi pescati nella laguna,  che  l'esaltazione  dei  primi  piccoli

    ritrovamenti  svanì...  e io cominciai a considerare a mente fresca le

    implicazioni della mia ipotesi che la "Dawn Light"  fosse  ridotta  in

    pezzi, disseminati nella serra marina della fossa.

    Se  Chubby aveva torto e le casse del tesoro,  con il loro enorme peso

    d'oro, avevano sfondato le pareti della stiva ed erano ricadute fuori,

    allora cercarle sarebbe stato un compito  interminabile.  Quel  giorno

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    avevo visto duecento blocchi e collinette di corallo, ognuno dei quali

    avrebbe potuto nascondere una parte del trono di tigre dell'India.

    Se  aveva ragione lui e la stiva aveva trattenuto il carico,  i polipi

    corallini dovevano essersi estesi su tutta  la  sezione  prodiera  del

    vascello mentre giaceva sul fondo,  coprendo il fasciame con strati su

    strati di pietra calcificata,  finché non era  diventato  un  deposito

    blindato per il tesoro, nascosto da una cortina di piante marine.

    Discutemmo a fondo,  cominciando a valutare l'enormità del compito che

    ci eravamo imposti,  e concludemmo che la nave era  affondata  in  due

    parti distinte.

    Dovevamo  prima  ritrovare  e  identificare  le casse del tesoro e poi

    strapparle all'abbraccio tenace del mare.

    «Sai di che cosa avremo bisogno, vero, Chubby?» chiesi, e lui annuì.

    «Hai ancora quelle due casse?» Mi  vergognavo  a  nominare  la  parola

    gelignite  davanti  a  Sherry.  Mi  ricordava  con troppa nitidezza il

    progetto per cui Chubby e io avevamo ritenuto  necessario  mettere  in

    serbo  grosse quantità di esplosivo ad alto potenziale.  Era stato tre

    anni prima,  durante una  stagione  magra  in  cui  avevo  un  bisogno

    disperato  di  contanti  per  tenere  a galla me stesso e il "Dancer".

    Nemmeno stiracchiando al  massimo  l'interpretazione  della  legge  il

    nostro  progetto  poteva  essere  considerato legale e avrei preferito

    chiudere quel capitolo e dimenticarlo...  ma adesso  la  gelignite  ci

    serviva.

    Chubby  scosse  la testa.  «Amico,  quella roba ha cominciato a sudare

    come uno stivatore sotto la canicola. C'era di che far saltare in aria

    l'isola solo ruttando a meno di quindici metri.»

    «Che cosa ne hai fatto?»

    «Angelo e io l'abbiamo portata al largo nel Canale di Mozambico  e  le

    abbiamo fatto fare un bel bagno.»

    «Ce  ne  serviranno  almeno  un  paio  di  casse.  Ci  vorrà una bella

    esplosione per far saltare quei grossi blocchi che si trovano laggiù.»

    «Parlerò di nuovo col signor Coker...  Lui dovrebbe essere  capace  di

    provvedere.»

    «Sì,  Chubby.  La prossima volta che vai a Saint Mary di' a Fred Coker

    di procurarcene tre casse.»

    «Che ne dici delle granate che abbiamo recuperato dal "Wave  Dancer"?»

    chiese Chubby.

    «Non  vanno» risposi.  Non volevo che il mio necrologio suonasse così:

    "L'uomo che tentò di far saltare delle bombe a mano MK  7  a  quaranta

    metri di profondità".

    La  mattina  dopo  mi  svegliarono  il silenzio innaturale e il calore

    dell'aria satura di elettricità statica.  Rimasi disteso ad ascoltare,

    ma  perfino  i  granchi violinisti tacevano e il perenne fruscio delle

    fronde di palma si era acquietato.  L'unico suono era il respiro basso

    e lieve della donna accanto a me.  La baciai leggermente sulla guancia

    e riuscii a sfilarle il braccio di sotto la  testa  senza  svegliarla.

    Sherry si vantava di non usare mai il cuscino,  faceva male alla spina

    dorsale,  mi aveva spiegato  con  aria  virtuosa,  ma  questo  non  le

    impediva di usare come surrogato qualsiasi parte conveniente della mia

    anatomia.

    Uscii lentamente dalla caverna,  massaggiandomi il braccio per tentare

    di riattivare la circolazione, e mentre offrivo una libagione alla mia

    palma preferita studiai il cielo.

    Era un'alba pallida, velata da una foschia cupa che copriva le stelle.

    L'aria surriscaldata gravava pesante sul terreno,  senza  un  filo  di

    vento, e la pelle mi formicolava nell'atmosfera tesa.

    Quando   tornai,   Chubby  stava  alimentando  il  fuoco  con  qualche

    ramoscello. Alzò gli occhi e confermò la mia diagnosi.

    «Il tempo si sta guastando.»

    «Che cosa succederà,  Chubby?» e lui  si  strinse  nelle  spalle.  «Il

    barometro  è  sceso  a ventotto gradi,  ma lo sapremo a mezzogiorno» e

    riprese a sbuffare e soffiare sul fuoco.

    Il tempo infastidiva anche Sherry.  Aveva i capelli madidi  di  sudore

    alle  tempie  e  scattò  irritata  contro  di  me quando le cambiai le

    medicazioni, ma poco dopo mi si avvicinò alle spalle mentre mi vestivo

    e mi posò la guancia contro la schiena nuda.

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    «Mi spiace,  Harry,  è solo che stamattina il tempo  è  così  afoso  e

    chiuso» e mi passò le labbra sulla schiena, sfiorando con la lingua la

    spessa cicatrice in rilievo.

    «Mi perdoni?» mormorò.

    Chubby  e  io  c'immergemmo nella fossa alle undici di quella mattina.

    Eravamo sul fondo  da  trentotto  minuti  quando  sentii  un  triplice

    tintinnio metallico propagarsi nell'acqua. M'interruppi per ascoltare,

    notando che anche Chubby si era fermato.  Si sentì di nuovo,  ripetuto

    tre volte.

    In superficie Angelo aveva immerso nell'acqua mezzo metro di sbarra di

    ferro e vi stava battendo sopra il segnale di richiamo con un martello

    preso dalla cassetta degli attrezzi.

    Con la mano aperta segnalai a Chubby di emergere e cominciammo  subito

    l'ascesa.

    Quando  salimmo in barca chiesi con impazienza: «Cosa c'è,  Angelo?» e

    per tutta risposta  lui  puntò  il  dito  al  largo,  oltre  il  dorso

    frastagliato e irregolare della barriera.

    Mi  tolsi  la  maschera e battei le palpebre per rimettere gli occhi a

    fuoco dopo gli orizzonti angusti del mondo marino.

    Era lì,  bassa e nera sullo sfondo del mare,  una tenue macchia scura,

    come  se  un  dio  burlone avesse tracciato sull'orizzonte una linea a

    carboncino;  ma proprio mentre  guardavo  parve  crescere,  allargarsi

    nell'azzurro  più  chiaro del cielo,  sempre più scura man mano che si

    levava dal mare. Chubby fischiò piano e scosse la testa.

    «Arriva "Lady C" e ha una gran fretta, amico.»

    La velocità di quel basso fronte scuro era  ingannevole.  Si  sollevò,

    stendendo  sul  cielo  un drappo funereo,  e mentre Chubby spingeva al

    massimo i motori e puntava a tutta velocità verso il canale,  le prime

    filacce di nuvole coprirono il sole.

    Sherry  venne  a  sedersi accanto a me sul banco dei remi e mi aiutò a

    togliermi la muta.

    «Che cos'è, Harry?» mi chiese.

    «"Lady C"» le risposi. «E' un ciclone, come quello che ha affondato la

    "Dawn Light".  E' di nuovo a  caccia»  e  Angelo  andò  a  prendere  i

    salvagente  dal  gavone  di  prua  e  li distribuì.  Li infilammo e ci

    sedemmo vicini a  guardarlo  avanzare  con  terrificante  grandiosità,

    eclissando il sole, trasformando il cielo da un'alta cupola di azzurro

    purissimo in un tetto grigio e basso di nuvole sudicie in fuga.

    Ce  la  mettemmo  tutta  per precederlo,  uscendo dal canale e volando

    attraverso le acque interne verso il rifugio della baia. Eravamo tutti

    voltati per seguirlo con gli occhi e ci sentivamo tremare il cuore  al

    pensiero della nostra fragilità di fronte a una simile potenza. Quando

    entrammo  nella baia il fronte di nuvole ci passò sulla testa e subito

    piombammo in un mondo crepuscolare, carico della furia incombente.  La

    nuvola  trascinava  sotto  di  sé una falda d'aria fredda e umida.  Ci

    passò sopra e rabbrividimmo al repentino sbalzo di temperatura. Con un

    ululato lacerante il vento si  scagliò  contro  di  noi,  trasformando

    l'aria in un vortice di sabbia e spuma.

    «I  motori»  disse Chubby quando la baleniera toccò la spiaggia.  Quei

    due Evinrude nuovi rappresentavano metà dei risparmi di una vita e  io

    capivo la sua ansia.

    «Li prenderemo con noi.»

    «E la barca?» insistette.

    «Affondala. C'è uno strato solido di sabbia su cui potrà posarsi.»

    Mentre  Chubby  e io smontavamo i motori,  Angelo e Sherry stesero dei

    teli d'incerata sul ponte scoperto per assicurare l'attrezzatura e poi

    usarono i cavi di nylon da  immersione  per  fissare  i  preziosissimi

    respiratori e le casse a tenuta stagna che contenevano il materiale di

    pronto soccorso e gli arnesi.

    Poi,  mentre  Chubby  e  io sollevammo i due pesanti Evinrude,  Angelo

    lasciò che il vento spingesse la baleniera lontano  dalla  riva,  dove

    tolse  i tappi dal fondo e la barca si riempì subito d'acqua.  Il mare

    agitato dal vento teso si riversò oltre la  fiancata  e  la  barca  si

    adagiò ben presto a sei metri di profondità.

    Angelo  tornò  sulla  spiaggia con la sua bracciata decisa,  mentre le

    onde gli si frangevano sulla testa.  Ormai Sherry e io  avevamo  quasi

    raggiunto la fila di palme.

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    Piegato  in  due  sotto il mio fardello,  guardai indietro.  Chubby ci

    seguiva arrancando.  Si era caricato sulle spalle il secondo motore e,

    piegato  anche lui sotto il peso morto del metallo,  avanzava a fatica

    nel torrente di sabbia bianca che il vento sollevava fino  all'altezza

    della cintola. Angelo emerse dall'acqua e ci seguì.

    Erano  alle  nostre  spalle  quando ci addentrammo fra gli alberi.  Se

    avevo sperato di trovarvi  riparo,  ero  fuori  di  testa,  perché  ci

    trovammo  sbalzati  da  una situazione di acuto disagio a una di reale

    pericolo.

    I venti impetuosi del ciclone sferzavano le palme con frenesia  folle.

    Il  risultato  era  uno  strepitio  assordante che stordiva per la sua

    intensità.  I  lunghi  tronchi  aggraziati  delle  palme  ondeggiavano

    selvaggiamente  e  il  vento  artigliava  le  fronde strappandole e le

    proiettava lontano,  nella nebbia di sabbia  e  schiuma,  come  enormi

    uccelli deformi.

    Correvamo  in  fila  indiana  lungo uno dei sentieri appena tracciati.

    Sherry avanzava in testa,  coprendosi la testa con le mani,  mentre io

    per  la  prima  volta  ringraziavo  il  cielo  della  sia  pur  minima

    protezione offerta dal grosso motore che portavo sulle spalle,  perché

    tutti noi eravamo esposti a una duplice minaccia di morte.

    L'ondeggiare  delle  palme  scagliava  da un'altezza di quindici metri

    grappoli di noci dure come il ferro.  Grossi come una palla di cannone

    e  quasi  altrettanto  pericolosi,  questi  proiettili ci bombardavano

    mentre correvamo. Uno urtò il motore che trasportavo,  un colpo che mi

    fece  barcollare,  un  altro  cadde  accanto  al sentiero e al secondo

    rimbalzo colpì Sherry a una gamba.  Anche se aveva  perso  gran  parte

    della  sua  potenza,  la  buttò  ugualmente a terra e la fece rotolare

    nella sabbia come un'antilope in corsa colpita da un fucile da  caccia

    grossa.  Quando  si  rimise  in  piedi  zoppicava  vistosamente...  ma

    continuò a correre sotto la micidiale grandinata di noci di cocco.

    Avevamo quasi raggiunto la sella formata dalle colline quando il vento

    intensificò la potenza del suo assalto.  Lo sentii ululare su una nota

    più alta e collerica e arrivare fra le cime degli alberi ruggendo come

    una bestia selvaggia.

    Ci  scagliò  contro  una  nuova  cortina  di  sabbia  e quando lanciai

    un'occhiata avanti notai la prima palma cominciare a cedere.

    La vidi inclinarsi stanca,  fiaccata dagli  sforzi  per  resistere  al

    vento,  la  terra intorno alla base smossa mentre il sistema di radici

    veniva scalzato dal terreno sabbioso. Precipitando acquistò velocità e

    descrivendo un arco impressionante,  come  l'ascia  di  un  carnefice,

    piombò  su  di noi.  Sherry mi precedeva di quindici passi,  stava per

    attaccare la salita e aveva il viso rivolto a terra,  lo sguardo fisso

    sui piedi, le mani ancora sulla testa.

    Correva  proprio  sulla  traiettoria  dell'albero sradicato e sembrava

    così piccola e fragile,  sotto quel tronco massiccio che  precipitava.

    L'avrebbe schiacciata con un sol colpo gigantesco.

    Gridai,  ma  per  quanto mi fosse così vicina non poteva sentirmi.  Il

    ruggito del vento sembrava sopraffare tutti i nostri sensi.  Il  lungo

    fusto flessibile della palma cominciò a cadere, e Sherry correva sulla

    sua  traiettoria.  Lasciai il motore,  scrollandomelo dalle spalle,  e

    corsi avanti.  In quel preciso istante vidi che non sarei  riuscito  a

    raggiungerla  in  tempo  e  mi  tuffai  a pancia in giù,  stendendo il

    braccio destro in tutta la sua  lunghezza,  e  afferrai  il  piede  di

    Sherry  che  stava  più  indietro,  riunendolo all'altro mentre lei lo

    spostava in avanti.  Era la classica presa alla caviglia del giocatore

    di  rugby  e  la  fece inciampare.  Cadde lunga distesa col viso nella

    sabbia.  Mentre eravamo tutti e due a terra  la  palma  precipitò.  La

    violenza  del  colpo si propagò nell'aria sovrastando perfino il suono

    del vento,  e il fusto si abbatté con uno scroscio che  si  ripercosse

    attraverso  il terreno nel mio corpo,  scuotendomi i nervi e facendomi

    tremare.

    Mi alzai all'istante,  tirando  in  piedi  Sherry.  La  palma  l'aveva

    mancata  di  una  quarantina  di  centimetri  e  lei  era sbigottita e

    terrorizzata. La strinsi per pochi istanti, tentando di darle conforto

    e forza.  Poi l'aiutai a superare il fusto di palma  che  sbarrava  il

    sentiero, le indicai la sella e le detti una spinta.

    «Corri!» gridai,  e lei barcollò in avanti. Angelo mi aiutò a caricare

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    di  nuovo  il  motore  in  spalla.   Scavalcammo  l'albero  e  salimmo

    faticosamente il pendio dietro la figura di Sherry in corsa.

    Tutt'intorno a noi, sentivo il tonfo e lo schianto di altri alberi che

    cadevano  e  tentai di correre col viso rivolto in su per avvistare la

    prossima minaccia prima che si abbattesse su di noi,  ma un'altra noce

    di cocco volante mi colpì di striscio alla tempia, offuscandomi per un

    attimo la vista, e io proseguii alla cieca, rischiando la pelle fra le

    mostruose ghigliottine delle palme abbattute.

    Raggiunsi la cresta della sella senza rendermene conto,  impreparato a

    subire in pieno la violenza  del  vento.  Mi  scagliò  in  avanti,  il

    terreno  mi  sfuggi  sotto  i  piedi mentre venivo proiettato oltre la

    sella,  le ginocchia mi  cedettero  e  il  motore  e  io  rotolammo  a

    capofitto giù per il pendio opposto. Nella discesa raggiungemmo Sherry

    North,  travolgendola.  Lei  cadde  e  si  unì  a me e al motore nella

    discesa rovinosa.

    Un momento ero sopra io,  l'attimo dopo la signorina  North  mi  stava

    seduta fra le scapole, poi il motore schiacciava tutti e due.

    Quando  arrivammo  in  fondo  alla  massima  pendenza  e finimmo tutti

    insieme in un mucchio, ammaccati e sfiniti, la sella ci riparava dalla

    furia diretta del vento,  così mi  fu  possibile  sentire  quello  che

    diceva  Sherry.  Fu  subito  chiaro  che  era amaramente risentita per

    quella che considerava un'aggressione immeritata ed esprimeva  a  voce

    alta  seri  dubbi  sulla  mia  famiglia,  il  mio  carattere  e la mia

    educazione.  Perfino nella mia situazione disperata la sua collera  mi

    parve  a  un tratto irresistibilmente comica e cominciai a ridere.  Mi

    accorsi che stava cercando di radunare le  forze  per  colpirmi,  così

    decisi di distrarla. Rivolto a lei cominciai a gracchiare:

    «"Jack e Jill salirono la collina

    Avevano ciascuno un dollaro e un quarto...

    Jill scese con mezza corona

    Non andarono lassù per niente."»

    Sherry  mi fissò per un attimo come se avessi la bava alla bocca,  poi

    scoppiò a ridere anche lei,  ma la sua risata aveva una sfrenata  nota

    isterica.

    «Porco!»  singhiozzava  ridendo,  le  guance  inondate  di lacrime e i

    capelli fradici impastati di sabbia che le penzolavano lungo  il  viso

    in spessi serpentelli intrecciati.

    Quando  ci  raggiunse,  Angelo pensò che stesse piangendo,  la tirò in

    piedi con tenerezza e l'aiutò nelle ultime  centinaia  di  metri  fino

    alle  caverne,  lasciandomi  solo  a  issarmi di nuovo il motore sulle

    spalle doloranti per seguirli.

    La nostra caverna  era  ben  orientata  per  resistere  ai  venti  del

    ciclone,  probabilmente i vecchi pescatori l'avevano scelta con questo

    intento.  Io recuperai il telone avvolto intorno al fusto di una palma

    e   lo  usai  per  schermare  l'ingresso,   accumulando  delle  pietre

    sull'estremità libera per tenerla ferma: ottenemmo così un rifugio  in

    penombra in cui strisciammo come due animali feriti.

    Avevo  lasciato  il  motore  nella caverna di Chubby.  In quel momento

    avevo l'impressione che se non  l'avessi  mai  rivisto  sarebbe  stato

    sempre  troppo  presto,  ma  sapevo  che Chubby l'avrebbe trattato con

    tutti i riguardi affettuosi che  una  madre  riserva  al  suo  bambino

    malato  e  che  una  volta  passato  il ciclone sarebbe stato di nuovo

    pronto a prendere il mare.

    Appena montata l'incerata per chiudere la caverna  e  tener  fuori  il

    vento,  Sherry  e  io  potemmo spogliarci e ripulirci del sale e della

    sabbia.  Allo scopo usammo un catino della preziosa acqua  dolce  e  a

    turno ciascuno di noi restò in piedi nel catino,  facendosi sciacquare

    dall'altro con una spugna.

    La lunga battaglia col motore mi aveva ridotto a un ammasso di tagli e

    di lividi,  e anche se la mia cassetta di pronto soccorso era  rimasta

    sulla  barca  in fondo alla baia,  trovai nella sacca una bottiglia di

    mercurocromo.  Sherry cominciò una convincente imitazione di  Florence

    Nightingale;  con l'antisettico e un batuffolo di ovatta mi disinfettò

    le ferite, mormorando parole di compatimento e di conforto.

    A me piace parecchio essere coccolato e me ne rimasi lì in  uno  stato

    semi-ipnotico,  sollevando  un braccio o muovendo una gamba secondo le

    istruzioni.  Il primo indizio che la signorina North non stava curando

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    le  mie  gravissime  lesioni con la serietà che meritavano,  mi giunse

    quando lei lanciò a un tratto un gridolino esultante  e  impiastricciò

    la  mia  estremità  più  delicata  con  una  pennellata  scarlatta  di

    mercurocromo.

    «Rudolph,  la renna col  naso  rosso»  ridacchiò,  e  io  mi  riscossi

    protestando risentito.

    «Ehi, quella roba non viene più via.»

    «Bene!» esclamò lei.  «Così ora riuscirò a trovarti se mai ti perdessi

    tra la folla.» Io rimasi senza parole di fronte a tanta  imprevedibile

    leggerezza. Mi raccolsi nella mia dignità e andai a cercare un paio di

    pantaloni asciutti.

    Sherry si distese sul materasso e mi guardò frugare nella sacca.

    «Quanto tempo durerà?» chiese.

    «Cinque giorni» risposi, fermandomi ad ascoltare il rombo costante del

    vento.

    «Come lo sai?»

    «Dura   sempre  cinque  giorni»  spiegai  infilandomi  i  pantaloni  e

    tirandoli su.

    «Questo ci darà un po' di tempo per conoscerci.»

    Restammo intrappolati dal ciclone,  segregati insieme nei pochi  metri

    quadrati  della  caverna,  e  fu  una strana esperienza.  Ogni puntata

    all'aperto impostaci dalla natura o dal desiderio di controllare  come

    se la passavano Chubby e Angelo,  era carica di disagio e di pericolo.

    Anche se le palme erano state spogliate di quasi tutti i frutti  nelle

    prime  dodici  ore  e  tutte le piante più deboli erano cadute in quel

    periodo,  c'era pur sempre qualche albero che crollava di  schianto  e

    ramaglie e fronde strappate volavano come frecce con forza sufficiente

    ad accecare una persona o a infliggere ferite.

    Chubby  e  Angelo lavoravano tranquillamente ai motori,  smontandoli e

    ripulendoli dalla salsedine. Avevano qualcosa che li teneva occupati.

    Nella nostra caverna,  una  volta  superata  la  novità  iniziale,  si

    sviluppò una crisi che non riuscii a capire del tutto,  ma che intuivo

    decisiva.

    Non avevo mai preteso di capire a fondo Sherry North,  c'erano  troppe

    domande senza risposta,  troppe zone minate, barriere di privacy oltre

    le quali non mi era concesso di passare.  Fino a quel momento lei  non

    aveva  mai  espresso  i  suoi  sentimenti,  non si era mai parlato del

    futuro. Questo era strano,  perché tutte le donne che avevo conosciuto

    si  aspettavano,   anzi  pretendevano,   dichiarazioni  d'amore  e  di

    passione.  Avvertivo anche che  questa  indecisione  provocava  grande

    tensione sia a lei sia a me.  Si era trovata coinvolta in qualcosa cui

    si ribellava e le sue emozioni ne avevano risentito.

    Tuttavia con Sherry non se ne faceva parola, perché io avevo accettato

    il tacito accordo e non discutevamo mai i nostri reciproci sentimenti.

    Io trovavo tutto questo frustrante,  perché sono un  innamorato  dalla

    parlantina sciolta. Se non sono ancora riuscito a incantare i serpenti

    probabilmente  è  perché  non  ci  ho mai provato sul serio.  Comunque

    potevo adattarmici senza soffrire troppo,  era piuttosto l'assenza  di

    un futuro che mi irritava.

    Pareva  che  Sherry  non si aspettasse che la nostra relazione durasse

    oltre il tramonto, eppure sapevo che non poteva pensarla così,  perché

    nei  momenti  di  calore  che  succedevano  a quelli di tetraggine non

    potevano esserci dubbi.

    Una volta,  quando cominciai  a  esporle  i  miei  progetti  sul  dopo

    recupero del tesoro... come mi sarei fatto costruire un'altra barca su

    mio  progetto,  una  barca che racchiudesse tutti i pregi migliori del

    mio adorato "Wave Dancer";  come mi sarei costruito a Turtle  Bay  una

    nuova casa che non meritasse il nome di baracca; come l'avrei arredata

    e abitata... lei non si unì alla discussione. Quando rimasi a corto di

    parole, lei mi voltò le spalle sul materasso e finse di dormire, anche

    se  potevo  avvertire  la  tensione  del  suo  corpo  senza bisogno di

    toccarla.

    Un'altra volta la sorpresi a fissarmi  di  nuovo  con  quello  sguardo

    ostile, di odio. Mentre un'ora dopo veniva travolta da una frenesia di

    passione   fisica   in  diametrale  contrasto  col  suo  atteggiamento

    precedente.

    Si dedicò a riordinare e rammendare i miei  vestiti,  seduta  a  gambe

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    incrociate  sul  materasso,  applicando  punti  precisi ed efficienti.

    Pure, quando la ringraziai, diventò caustica e sfottente e finimmo per

    sfogarci in un'accesa lite,  finché lei non si precipitò  fuori  della

    caverna  e  corse fuori nel vento furioso fino alla caverna di Chubby.

    Tornò soltanto a sera,  scortata da Chubby  che  teneva  in  mano  una

    lanterna per illuminarle la strada.

    Chubby  mi  osservò con un'espressione che avrebbe incenerito chiunque

    altro e rifiutò gelidamente il mio invito a bere  un  whisky,  il  che

    significava  che  o  stava  molto  male  o era molto dispiaciuto,  poi

    scomparve di nuovo nella tempesta borbottando parole oscure.

    Al quarto giorno i miei nervi erano tesi come  corde  di  violino,  ma

    avevo  considerato  da tutti i punti di vista il problema dello strano

    comportamento di Sherry e avevo raggiunto le mie conclusioni.

    Confinata con me in quella minuscola  caverna,  Sherry  era  costretta

    finalmente  a  riflettere  sui suoi sentimenti nei miei confronti.  Si

    stava innamorando,  forse per la prima volta in vita  sua,  e  il  suo

    spirito  fieramente  indipendente  detestava l'esperienza.  Per essere

    sincero,  neanch'io me la godevo molto...  o meglio,  godevo  i  brevi

    periodi  di pentimento e di amore fra un accesso di collera e l'altro,

    ma  aspettavo  con  fervore  il  momento  in  cui  avrebbe   accettato

    l'inevitabile e si sarebbe arresa.

    Aspettavo  ancora  quel momento felice quando mi svegliai all'alba del

    quinto giorno.  L'isola era in preda a una calma quasi assordante dopo

    il tumulto del ciclone. Restai disteso ad ascoltare il silenzio, senza

    aprire gli occhi, ma quando sentii un movimento al mio fianco girai la

    testa e la guardai in viso.

    «La tempesta è finita» disse lei piano, e si alzò dal letto.

    Uscimmo fianco a fianco nella luce dell'alba,  battendo le palpebre di

    fronte alla devastazione creata dalla tempesta.  L'isola  sembrava  la

    fotografia  di  un campo di battaglia della Prima guerra mondiale.  Le

    palme erano spogliate del loro  fogliame,  i  tronchi  nudi  puntavano

    patetici  verso  il  cielo  e la terra ai loro piedi era coperta da un

    fitto strato di fronde di palma e noci di cocco.  Su tutto regnava  il

    silenzio,  non soffiava un alito di vento e il cielo era di un celeste

    latteo, ancora velato da una foschia di sabbia e di mare.

    Chubby e Angelo sgusciarono fuori dalla loro caverna  come  orsi  alla

    fine  del  letargo.  Anche  loro  si alzarono in piedi e si guardarono

    intorno incerti.

    A un tratto Angelo lanciò un ululato da Comanche e spiccò un salto  di

    un  metro  da  terra.  I  suoi istinti animali non potevano più essere

    repressi,  dopo cinque giorni di forzato  isolamento.  Scattò  fra  le

    palme come un levriero.

    «L'ultimo  che  si tuffa paga da bere» gridò,  e Sherry fu la prima ad

    accettare la sfida.  Era distanziata di dieci passi quando  arrivarono

    sulla spiaggia, ma si tuffarono nello stesso istante, vestiti di tutto

    punto,  e  cominciarono  subito  a lanciarsi manciate di sabbia umida.

    Chubby e io li seguimmo, a un passo calmo più consono alla nostra età.

    Con indosso ancora il suo pigiama a strisce  vivaci,  Chubby  calò  in

    mare le cosce massicce.

    «Amico,  devo dire che è una bella sensazione» ammise con gravità.  Io

    aspirai a fondo  una  boccata  dal  sigaro  sedendomi  accanto  a  lui

    nell'acqua fino alla cintola, poi gli tesi il mozzicone che avanzava.

    «Abbiamo  perso  cinque giorni,  Chubby» gli dissi,  e lui si accigliò

    subito.

    «Diamoci da fare, allora» borbottò,  seduto nella laguna col pigiama a

    strisce gialle e viola,  il sigaro in bocca,  come un enorme ranocchio

    scuro.

    Dalla vetta guardammo giù nelle acque basse della laguna  e  anche  se

    erano un po' torbide per i detriti e la sabbia smossa, la baleniera si

    vedeva chiaramente. Si era adagiata di fianco nella baia e giaceva sul

    fondo  a  sei  metri  di  profondità,  con  il  ponte  ancora  coperto

    dall'incerata.

    La portammo a galla con le sacche gonfiabili e non appena emersero  le

    frisate  riuscimmo  ad  aggottare  e  a  spingerla  a  remi  fino alla

    spiaggia. Il resto della giornata fu impiegato a trasbordare il carico

    fradicio d'acqua, ripulirlo e asciugarlo, riempire le bombole, montare

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    i motori e prepararsi alla prossima visita a Gunfire Reef.

    Cominciavo a essere seriamente preoccupato dai contrattempi che giorno

    dopo giorno ci avevano  costretto  all'immobilità  sull'isola,  mentre

    Manny  Resnick  e  la  sua  allegra  brigata  rosicchiavano  il nostro

    vantaggio iniziale.

    Quella sera  ne  discutemmo  intorno  al  fuoco  da  campo  e  dovemmo

    riconoscere  che  in  dieci giorni non avevamo fatto nessun progresso,

    tranne confermare  che  parte  del  relitto  della  "Dawn  Light"  era

    ricaduta nella fossa.

    Comunque  le  maree  erano favorevoli per iniziare presto al mattino e

    Chubby ci portò attraverso il canale con una luce appena sufficiente a

    distinguere le sporgenze di corallo: quando ci mettemmo  in  posizione

    dietro la barriera il sole stava appena spuntando all'orizzonte.

    Durante  i cinque giorni che eravamo rimasti a terra le mani di Sherry

    erano guarite quasi del tutto e per quanto  le  avessi  suggerito  con

    tatto  di  lasciarmi accompagnare da Chubby ancora per qualche giorno,

    il tatto e la sollecitudine erano andati sprecati.  Sherry  North  era

    armata di muta e pinne e Chubby era seduto a poppa accanto ai motori.

    Sherry  e  io  ci  calammo  veloci e penetrammo nella foresta di bambù

    marino,  regolandoci sulle boe che Chubby e io avevamo lasciato  nella

    nostra ultima immersione.

    Lavorammo  vicino  alla  base  della  scogliera  e  io  disposi Sherry

    all'interno,  dove sarebbe stato più  facile  mantenere  la  posizione

    nella scacchiera mentre si orientava.

    Avevamo  appena  cominciato  il primo tratto e percorso quindici metri

    dall'ultima boa,  quando Sherry batté in fretta sulle mie bombole  per

    attirare  la  mia  attenzione  e io mi feci strada attraverso il bambù

    verso di lei.

    Era sospesa contro la parete di  corallo,  a  testa  in  giù  come  un

    pipistrello,  ed  esaminava  con  attenzione  una cascata di corallo e

    detriti che erano scivolati fino in fondo alla  fossa.  Era  in  ombra

    contro lo sfondo indistinto di corallo scuro, così dovetti arrivarle a

    fianco prima di vedere quello che l'aveva attratta.

    Appoggiato  contro  la  scogliera,  l'estremità  inferiore  posata sul

    mucchio  di  detriti  e  alghe,  c'era  un  lungo  oggetto  cilindrico

    anch'esso incrostato di vegetazione,  che già era stato inghiottito in

    parte dal corallo vivo.

    Eppure le sue dimensioni e la forma regolare dicevano  che  era  opera

    dell'uomo, perché era lungo tre metri e aveva un diametro di cinquanta

    centimetri, perfettamente arrotondato e leggermente affusolato.

    Sherry  lo  studiava  con interesse e quando mi avvicinai si volse per

    venirmi incontro e mi fece segno che non capiva.

    Io avevo riconosciuto subito di che  si  trattava  e  la  pelle  delle

    braccia e della nuca mi formicolava per l'eccitazione.  Con il pollice

    e l'indice imitai una pistola e feci l'atto di sparare,  ma lei scosse

    la  testa,  così  scarabocchiai  in  fretta  sulla lavagnetta e gliela

    mostrai.

    "Cannone."

    Lei annuì con vigore,  strabuzzò gli  occhi  e  soffiò  un  nugolo  di

    bollicine in segno di trionfo prima di tornare al cannone.

    Era della misura giusta per essere uno dei lunghi pezzi da nove libbre

    che  avevano  fatto  parte  dell'armamento della "Dawn Light",  ma non

    c'era  nessuna  possibilità  di   leggervi   iscrizioni,   perché   le

    incrostazioni  e  l'erosione  avevano trasformato la superficie in una

    pelle di coccodrillo.  A differenza della campana di bronzo recuperata

    da Jimmy North, questo non era stato protetto dalla sabbia.

    Mi spostai in giù lungo la canna imponente esaminandola con attenzione

    e  quasi  subito  trovai  un altro cannone nell'ombra più fitta vicino

    alla scogliera.  Tuttavia tre quarti dell'arma erano stati incorporati

    nella scogliera costruita dai polipi del corallo.

    Mi  avvicinai a nuoto,  sgusciando sotto la prima canna e mi addentrai

    nel guazzabuglio di  detriti  e  blocchi  di  corallo  caduti.  Ero  a

    sessanta centimetri da questa massa amorfa quando,  con un choc che mi

    mozzò il fiato e mi fece ribollire il sangue  nelle  vene,  capii  che

    cosa stavo guardando.

    Subito,  eccitato,  sorvolai  il  cumulo  di  detriti,  scoprendo dove

    cominciava e finiva la distesa di corallo,  spingendomi in alto fra il

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    bambù  di mare per valutarne le dimensioni e soffermandomi a esaminare

    ogni apertura o irregolarità.

    La massa complessiva di detriti aveva le  dimensioni  di  un  paio  di

    vagoni  ferroviari,  ma  solo  quando  spinsi  da  parte  un groviglio

    fluttuante di alghe e sbirciai nell'apertura quadrata di  un  portello

    da  cui sporgeva ancora la bocca di un cannone e che non era stato del

    tutto alterato dall'invasione del corallo,  fui certo che  quello  che

    avevamo  scoperto  era  l'intera  sezione prodiera della fregata "Dawn

    Light", spaccatasi proprio dietro l'albero maestro.

    Mi guardai intorno freneticamente cercando Sherry e vidi le sue  pinne

    spuntare da un'altra sezione dei relitto.  La tirai fuori, togliendole

    il boccaglio,  e la baciai con  forza  prima  di  rimetterglielo.  Lei

    rideva  eccitata e quando le feci segno che dovevamo salire scosse con

    violenza la testa e si allontanò  di  scatto  per  continuare  le  sue

    esplorazioni.  Passarono  quindici  minuti buoni prima che riuscissi a

    trascinarla via e a riportarla sulla baleniera.

    Cominciammo tutti e due a  parlare  subito,  appena  ci  togliemmo  il

    boccaglio. La mia voce era più forte della sua, ma lei era più tenace.

    Ci  vollero  alcuni minuti perché potessi far valere i miei diritti di

    capo della spedizione e informare Chubby della nostra scoperta.

    «E' sicuramente la "Dawn Light".  Il peso dell'armamento e del  carico

    devono averla spinta a fondo appena si è disincagliata.  E' andata giù

    come un sasso e giace ai piedi della  scogliera.  Alcuni  dei  cannoni

    sono caduti fuori dallo scafo e sono sparsi intorno alla rinfusa.»

    «Non  l'abbiamo  riconosciuta  subito»  intervenne  di  nuovo  Sherry,

    proprio  quando  l'avevo  appena  zittita.   «Sembra  un  mucchio   di

    spazzatura, ma un mucchio enorme.»

    «Da  quello  che  ho  potuto giudicare dev'essersi spezzata a poppavia

    dell'albero di maestra,  ma è squarciata per quasi tutta la lunghezza.

    I  cannoni  devono  aver  sfondato  il  ponte  e solo i due portelli a

    proravia sono intatti...»

    «In che posizione sta?» domandò Chubby, venendo subito al sodo.

    «E' capovolta» ammisi. «Dev'essersi rovesciata mentre affondava.»

    «Questo è un vero problema,  a meno che non si  possa  entrare  da  un

    portello o dalla parte centrale» grugnì Chubby.

    «L'ho  guardata  bene»  gli  dissi  «ma non sono riuscito a trovare un

    punto da cui penetrare nello scafo.  Perfino i portelli sono  bloccati

    dalle incrostazioni.»

    Chubby scosse mesto la testa.  «Amico, questo posto sembra stregato» e

    subito tutti e tre incrociammo le dita.

    Angelo l'ammonì con  aria  solenne:  «Stai  attirando  la  jella.  Non

    dovresti dire così,  capito?» ma Chubby continuò a scuotere la testa e

    il suo viso si raggrinzì in una smorfia.

    Io gli assestai una pacca sulla schiena e gli chiesi: «E' vero che fai

    acqua gelata...  anche col solleone?» ma il mio tentativo di  umorismo

    lo   fece  sembrare  allegro  come  un  impresario  di  pompe  funebri

    disoccupato.

    «Oh,  lasciate in  pace  Chubby»  intervenne  Sherry  in  sua  difesa.

    «Scendiamo di nuovo e cerchiamo di trovare una breccia nello scafo.»

    «Ci  prenderemo mezz'ora di riposo» dissi io «una fumatina e una tazza

    di caffè... poi daremo un'altra occhiata.»

    La seconda volta restammo  sotto  così  a  lungo  che  Chubby  dovette

    suonare il triplo segnale di richiamo...  e quando affiorammo la fossa

    ribolliva.  Il ciclone si era lasciato dietro uno  strascico  di  alti

    frangenti  e  questi,   ingigantiti  dall'avanzare  della  marea,   si

    avventavano impetuosi oltre  la  barriera  e  penetravano  nel  varco,

    raggiungendo un'altezza che non avevamo mai sperimentato.

    Ci aggrappammo in silenzio ai banchi mentre Chubby ci riportava a casa

    in  una  corsa  folle  e fu solo quando entrammo nelle acque più calme

    della laguna che potemmo riprendere la discussione.

    «E' a prova  di  bomba,  come  la  serratura  Chatwood  della  riserva

    nazionale di valuta» spiegai. «L'unico portello è bloccato dal cannone

    e  nell'altro  sono entrato per circa un metro prima di incontrare una

    parte della paratia che deve aver ceduto.  E' la tana  di  una  grossa

    vecchia murena che sembra un pitone...  ha dei denti da bulldog e io e

    lei non andiamo d'accordo.»

    «E la parte centrale?» chiese Chubby.

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    «No» risposi «è appoggiata sul fondo e il corallo l'ha sigillata.»

    Chubby assunse un'espressione che significava "Ve l'avevo detto".  Gli

    avrei  volentieri  calato  sulla  testa una chiave inglese,  tanto era

    presuntuoso...  ma lo ignorai e mostrai loro il pezzo di fasciame  che

    avevo staccato dallo scafo con un piede di porco.

    «Il  corallo  ha  avviluppato  tutto.  E'  come quelle antiche foreste

    pietrificate.  La "Dawn Light" è una  nave  di  pietra,  blindata  dal

    corallo. C'è solo un modo per entrarci, ed è farla saltare.»

    Chubby annuì. «E' così che si deve fare.»

    Sherry  intervenne:  «Ma  se usate l'esplosivo,  non ridurrete tutto a

    pezzetti?».

    «Non useremo una bomba atomica» le  spiegai.  «Cominceremo  con  mezzo

    candelotto nel portello di prua. Tanto per rimuovere un blocco di quel

    rivestimento  di  corallo»  e  mi  rivolsi di nuovo a Chubby.  «Quella

    gelignite ci serve subito... ormai, ogni ora è preziosa,  Chubby.  C'è

    una  bella luna.  Puoi riportarci a Saint Mary stasera?» Chubby non si

    degnò di rispondere a una domanda tanto superflua.  Era  un  implicito

    affronto alle sue capacità marinare.

    C'era  un  quarto di luna con un alone pallido.  Nell'atmosfera vagava

    ancora la polvere trasportata dai venti  impetuosi.  Anche  le  stelle

    erano  velate  e  lontanissime,  ma il ciclone aveva spinto nel canale

    grandi masse di plancton oceanico,  tanto che il mare,  dovunque fosse

    increspato, era una massa luminosa fosforescente.

    La nostra scia brillava lunga e verde,  spiegata dietro di noi come la

    coda di un pavone,  e i pesci che si  muovevano  sotto  la  superficie

    splendevano  come meteore.  Sherry immerse la mano oltre la fiancata e

    ritirandola  ardente  di  una  bizzarra  fiammata  liquida  gridò   di

    meraviglia.

    Più tardi, quando si senti insonnolita, si appoggiò al mio petto sotto

    l'incerata che avevo steso per ripararci dall'umidità, e ascoltammo il

    tonfo  delle  mante  giganti che laggiù in mare aperto saltavano fuori

    dall'acqua e ricadevano schiaffeggiando la superficie col loro  ventre

    piatto e le loro tonnellate di peso.

    Mezzanotte  era passata da un pezzo quando avvistammo le luci di Saint

    Mary, simili a una collana di diamanti alla gola dell'isola.

    Le strade erano completamente deserte quando  lasciammo  la  baleniera

    all'ormeggio e salimmo a casa di Chubby.  La moglie ci aprì avvolta in

    una vestaglia che faceva sembrare sobri i pigiami di Chubby.  Aveva  i

    capelli  stretti  in  grossi  bigodini  di  plastica rosa.  Finora non

    l'avevo mai vista senza cappello e fui sorpreso di notare che non  era

    calva  come il suo consorte.  Si somigliavano tanto in tutti gli altri

    aspetti.

    Lei ci offrì il caffè prima che io e Sherry montassimo sul camioncino,

    diretti a Turtle Bay.  Le lenzuola erano umide e  avevano  bisogno  di

    essere arieggiate, ma nessuno dei due si lamentò.

    La  mattina  dopo  mi  fermai all'ufficio postale: la mia cassetta era

    piena per metà,  per lo più di cataloghi di attrezzatura  da  pesca  e

    posta  senza  valore,  ma c'erano alcune lettere di vecchi clienti che

    chiedevano un noleggio... quelle mi dettero una fitta al cuore... e la

    busta marrone di un telegramma, che aprii per ultima.  I telegrammi mi

    hanno  sempre  portato  cattive  notizie.  Ogni  volta che vedo una di

    quelle buste col mio nome che fa capolino dalla  finestrella  come  un

    ergastolano, provo sempre una stretta allo stomaco.

    Il messaggio diceva: MANDRAKE SALPATO CITTA' DEL

    CAPO DIRETTO ZANZIBAR ORE 12.00 VENERDI' 16. STEVE.

    Le  mie  premonizioni di sciagura erano confermate.  Il "Mandrake" era

    salpato sei giorni prima.  Aveva compiuto la traversata più in  fretta

    di  quanto  avessi  creduto possibile.  Mi venne voglia di correre sul

    Coolie Peak a scrutare l'orizzonte.  Invece tesi il cablo a  Sherry  e

    scesi in Frobisher Street.

    Fred  Coker  stava  aprendo  la  porta  dell'agenzia  di viaggi quando

    parcheggiai fuori dell'emporio di "Ma" Eddy e mandai dentro Sherry con

    una lista di acquisti, mentre io scendevo la strada fino all'agenzia.

    Fred Coker non mi vedeva dal giorno che l'avevo lasciato gemebondo sul

    pavimento del suo obitorio e adesso era seduto alla sua scrivania  con

    un  vestito  color  pelle di squalo e una cravatta che raffigurava una

    ragazza hawaiana su una spiaggia orlata  di  palme,  con  la  scritta:

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    "Benvenuti a Saint Mary! La perla dell'Oceano Indiano".

    Alzò  gli  occhi  con un sorriso intonato alla cravatta,  ma appena mi

    riconobbe la sua espressione si tramutò in un  profondo  sgomento.  Si

    lasciò  sfuggire  un  belato  da  agnellino orfano e schizzò via dalla

    sedia, diretto verso il retrobottega.

    Gli bloccai la fuga e lui rinculò davanti a me, gli occhiali cerchiati

    d'oro lucenti come il velo di sudore che gli copriva il  viso,  finché

    urtò  contro  la sedia e ci crollò sopra di schianto.  Solo allora gli

    rivolsi un bel sorriso cordiale...  e credetti che sarebbe svenuto dal

    sollievo.

    «Come  sta,  signor Coker?» Tentò di rispondere,  ma la voce lo tradì.

    Invece annuì tanto in fretta che capii che stava benissimo.

    «Voglio che mi faccia un favore.»

    «Tutto» farfugliò, ritrovando all'istante la favella.  «Tutto,  signor

    Harry, deve solo chiedere.»

    Nonostante  le  sue  proteste  gli bastò qualche minuto per riprendere

    coraggio e  presenza  di  spirito.  Ascoltò  la  mia  ragionevolissima

    richiesta di tre casse di esplosivo ed eseguì una pantomima che doveva

    convincermi  dell'assoluta  impossibilità di accontentarmi.  Roteò gli

    occhi, risucchiò le guance e fece schioccare la lingua.

    «La voglio qui per domani a mezzogiorno...  al più  tardi»  e  lui  si

    strinse la fronte come se gli facesse un male cane.

    «E  se  non  è  qui  alle  dodici  in punto,  lei e io riprenderemo la

    discussione sui premi dell'assicurazione...»

    Abbassò la mano e si raddrizzò sulla  sedia,  l'espressione  di  nuovo

    volenterosa e sveglia.

    «Non è necessario,  signor Harry. Posso procurarle quello che vuole...

    ma le costerà parecchio. Trecento dollari a cassa.»

    «Li segni in conto» gli dissi.

    «Signor Harry» esclamò «sa che non posso fare credito.»

    Rimasi in silenzio,  ma socchiusi gli  occhi,  serrai  le  mascelle  e

    cominciai a respirare forte.

    «Benissimo» si corresse in fretta. «Fino alla fine del mese, allora.»

    «E' molto cortese da parte sua, signor Coker.»

    «E' un piacere, signor Harry» mi assicurò. «Un vero piacere.»

    «C'è solo un'altra cosa, signor Coker» e lo vidi rabbrividire pensando

    alla  mia  richiesta,  ma  si  fece forza da vero eroe.  «Nel prossimo

    futuro prevedo di esportare una piccola partita di merce a Zurigo,  in

    Svizzera.»  Lui si spostò un po' in avanti sulla sedia.  «Non desidero

    essere seccato con formalità doganali... mi capisce?»

    «Capisco, signor Harry.»

    «Riceve mai richiesta di inviare il corpo di uno dei suoi  clienti  ai

    parenti più prossimi?»

    «Chiedo scusa?» sembrava confuso.

    «Se  un  turista  dovesse spirare sull'isola,  diciamo d'infarto,  lei

    sarebbe convocato per imbalsamarne il  cadavere  per  la  posterità  e

    spedirlo in una cassa. Mi sbaglio?»

    «E' già accaduto» ammise. «In tre occasioni.»

    «Bene, allora lei ha familiarità con la procedura?»

    «Certo, signor Harry.»

    «Signor  Coker,  metta  da  parte  una cassa e si procuri una pila dei

    moduli giusti. Farò presto la spedizione.»

    «Posso chiedere che cosa intende  esportare...  invece  di  cadaveri?»

    Formulò la domanda con delicatezza.

    «Chieda pure, signor Coker.»

    Scesi  al  forte per parlare con la segretaria del presidente.  Era in

    riunione,  ma mi avrebbe ricevuto all'una,  se ero disposto a pranzare

    con  lui  nel suo ufficio.  Accettai l'invito e per ingannare l'attesa

    percorsi la pista  che  conduceva  al  Coolie  Peak  fin  dove  poteva

    portarmi  il  furgoncino.  Lì parcheggiai e proseguii fino alle rovine

    dell'antico posto  di  guardia  e  di  segnalazione.  Mi  sedetti  sul

    parapetto  guardando  un  panorama di mare e isole verdeggianti mentre

    fumavo un sigaro e davo gli ultimi tocchi ai piani preparati con cura,

    lieto dell'opportunità di fare un ultimo controllo,  prima di affidare

    loro la mia sorte.

    Pensai  a  quello  che  volevo dalla vita e decisi che erano tre cose:

    Turtle  Bay,   il  "Wave  Dancer  Secondo"   e   Sherry   North,   non

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    necessariamente in quest'ordine di preferenza.

    Per continuare a restare a Turtle Bay,  dovevo tenere le mani pulite a

    Saint Mary,  per avere il  "Wave  Dancer  Secondo"  avevo  bisogno  di

    contanti  in  abbondanza  e  Sherry  North...   be',  quello  richiese

    parecchie riflessioni intense e alla fine il mio sigaro si era ridotto

    a un mozzicone e lo schiacciai sul  parapetto  di  pietra.  Trassi  un

    respiro profondo e raddrizzai le spalle.

    «Coraggio, Harry, ragazzo mio» mi dissi, scendendo al forte.

    Il presidente fu lieto di vedermi,  uscì nella sala di ricevimento per

    accogliermi e si alzò in  punta  di  piedi  per  mettermi  il  braccio

    intorno alle spalle e guidarmi nel suo ufficio.

    Era un locale che assomigliava a un salone nobiliare,  con il soffitto

    sostenuto da travi a vista,  le pareti rivestite di pannelli di legno,

    paesaggi  inglesi racchiusi in pesanti cornici scolpite e cupi dipinti

    a olio dall'aria fumosa.  La finestra a riquadri romboidali  di  vetro

    andava  dal  pavimento  al  soffitto,  affacciandosi  sul porto,  e il

    pavimento era coperto da tappeti orientali.

    Il pranzo fu servito  sul  tavolo  da  riunioni  di  quercia...  pesce

    affumicato,  formaggio e frutta,  con una bottiglia di Chateau Lafitte

    '62 da cui era stato tolto il turacciolo.

    Il presidente versò il vino rosso cupo in due bicchieri di  cristallo,

    me  ne  offrì uno e poi lasciò cadere nel suo due cubetti di ghiaccio.

    Sorrise  con  malizia  nel  vedere  la  mia  espressione   sbalordita.

    «Sacrilegio,  vero?»  Levò  verso  di  me  il bicchiere di vino raro e

    cubetti di ghiaccio. «Ma, Harry, io so quello che mi piace. Quel che è

    conveniente in Rue Royale non lo è necessariamente a Saint Mary.»

    «Giusto, signore!» Gli ricambiai il sorriso e bevemmo.

    «Adesso, ragazzo mio, di che cosa voleva parlarmi?»

    Quando tornai al bungalow trovai un messaggio.

    Sherry era andata a far visita alla signora Chubby,  così uscii  sulla

    veranda  con  una  birra  fredda.  Ripensai  al  mio  incontro  con il

    presidente Biddle,  riesaminando  parola  per  parola,  e  mi  ritenni

    soddisfatto.  Pensai che avevo tappato tutte le falle... tranne quelle

    che avrebbero potuto servirmi per fuggire.

    Tre casse di legno con la  scritta  "Pesce  in  scatola.  Prodotto  in

    Norvegia"  arrivarono dalla terraferma L'aereo delle dieci indirizzate

    all'agenzia di viaggi Coker.

    "Alla faccia tua, Alfred Nobel» pensai vedendo la scritta, mentre Fred

    Coker le scaricava dal carro funebre a Turtle Bay,  e le  piazzai  nel

    retro del furgoncino sotto il telone impermeabile.

    «Allora fino alla fine del mese,  signor Harry» disse Fred Coker, come

    il protagonista di una tragedia shakespeariana.

    «Ci conti,  signor Coker» gli assicurai,  e lui si  allontanò  fra  le

    palme.

    Sherry aveva finito di mettere via le provviste. Sembrava così diversa

    dalla sirena del giorno prima,  con i capelli tirati indietro, vestita

    con una delle mie vecchie camicie, che le stava larga come una camicia

    da notte,  e un paio di jeans sbiaditi con le gambe tagliate  in  modo

    irregolare sotto le ginocchia.

    L'aiutai  a caricare le casse sul camioncino e salimmo nella cabina di

    guida.

    «La prossima volta che torneremo qui saremo ricchi» le dissi, e avviai

    il motore, scordandomi di fare gli scongiuri.

    Risalimmo a fatica la pista nella piantagione di palme, sbucammo sulla

    strada principale sotto i campi di ananas e  scalammo  la  cresta  che

    domina la città e il porto.

    «Maledizione!»  gridai  infuriato  e frenai di colpo,  sterzando sulla

    banchina con tanta violenza che il camion di  ananas  che  ci  seguiva

    sbandò  per  evitare  di  tamponarci  e  il  conducente  si sporse dal

    finestrino per lanciarmi degli insulti mentre passava.

    «Che c'è?» Sherry si strappò dal cruscotto dove la mia manovra l'aveva

    proiettata. «Sei impazzito?»

    Era una giornata limpida e senza nuvole,  l'aria era così  chiara  che

    ogni  dettaglio della bella barca bianca e blu spiccava nitido come un

    disegno.  Si dondolava all'ingresso  del  porto  grande,  all'ormeggio

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    riservato di solito alle motonavi da crociera o alla nave postale.

    Era  tutta  pavesata  di  bandierine  da  segnalazione  e  si scorgeva

    l'equipaggio in bianco  tropicale,  allineato  alla  battagliola,  che

    guardava verso terra. La lancia del porto le correva incontro portando

    il capitano di porto, l'ispettore doganale e il dottor MacNab.

    «Il "Mandrake"?» chiese Sherry.

    «Il  "Mandrake"  e  Manny Resnick» ammisi,  invertendo la direzione di

    marcia del camioncino.

    «Che cosa vuoi fare?» domandò lei.

    «Certo non mi farò vedere a Saint Mary mentre a terra ci sono Manny  e

    i suoi scagnozzi.  Li ho incontrati già quasi tutti in circostanze che

    probabilmente avranno impresso a fuoco i miei  bei  connotati  perfino

    nei loro cervelli sottosviluppati.»

    Sul  pendio  della  collina,  alla  prima  fermata  d'autobus oltre la

    deviazione per Turtle Bay,  c'era il piccolo magazzino  di  alimentari

    che mi riforniva di uova,  latte,  burro e altri generi deperibili. Il

    proprietario fu entusiasta di vedermi e  sbandierò  il  mio  conto  in

    sospeso  come  il  biglietto vincente di una lotteria.  Lo pagai e poi

    chiusi la porta del suo ufficio per fare una telefonata.

    Chubby non aveva il telefono,  ma il suo vicino di casa lo chiamò  per

    farlo parlare con me.

    «Chubby»   gli   dissi   «quel  grosso  bordello  galleggiante  bianco

    all'ormeggio della nave postale vuol dire guai.

    «Che cosa vuoi che faccia, Harry?»

    «Muoviti alla svelta. Copri le latte d'acqua con le reti per i gamberi

    e lascia credere che vai a pesca.  Esci in mare e fa' il giro  fino  a

    Turtle  Bay.  Caricheremo  dalla  spiaggia  e  fileremo a Gunfire Reef

    appena fa buio.»

    «Sarò nella baia fra due ore» rispose lui, e riagganciò.

    Era lì dopo un'ora e quarantacinque minuti.  Uno dei motivi per cui mi

    piaceva lavorare con lui era che ci si poteva giocare la camicia sulle

    sue promesse.

    Appena  il  sole  tramontò  e  la  visibilità fu ridotta a cento metri

    uscimmo da Turtle  Bay  e  quando  sorse  la  luna  eravamo  al  largo

    dell'isola.

    Rannicchiati  sotto  l'incerata,  seduti  su  una  cassa di gelignite,

    Sherry e io discutemmo l'arrivo del "Mandrake" in porto.

    «La prima cosa che Manny farà,  sarà di mandare in giro i suoi ragazzi

    con  una  manciata  di grana per fare qualche domanda nei negozi e nei

    bar. "Qualcuno ha visto Harry Fletcher?", e quelli faranno la fila per

    spiegargli tutto. Come il signor Harry ha preso in affitto la barca da

    pesca di Chubby Andrews, e come s'immergono in cerca di conchiglie. Se

    poi è davvero  fortunato,  qualcuno  lo  indirizzerà  verso  l'egregio

    Frederick Coker... e Fred si farà in quattro per spifferare quello che

    sa, purché il prezzo sia buono.»

    «Poi che cosa farà?»

    «Gli  verrà  un  attacco isterico quando sentirà che non sono affogato

    nella Severn. Quando si riprenderà, manderà una squadra a saccheggiare

    e perquisire il bungalow a Turtle Bay.  Li farà  un  buco  nell'acqua.

    Allora  la  deliziosa signorina Lorna Page li guiderà tutti al preteso

    luogo del naufragio al largo di Big Gull. Questo li terrà occupati per

    due o tre giorni...  finché non scopriranno che c'è  solo  la  campana

    della nave.»

    «Allora?»

    «Be',  allora  Manny  diventerà  furioso.  Penso  che  Lorna  si debba

    aspettare qualche momento sgradevole...  ma dopo di questo non so cosa

    succederà.  Tutto  quello  che  possiamo  fare  è cercare di non farci

    vedere e lavorare come un branco di castori per strappare  al  relitto

    le chicche del colonnello.»

    Il  giorno dopo lo stato della marea era tale che non potemmo superare

    il canale prima della tarda mattinata.  Questo ci dette  il  tempo  di

    fare dei preparativi. Aprii una delle casse di gelignite e tirai fuori

    dieci candelotti gialli dalla consistenza di cera. Richiusi la cassa e

    la  seppellii  con  le altre due nel terreno sabbioso del boschetto di

    palme, ben lontano dal campo.

    Poi  Chubby  e  io  montammo  e  controllammo  l'esploditore.  Era  un

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    marchingegno  fatto  in casa,  ma avevo già provato la sua efficienza.

    Consisteva di due batterie a transistor da nove volts in una  semplice

    cassetta  con interruttore.  Avevamo quattro rocchetti di leggero filo

    di rame isolato e una scatola da  sigari  di  detonatori.  Ognuno  dei

    letali  tubi argentei era avvolto con cura nell'ovatta.  Nella scatola

    c'era anche un assortimento di detonatori a tempo, del tipo a matita.

    Chubby e io ci isolammo dagli altri  per  lavorare  fissando  con  dei

    morsetti  i  detonatori  elettrici ai terminali fatti a mano che avevo

    saldato allo scopo.

    L'uso degli esplosivi ad  alto  potenziale  è  semplice  in  teoria  e

    snervante  in pratica.  Anche un idiota può collegare i fili e premere

    il pulsante, ma nella sua forma raffinata diventa un'arte.

    Ho visto un albero di media grandezza sopravvivere a un'esplosione  di

    mezza  cassa,  perdendo  soltanto  le  foglie e un po' di corteccia...

    mentre io,  con mezzo candelotto,  sono capace di far  precipitare  lo

    stesso  albero  di traverso su una strada,  sbarrandola completamente,

    senza far cadere una sola foglia.  Mi considero una specie di artista,

    e  avevo  insegnato  a  Chubby  tutto quello che sapevo.  Lui aveva un

    talento istintivo,  anche se non si sarebbe mai  potuto  definirlo  un

    artista...  il  suo  gusto per il cerimoniale era troppo fanciullesco.

    Chubby amava  semplicemente  far  saltare  in  aria  qualcosa.  Mentre

    lavorava con i detonatori, canticchiava felice.

    Prendemmo posizione nella fossa pochi minuti prima di mezzogiorno e io

    mi  calai  da  solo,  armato  soltanto  di un fucile ad aria compressa

    Nemrod con  una  fiocina  a  crocifisso  munita  di  punte  che  avevo

    progettato  e  realizzato  io  stesso.  La  fiocina  era  acuminata  e

    costellata di  aculei  nei  primi  quindici  centimetri.  Ventiquattro

    piccole  punte  di freccia aguzze come quelle usate dai Batonka quando

    arpionano i pesci gatto nel fiume Zambesi.  Dietro le punte  c'era  il

    crocifisso, una traversa di dieci centimetri che avrebbe impedito alla

    vittima  di  scivolare  lungo  l'asta  abbastanza vicino da aggredirmi

    mentre tenevo in mano l'estremità opposta. Il cavo di nylon blu poteva

    reggere a una trazione di duecentocinquanta chili e formava un  cappio

    di sei metri sotto la canna del fucile ad aria compressa.

    Scesi  fino  alla  massa  enorme del relitto,  mi sistemai comodamente

    accanto al portello del cannone e chiusi gli occhi per alcuni  secondi

    per abituarli al buio,  poi sbirciai con cautela nell'apertura scura e

    quadrata, spingendo davanti a me la canna del fucile.

    Le scure spire viscide della murena  guizzarono  distendendosi  appena

    avvertì  la  mia  presenza  e  indietreggiò  minacciosa,  scoprendo le

    temibili zanne  regolari.  Nella  penombra  gli  occhi  erano  neri  e

    brillanti, riflettevano la luce fioca come quelli di un gatto.

    Era un enorme bestione, grosso come il mio polpaccio e più lungo delle

    mie  braccia tese.  La criniera ondulata della pinna dorsale si drizzò

    per la collera mentre mi minacciava.

    Presi con cura la mira,  aspettando che girasse la testa e mi offrisse

    un bersaglio migliore. Furono alcuni momenti di terrore, avevo un solo

    colpo  e  se  fallivo mi si sarebbe avventata contro.  Avevo visto una

    murena in cattività staccare a morsi il  fasciame  di  una  scialuppa.

    Quelle zanne potevano lacerare facilmente la muta di gomma e la carne,

    arrivando fino all'osso.

    Serpeggiava lentamente,  osservandomi, come un cobra all'attacco, e la

    distanza era quella massima consentita per una mira accurata. Aspettai

    il  momento  adatto   e   alla   fine   entrò   nel   secondo   stadio

    dell'aggressione.   Gonfiò   la   gola  e  si  volse  leggermente  per

    presentarmi il profilo.

    "Mio  Dio",  mi  dissi,  "e  pensare  che  una  volta  lo  facevo  per

    divertimento"  e  afferrai il cappio del grilletto.  Il gas sibilò con

    cattiveria e lo stantuffo fece un rumore sordo alla fine della  corsa,

    lanciando  la  fiocina.  Volò  lasciando  dietro di sé una lunga scia,

    seguita dalla cima.

    Avevo mirato al segno scuro a forma di orecchio dietro il cranio e  il

    colpo  arrivò  tre  centimetri  in  alto e cinque a destra.  La murena

    esplose in un viluppo di spire che si avvolgevano e schiacciavano come

    fruste bloccando tutto il portello.  Mollai l'arma e  con  una  spinta

    delle  pinne  mi  proiettai  in  avanti  e  afferrai l'estremità della

    fiocina.  Vibrava e saltava fra le mie mani mentre la murena avvolgeva

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    il corpo scuro e massiccio intorno all'asta.  La tirai fuori dalla sua

    tana,  inchiodata alla punta irta di aculei da un voluminoso fascio di

    pelle e muscoli gommosi.

    La  bocca  aperta in un urlo silenzioso,  allungò il corpo e lo lasciò

    sventolare e contorcersi come un pennone al vento.

    La coda mi sbatté sulla faccia,  spostandomi la maschera.  L'acqua  mi

    entrò  nel  naso  e  negli  occhi  e  dovetti liberarla prima di poter

    iniziare la risalita.

    Allora  la  murena  torse  la  testa  all'indietro  in  un'angolazione

    impossibile   e   chiuse   le  mascelle  dall'apertura  impressionante

    sull'asta di metallo della fiocina. Sentii i denti sfregare e stridere

    sull'acciaio e nei punti in  cui  aveva  morso  restarono  dei  graffi

    lucenti d'argento.

    Sbucai  in  superficie  tenendo  in  alto la mia preda.  Sentii Sherry

    squittire di  orrore  davanti  al  mostro,  che  si  snodava  come  un

    serpente,  mentre Chubby grugnì: «Vieni da papà, bellezza» e si sporse

    fuori bordo per afferrare la fiocina  e  issare  a  bordo  la  murena.

    Mostrava le gengive di plastica in un sorriso felice, perché la murena

    era  il suo bocconcino preferito.  Appoggiò il collo contro il capo di

    banda e con un guizzo esperto del coltello mozzò  di  netto  la  testa

    mostruosa, lasciandola cadere nella fossa.

    «Signorina Sherry» esclamò «sentirà come è gustosa.»

    «Mai!»  rabbrividì  Sherry,   ritraendosi  ancor  più  dalla  carcassa

    sanguinante che fremeva.

    «Okay,  ragazzi,  prendiamo la gelatina.» Angelo  aveva  preparato  la

    borsa  di  rete  da subacquei per passarmela e Sherry scivolò oltre la

    fiancata, pronta a immergersi. Lei teneva il rocchetto di filo isolato

    e lo svolse senza scosse mentre scendevamo.

    Ancora una volta mi diressi direttamente al portello ormai  disabitato

    e vi scivolai dentro. La culatta del cannone era saldata alla massa di

    detriti più in là.

    Scelsi  due  posti  per  sistemare  le  cariche.  Volevo  rimuovere il

    cannone,  usandolo come una leva gigante per squarciare una fetta  del

    fasciame  pietrificato.  La  seconda  carica  esplosa  simultaneamente

    avrebbe abbattuto la parete di  detriti  che  sbarrava  l'ingresso  al

    ponte  dei  cannoni.  Fissai  saldamente  le cariche.  Sherry mi passò

    l'estremità del cavo e io tagliai e misi a nudo il filo di rame con le

    pinze prima di collegarlo ai morsetti.

    Controllai il lavoro appena finito e  poi  uscii  indietreggiando  dal

    portello.  Sherry  era  seduta  a  gambe incrociate sullo scafo con il

    rocchetto in grembo e io le sorrisi e puntai i pollici in su prima  di

    recuperare il fucile da subacqueo che avevo lasciato cadere.

    Quando  risalimmo  a  bordo  della  baleniera Chubby aveva la cassetta

    accanto a sé sul banco da rematore e i fili erano collegati.  Aveva il

    viso accigliato pregustando il piacere mentre covava l'esploditore con

    aria  possessiva.  Si  sarebbe  dovuta usare la forza per privarlo del

    piacere di premere il pulsante.

    «Pronto a sparare, comandante» grugnì.

    «Allora spara,  Chubby.» Si gingillò ancora un  po'  con  la  scatola,

    prolungando il piacere, poi girò l'interruttore.

    La  superficie  della  fossa  si gonfiò e rabbrividì e sentimmo l'onda

    d'urto propagarsi attraverso il fondo della  barca.  Parecchi  secondi

    dopo  vedemmo un ribollire e schiumare di bollicine,  come se qualcuno

    avesse versato nella fossa una tonnellata di Alka  Seltzer.  Si  placò

    lentamente.

    «Voglio che tu ti metta anche i pantaloni della muta,  tesoro» dissi a

    Sherry,  e come  previsto  lei  accolse  l'ordine  come  un  invito  a

    discuterne la validità.

    «Perché, se l'acqua è calda?»

    «Anche guanti e stivaletti» aggiunsi,  cominciando a indossare anch'io

    i pantaloni lunghi di gomma. «Se lo scafo è aperto potremmo penetrarci

    in  questa  immersione.   Avrai  bisogno  di  protezione  contro   gli

    spuntoni.»

    Finalmente convinta, fece quello che avrebbe dovuto fare subito, senza

    domande.  Mi  restava  ancora  parecchio  da  lavorare prima che fosse

    addestrata   a   dovere,    riflettei   mentre   riunivo   il    resto

    dell'equipaggiamento che mi serviva per questa immersione.

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    Presi la torcia da subacqueo sigillata,  il piede di porco e un rotolo

    di cavo leggero di nylon e attesi mentre Sherry completava il faticoso

    procedimento  di  introdursi  negli  attillati  pantaloni  di   gomma,

    assistita  fedelmente  da  Angelo.  Una  volta  che li ebbe tirati su,

    abbottonando la pattina, fummo pronti per andare.

    A metà strada,  c'imbattemmo nel primo  pesce  morto  che  galleggiava

    negli abissi.  Ce n'erano centinaia che le esplosioni avevano ucciso o

    mutilato,  di varie dimensioni.  Avvertii  una  fitta  di  rimorso  al

    pensiero del massacro che avevo perpetrato,  ma mi consolai con l'idea

    che ne avevo uccisi meno di quanto avrebbe fatto un tonno  azzurro  in

    un solo giorno.

    Scendemmo  attraverso  questo teatro di carneficina e la luce colpì le

    carcasse che vagavano e galleggiavano occhieggiando e  brillando  come

    stelle morenti in un cielo azzurro fumo.

    Il  fondo  della fossa era intorbidito da particelle di sabbia e altro

    materiale sollevato dalla scossa  dell'esplosione.  Nella  cortina  di

    bambù di mare si era aperto un varco e noi vi passammo.

    Mi  accorsi subito di aver raggiunto il mio scopo.  L'esplosione aveva

    espulso dallo scafo il massiccio cannone,  estraendolo come  un  dente

    guasto dalla mascella nera del ponte.  Era caduto in fondo alla fossa,

    circondato dai detriti che aveva portato via con sé.

    L'estremità superiore del  portello  era  stata  sfondata,  allargando

    l'apertura  al  punto  che un uomo poteva starci quasi eretto.  Quando

    feci balenare la torcia nell'ombra al di là,  vidi che era una  nebbia

    satura  di  fanghiglia  e  particelle  in  sospensione  che  avrebbero

    impiegato del tempo a depositarsi.  La mia  impazienza  non  l'avrebbe

    permesso,  però,  e  quando ci posammo sullo scafo controllai il tempo

    trascorso e le riserve d'aria.  Calcolai in fretta il tempo di lavoro,

    tenendo conto delle mie due discese precedenti che avrebbero richiesto

    un  supplemento di decompressione: avevamo diciassette minuti di tempo

    prima di cominciare a risalire e  regolai  la  suoneria  dell'orologio

    prima di prepararmi all'esplorazione.

    Usai il cannone gettato in mare come punto d'appoggio al quale fissare

    il  capo  della  fune  di  nylon  e  poi  risalii  fino  all'apertura,

    mollandolo dietro di me mentre salivo.

    Dovetti strappare Sherry dal portello: nei pochi secondi  in  cui  ero

    stato impegnato col cavo era quasi scomparsa nel buco dello scafo.  Le

    segnalai infuriato di sgombrare e lei fece di rimando con due dita  un

    gesto poco adatto a una signora, che io finsi di ignorare.

    Entrai  con cautela nel portello e scoprii che la visibilità era scesa

    a circa un metro nella melma scura.

    Le esplosioni avevano smosso solo in parte il blocco oltre il punto in

    cui si era trovato il cannone.  Più in là sembrava  che  ci  fosse  un

    vuoto ma occorreva allargarlo prima che potessi passarci. Usai la leva

    per  scalzare un blocco del relitto e scoprii che il blocco era creato

    in gran parte dal pesante affusto del cannone.

    Lavorai con  calma  e  precisione,  ignorando  i  colpi  regolari  sul

    didietro  con  cui  Sherry segnalava la sua bruciante impazienza.  Una

    volta,  quando emersi con una sezione di fasciame frantumato,  lei  mi

    prese  la  lavagnetta  e  ci  scrisse sopra: "Io sono più piccola!!" e

    sottolineò due volte il  "più  piccola",  nel  caso  il  doppio  punto

    esclamativo  mi  sfuggisse  quando  mi piazzò la lavagna a un palmo di

    naso. Le restituii il saluto nello stile di Churchill e tornai ai miei

    scavi.

    Ormai avevo sgombrato la zona a sufficienza  per  vedere  che  l'unico

    ostacolo  che  restava era la pesante mole dell'affusto,  sospeso a un

    angolo assurdo di traverso all'ingresso  del  ponte  dei  cannoni.  Il

    piede   di  porco  era  del  tutto  inefficace  contro  quella  massa:

    l'alternativa era  abbandonare  l'impresa  e  tornare  l'indomani  con

    un'altra carica di gelignite o correre il rischio.

    Guardai  il  cronometro  e  vidi  che  ero  stato impegnato per dodici

    minuti.  Calcolai che probabilmente avevo sprecato più aria del solito

    durante i recenti sforzi. Ciò nonostante decisi di dare un'occhiata.

    Passai la torcia e la leva a Sherry, all'esterno, e mi feci strada con

    prudenza   nell'apertura.   Appoggiai   la  spalla  sotto  l'estremità

    superiore dell'affusto e mossi i piedi finché  non  trovai  un  solido

    punto d'appoggio.  Quando fui sistemato saldamente, respirai a fondo e

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    cominciai a spingere.

    Aumentai pian piano la tensione fino a puntare  in  su  con  tutta  la

    forza  delle mie gambe e del dorso.  Sentii il viso e la gola gonfiati

    di sangue e gli occhi sembravano sul punto di schizzarmi dalle orbite.

    Non si mosse niente e io inspirai un'altra boccata d'aria e  ritentai,

    ma  stavolta  proiettando  tutto  il  mio peso sulla trave in un unico

    sforzo esplosivo.

    Cedette,  e io mi sentii come Sansone quando si era tirato sulla testa

    il  tempio.  Persi  l'equilibrio  e  capitombolai  all'indietro  in un

    turbine  di  detriti  che  precipitarono  facendo  un  suono  sordo  e

    rimbalzandomi intorno.

    Quando scese il silenzio, mi ritrovai nel buio più completo, una densa

    minestra  di piselli di melma turbinante che cancellò la luce.  Tentai

    dì muovermi e mi trovai la gamba  bloccata.  Il  panico  m'invase  con

    un'ondata  gelida  e  lottai  freneticamente per liberarmi.  Bastò una

    mezza dozzina di calci terrorizzati per accorgermi che me l'ero cavata

    davvero a buon mercato. L'affusto di cannone mi aveva mancato il piede

    di mezzo centimetro ed era caduto di traverso sulla pinna.  Sfilai  il

    piede, abbassandola, e mi diressi tentoni all'aperto.

    Sherry aspettava con impazienza le notizie e io cancellai la lavagna e

    scrissi "aperto!", sottolineando due volte. Lei puntò il dito verso il

    portello,  chiedendo  il  permesso  di  entrare,  e  io  controllai il

    cronometro. Avevamo due minuti, così annuii e le feci strada.

    Proiettando il raggio della torcia davanti a me avevo  una  visibilità

    di quasi cinquanta centimetri,  sufficienti per trovare l'apertura che

    avevo sgombrato.  C'era un margine appena  sufficiente  per  lasciarmi

    passare  senza  impigliarmi  con le bombole o il tubo del respiratore.

    Filai dietro di me il cavo di nylon,  come  Teseo  nel  labirinto  del

    Minotauro, in modo da non perdere l'orientamento nell'intrico di ponti

    e boccaporti della "Dawn Light".

    Sherry mi seguì lungo il cavo.  Potevo sentire la sua mano toccarmi il

    piede e sfiorarmi la gamba mentre procedeva dietro di me.

    Superato lo sbarramento,  l'acqua si fece un po'  più  limpida,  e  ci

    ritrovammo nel locale ampio e basso del ponte dei cannoni.  Era buio e

    misterioso,  affollato di sagome strane disseminate intorno  a  noi  a

    profusione.  Vidi  altri  affusti,  palle di cannone sparse qua e là o

    ammucchiate negli angoli e altre  attrezzature  tanto  alterate  dalla

    prolungata immersione da risultare irriconoscibili.

    Avanzammo  lentamente,  sollevando  con  le  pinne  nuovi  vortici  di

    terriccio e fango. Anche qui ci galleggiavano intorno pesci morti,  ma

    notai  che  alcuni  gamberi  rossi della barriera si rintanavano nelle

    viscere  della  nave  come  ragni   mostruosi.   Almeno   loro   erano

    sopravvissuti all'esplosione, grazie alle loro corazze blindate.

    Puntai  il  raggio  della  torcia  sul tavolato sopra le nostre teste,

    cercando il punto d'accesso ai ponti inferiori e alle  stive.  Con  la

    nave che giaceva capovolta,  dovevo cercare di rapportare la geografia

    attuale del relitto ai disegni che avevo studiato.

    A circa quattro metri e mezzo dall'ingresso  trovai  la  scaletta  del

    castello  di  prua,  un'altra  apertura  quadrata  e buia sopra la mia

    testa,  e mi ci avventurai,  le bollicine che salivano in  una  doccia

    argentea  e scorrevano come argento vivo fra le paratie e il tavolato.

    La scala era marcita al punto che cadde in pezzi appena la toccai e  i

    frammenti  rimasero  sospesi  nell'acqua intorno alla mia testa mentre

    avanzavo verso il ponte inferiore.

    Questo è un corridoio stretto e affollato,  che probabilmente  serviva

    le  cabine  dei passeggeri e la mensa degli ufficiali.  L'atmosfera da

    claustrofobia mi ricordò le condizioni allucinanti in cui doveva  aver

    vissuto l'equipaggio della fregata.

    Mi  avventurai  con  prudenza  lungo questo passaggio,  attirato dalle

    porte ai lati che promettevano ogni sorta  di  scoperte  affascinanti.

    Resistetti  alla tentazione e avanzai lungo il ponte finché questo non

    finì bruscamente contro una massiccia paratia di legname.

    Questa doveva essere la parete esterna del pozzo della stiva prodiera,

    nel punto in cui attraversava il ponte e  scendeva  nel  ventre  della

    nave.

    Soddisfatto  dei  risultati raggiunti,  diressi il raggio della torcia

    sul polso e scoprii con un brivido di colpa che  avevamo  superato  di

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    quattro  minuti  il  tempo  di  lavoro.  Ogni secondo ci avvicinava al

    temuto pericolo di vuotare le bombole e non poter completare le  soste

    di decompressione.

    Afferrai  il  polso  di  Sherry  e  le  lanciai il segnale di pericolo

    passandomi  la  mano  di  taglio   sulla   gola   prima   di   battere

    sull'orologio. Lei capì subito e mi seguì docilmente nel lungo e lento

    viaggio  di  ritorno  attraverso lo scafo seguendo il cavo guida.  Già

    sentivo irrigidirsi la valvola di alimentazione,  che mi forniva  aria

    con maggiore riluttanza ora che le bombole erano quasi esaurite.

    Uscimmo  all'aperto  e controllai che Sherry fosse al mio fianco prima

    di guardare in su.  Quello che vidi sopra di me mi strozzò il  respiro

    in  gola  e l'orrore che provai si trasformò in una sensazione di olio

    caldo nelle viscere.

    La  fossa  di  Gunfire  Break   si   era   trasformata   in   un'arena

    sanguinolenta.  Attratti  dalle tonnellate di pesci morti uccisi dallo

    scoppio,  i feroci squali assassini  degli  abissi  erano  arrivati  a

    decine.  L'odore  della  carne  e  del  sangue,  insieme  al movimento

    disordinato dei loro simili trasmesso fino a loro dall'acqua, li aveva

    eccitati.

    Tirai subito  Sherry  indietro  nel  portello  e  ci  acquattammo  lì,

    guardando  in  su  verso le enormi sagome che scivolavano profilandosi

    tanto chiaramente contro la sorgente di luce della superficie.

    Fra i banchi di squali più piccoli c'erano almeno  due  dozzine  delle

    goffe  bestie  che gli isolani chiamavano squalo Albacore.  Avevano il

    corpo a botte e il  ventre  gonfio,  grossi  pesci  potenti  col  muso

    rotondeggiante e ampie mascelle sorridenti. Roteavano nella fossa come

    in un grottesco carosello,  dimenando la coda e aprendo meccanicamente

    la bocca per ingoiare brandelli di carne.  Li conoscevo  come  animali

    avidi  ma  stupidi,  che  si  lasciavano  facilmente scoraggiare da un

    atteggiamento aggressivo,  quando non erano frenetici.  Ora che  erano

    intensamente  eccitati  sarebbero  stati  pericolosi,  eppure se fosse

    stato solo per loro avrei accettato il rischio della risalita  con  la

    relativa decompressione.

    Quello  che  mi  spaventava sul serio erano le altre due lunghe sagome

    agili che guizzavano silenziosamente nella  fossa,  svoltando  con  un

    solo  potente schiocco della lunga coda di rondine,  tanto che il muso

    appuntito quasi toccava l'estremità della coda,  per poi scivolar  via

    di nuovo con tutta la potenza e la grazia di un'aquila in volo.

    Quando  l'uno  o  l'altro  di  questi  terribili  pesci si fermava per

    nutrirsi,  la bocca a falce di luna si apriva e le  file  multiple  di

    denti si ergevano come gli aculei di un porcospino sporgendo in fuori.

    Erano una coppia affiatata, ognuno lungo tre metri e sessanta dal muso

    alla  punta  della coda,  con la lama eretta della pinna dorsale lunga

    quanto il braccio di un uomo;  erano blu ardesia  sul  dorso,  con  il

    ventre  bianco  come  la  neve  e  punte scure alla coda e alle pinne;

    potevano tagliare un uomo a metà e ingoiarne i pezzi interi.

    Uno di loro ci vide rannicchiati nella bocca del portello e  si  volse

    di  scatto per scendere,  librandosi a pochi metri da noi,  acquattati

    nell'ombra,  tanto che scorsi chiaramente  i  lunghi  aculei  pendenti

    degli organi riproduttivi maschili.

    Questi erano i terribili squali Morte bianca,  il pesce più crudele di

    tutti i  mari,  e  capii  che  tentare  di  salire  allo  scoperto  ed

    effettuare  un'adeguata  decompressione  con  aria  limitata  e  senza

    protezione sarebbe stata la morte sicura.

    Se volevo portar via Sherry viva avrei dovuto correre  rischi  che  in

    altre circostanze sarebbero stati impensabili.

    Scribacchiai in fretta sulla lavagna: "Ferma! Salgo in apnea".

    Lei  lesse il messaggio e subito scosse la testa in segno di rifiuto e

    fece gesti ansiosi per impedirmelo,  ma  io  avevo  già  sganciato  la

    fibbia  della  mia  cinghia e inalato l'ultima boccata profonda che mi

    gonfiò il petto,  prima di metterle fra le mani  il  mio  respiratore.

    Lasciai  cadere la cintura zavorrata per acquistare slancio e scivolai

    giù lungo il fianco dello scafo,  sfruttando la chiglia per  ripararmi

    mentre nuotavo verso il riparo della scogliera.

    Avevo  lasciato  a  Sherry  quel che restava delle mie riserve d'aria,

    forse cinque o sei minuti se le usava con parsimonia,  e ora,  con  la

    sola aria che avevo nei polmoni, dovevo accettare la sfida della fossa

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    e tentare di tornare a galla.

    Raggiunsi  la  scogliera  e  cominciai a salire,  tenendomi stretto al

    corallo, sperando che la muta scura si confondesse con le ombre. Salii

    con le spalle al corallo, fronteggiando la fossa aperta dove le grandi

    ombre sinistre ancora guizzavano e roteavano.

    Sei metri dal fondo,  e l'aria nei miei polmoni si espandeva in fretta

    man   mano   che   la  pressione  dell'acqua  diminuiva.   Non  potevo

    trattenerla, o mi avrebbe squarciato i tessuti dei polmoni. La lasciai

    filtrare dalle labbra,  un faro argenteo di bollicine  che  uno  degli

    squali Morte bianca notò subito.

    Roteò  e  si volse,  guizzando attraverso la fossa con colpi sferzanti

    della coda, piombando su di me.

    Lanciai uno sguardo disperato alla scogliera e due metri sopra  di  me

    scorsi  una  piccola caverna nel corallo marcio.  Mi ci tuffai proprio

    mentre lo squalo mi passava accanto, voltava e tornava indietro per un

    secondo  passaggio  proprio  nell'attimo  in   cui   mi   rannicchiavo

    nell'angusto rifugio.  Lo squalo si disinteressò a me e guizzò via per

    afferrare  al  volo  il  corpo  di  un   sarago   morto,   ingoiandolo

    voracemente.

    I polmoni ormai mi pulsavano,  perché avevo assorbito tutto l'ossigeno

    dall'aria che avevo inalato e  nel  sangue  mi  si  stava  sviluppando

    diossido di carbonio. Ben presto avrei cominciato a scivolare nel buio

    dell'anossia.

    Lasciai il rifugio della caverna ma continuando a seguire la scogliera

    spinsi in su più che potevo con l'unica pinna, rimpiangendo amaramente

    l'altra ancora intrappolata sotto l'affusto.

    Nell'ascesa  dovetti  emettere di nuovo aria in espansione sapendo che

    nelle mie vene anche l'azoto si stava decomprimendo troppo in fretta e

    fra poco si sarebbe trasformato in gas,  gorgogliando nel  mio  sangue

    come champagne.

    Sopra  di me scorsi lo specchio argenteo in movimento della superficie

    e la sagoma nera a sigaro  della  baleniera  sospesa  sopra  di  essa.

    Salivo in fretta e guardai di nuovo giù. In lontananza scorsi il banco

    di  squali  che  continuava  a  roteare.  Pareva  che fossi riuscito a

    passare inosservato.

    I polmoni mi bruciavano per la mancanza d'aria e il sangue mi  pulsava

    alle  tempie  quando decisi che era ora di abbandonare il riparo della

    scogliera e attraversai allo scoperto la fossa fino alla baleniera.

    Scalciai e mi lanciai verso la barca, a trenta metri dalla barriera. A

    metà strada guardai giù e vidi che uno degli squali  Morte  bianca  mi

    aveva  avvistato e partiva all'attacco.  Salì dagli abissi azzurri con

    incredibile velocità e il terrore m'infuse nuova forza mentre  puntavo

    verso la superficie e la barca.

    Guardavo giù, osservando lo squalo arrivare. Sembrava che ingigantisse

    mentre  mi piombava addosso.  In quei frenetici secondi ogni dettaglio

    mi s'impresse nella mente.  Vidi il muso da  porco  con  le  narici  a

    fessura,  gli  occhi  dorati  con  le  pupille  come punte di freccia,

    l'ampio dorso bluastro da cui sporgeva l'alta lama da boia della pinna

    dorsale.

    Sbucai in superficie così veloce che emersi fin quasi alla  cintola  e

    voltandomi  in  aria  passai  il  braccio sano sul capo di banda della

    barca. Con tutte le mie forze proiettai in avanti il corpo e richiamai

    le gambe sotto il mento.

    In quell'istante lo squalo  attaccò,  l'acqua  esplose  intorno  a  me

    quando  sbucò a galla e sentii la pelle ruvida e granulosa lacerare le

    gambe della muta mentre mi sfiorava,  poi si avvertì uno schianto e un

    brivido quando colpì lo scafo della baleniera.

    Vidi  le  facce  stravolte  di  Chubby  e  di  Angelo  mentre la barca

    ingavonava e rollava  violentemente.  I  miei  violenti  contorcimenti

    avevano  tratto  in  inganno lo squalo che aveva mancato le mie gambe,

    urtando contro lo scafo.

    Ora con un altro calcio disperato e una spinta capitombolai  oltre  il

    capo di banda e ricaddi in fondo alla baleniera. Lo squalo urtò ancora

    contro  lo  scafo  mentre  salivo,   mancandomi  di  nuovo  per  pochi

    centimetri.

    Rimasi disteso inalando aria nei polmoni doloranti,  a grandi  sorsate

    inebrianti che mi fecero girare la testa come un vino forte.

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    Chubby  mi gridava: «Dov'è la signorina Sherry?  Quel grosso squalo ha

    preso la signorina Sherry?».

    Io mi rotolai di fianco, boccheggiando e inghiottendo aria preziosa.

    «Risparmia il fiato» ansimai. «Sherry aspetta nel relitto.  Ha bisogno

    di aria.»

    Chubby  saltò  a  prua  e  tolse  il telone dai respiratori di riserva

    accatastati lì.  In una crisi è il tipo di uomo che preferisco avere a

    coprirmi le spalle.

    «Angelo» ringhiò «dagli le pillole per gli squali.» Era una confezione

    di tavolette repellenti per gli squali a base di acetato di rame,  che

    avevo ordinato da un catalogo di articoli sportivi americani e per  le

    quali  Chubby  aveva  professato  un  profondo  e  durevole disprezzo.

    «Vediamo se quelle diavolerie servono a qualcosa.»

    Avevo respirato abbastanza da tirarmi su e dire a Chubby: «Abbiamo dei

    problemi. La fossa è piena di grossi squali,  e ce ne sono due davvero

    pericolosi. Quello che mi ha attaccato e un altro».

    Chubby  si  accigliò  mentre  adattava  le valvole di alimentazione al

    nuovo respiratore.

    «Sei risalito direttamente, Harry?»

    Annuii. «Ho lasciato le mie bombole a Sherry. Lei aspetta laggiù.»

    «Ti verrà l'embolia,  Harry?» Mi guardò  e  nei  suoi  occhi  vidi  la

    preoccupazione.

    «Sì»  annuii,  trascinandomi alla cassetta degli utensili e sollevando

    il coperchio. «Devo scendere di nuovo in fretta...  devo far aumentare

    la pressione del sangue prima che si metta a frizzare.»

    Presi  la bandoliera di cariche esplosive per il mio fucile subacqueo.

    Ce n'erano dodici,  e ne avrei volute di più mentre mi  assicuravo  la

    bandoliera  alla  coscia.  Ogni  testa  era filettata per avvitarsi su

    un'asta da tre metri.  Conteneva una carica  esplosiva  equivalente  a

    quella  di  un  proiettile  di carabina calibro 12 e potevo sparare la

    carica con un grilletto sul manico.  Era un'arma efficace  contro  gli

    squali.

    Chubby  mi  issò  sul  dorso uno dei respiratori e agganciò la cinghia

    mentre Angelo  s'inginocchiava  davanti  a  me  per  assicurarmi  alle

    caviglie  le  tavolette di repellente per gli squali,  nei contenitori

    perforati di plastica.

    «Mi servirà un'altra cintura zavorrata» spiegai «e ho perso una pinna.

    Ce n'è un paio di riserva nel...» Non terminai  la  frase.  Un  dolore

    bruciante, intollerabile, mi colpì al gomito del braccio menomato. Uno

    spasimo così atroce che gridai forte e il braccio scattò,  chiudendosi

    come  la  lama  di  un  coltello  a  serramanico.   Era  una  reazione

    involontaria, la giuntura si piegava per effetto della pressione delle

    bollicine nel sangue, che schiacciava nervi e tendini.

    «E'  l'embolia»  scattò  Chubby.  «Santa  Vergine,  è  la malattia dei

    cassoni.» Balzò ai motori e li  azionò  avvicinandosi  alla  barriera.

    «Presto, Angelo» gridò «dobbiamo calarlo di nuovo giù.»

    Il dolore colpì ancora, una terribile morsa ardente alla gamba destra.

    Il  ginocchio mi si piegò sotto e piagnucolai come un neonato.  Angelo

    mi assicurò alla vita la cintura zavorrata e mi infilò la  pinna  alla

    gamba paralizzata.

    Chubby  spense  i  motori  e  accostammo  sottovento  al  riparo della

    barriera,  mentre  lui  tornava  strisciando  fino  al  banco  dov'ero

    accasciato. Si chinò su di me per infilarmi fra le labbra il boccaglio

    e aprire le valvole delle bombole.

    «Okay?» chiese, e io aspirai l'aria e annuii.

    Chubby  si sporse oltre la fiancata e scrutò in fondo alla fossa.  «Va

    bene» grugnì «lo squalo è a spasso.»

    Mi sollevò come un bambino,  perché avevo perso l'uso  del  braccio  e

    della gamba, e mi calò in acqua fra la barca e la barriera.

    Angelo agganciò alla mia cintura il respiratore in più per Sherry, poi

    mi passò il fucile e io mi augurai di non lasciarlo cadere.

    «Va'  a  portar via di lì la signorina Sherry» ordinò Chubby,  e io mi

    lasciai andare all'indietro con un salto goffo e m'immersi.

    Anche fra i crampi terribili il mio primo pensiero fu  di  cercare  le

    sinistre sagome lucenti degli squali Morte bianca. Ne vidi uno, ma era

    giù,  fra  il branco di Albacore che si muovevano goffi.  Tenendomi al

    riparo della barriera,  scalciai e mi contorsi per scendere,  come una

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    pulce  d'acqua  mutilata.  A diciotto metri dalla superficie il dolore

    cominciò ad attenuarsi.  La rinnovata pressione dell'acqua ridusse  il

    volume  delle  bollicine  nel  sangue,  le gambe si raddrizzarono e ne

    recuperai l'uso.

    Scesi più veloce e il  sollievo  fu  rapido  e  benedetto.  Sentii  un

    coraggio  e  una  sicurezza  nuovi  scacciare  la disperazione di poco

    prima. Avevo aria e un'arma. Ora avevo una possibilità di combattere.

    Ero a una trentina di metri,  in vista del fondo.  Scorsi le bollicine

    di  Sherry  levarsi  dagli  abissi  di  un  blu  fumoso  e la vista mi

    confortò.  Respirava ancora e io avevo un respiratore pieno  per  lei.

    Non dovevo fare altro che portarglielo.

    Uno dei grossi Albacore mi vide mentre scivolavo lungo la parete scura

    e  virò  verso  di  me.  Già  rimpinzato  di cibo,  ma insaziabilmente

    affamato,  mi venne incontro con il suo orribile sorriso,  agitando la

    coda larga.

    Io  arretrai  e rimasi sospeso nell'acqua,  fronteggiandolo.  Avevo il

    fucile con la testa esplosiva puntata contro di lui e  mentre  agitavo

    piano  le  pinne per tenermi pronto intorno a me si diffusero come una

    nuvola fiotti di tintura azzurra delle tavolette repellenti.

    Lo squalo si avvicinò e io presi la  mira  per  colpirlo  proprio  sul

    muso,  ma  appena  la testa e le branchie entrarono in contatto con le

    nuvole di tintura azzurra, si allontanò con una piroetta,  agitando la

    coda  scosso  e  costernato.  L'acetato  di rame gli aveva bruciato le

    branchie e gli occhi, costringendolo a battere in ritirata.

    "Alla faccia tua, Chubby Andrews!" pensai. "Funzionano."

    Ripresi la discesa,  sfiorando le cime della foresta di bambù,  e vidi

    Sherry  ancora  rannicchiata  nel portello,  a nove metri di distanza.

    Aveva esaurito le sue bombole e usava le mie,  ma dal volume  e  dallo

    scarso  flusso di bollicine potevo dedurre che le restavano solo pochi

    secondi d'aria.

    Scattai verso di lei,  staccandomi dalla scogliera...  e solo  i  suoi

    frenetici  segnali  con  la  mano  mi avvertirono.  Mi volsi e vidi lo

    squalo arrivare,  simile a una lunga torpedine  azzurra.  Sfiorava  le

    cime  del  bambù  e  da  un angolo delle mascelle gli pendeva un pezzo

    sfilacciato di  carne.  Aprì  quell'ampia  mascella  per  ingoiare  il

    boccone  e  le file di zanne luccicarono bianche,  come i petali di un

    fiore osceno.

    Lo  affrontai  mentre  caricava,  ma  nello  stesso  tempo  mi  gettai

    all'indietro, scalciando con le pinne nella sua direzione per stendere

    fra noi una spessa cortina fumogena di tintura azzurra.

    Spinto da violente sferzate della coda lo squalo filò come una freccia

    negli ultimi metri,  ma poi incontrò la tintura e guizzò,  deviando la

    direzione della carica per allontanarsi.

    Mi passò tanto vicino che la coda mi  vibrò  un  pesante  colpo  sulla

    spalla,  mandandomi a capitombolare all'indietro.  Per qualche secondo

    persi l'orientamento, ma appena ripresi l'equilibrio e guardai in giro

    freneticamente scoprii che il grande squalo mi girava intorno.

    Descriveva un circolo intorno a me,  a una decina di metri,  e ai miei

    occhi  eccitati  sembrava  lungo  come  una nave da guerra e azzurro e

    vasto come un cielo estivo.  Sembrava  impossibile  che  questi  pesci

    potessero  diventare  grossi  almeno  il doppio.  Questo era ancora un

    neonato... ringraziai il cielo per questo.

    A un tratto il fucile subacqueo in cui avevo riposto tanta fiducia  mi

    parve  futile:  lo squalo mi osservava con un freddo occhio giallo sul

    quale la pallida membrana nictitante si abbassava ogni tanto di scatto

    in una strizzatina sardonica,  e una volta  aprì  le  mascelle  in  un

    singulto convulso, quasi pregustando il sapore della mia carne.

    Continuò  a  descrivere  quegli  ampi  circoli veloci,  e io sempre al

    centro mi voltavo con lui e agitavo freneticamente le pinne per tenere

    testa al suo movimento agile e senza sforzo.

    Girando sganciai dalla cintura il respiratore di riserva, me lo appesi

    a tracolla sulla spalla sinistra come lo scudo di un legionario romano

    e m'infilai sotto il braccio il fucile  subacqueo,  tenendo  la  punta

    rivolta contro il mostro.

    Tutto  il mio corpo fremeva per effetto del fiotto caldo di adrenalina

    che scorreva nel mio circolo  sanguigno  e  i  miei  sensi  ne  furono

    potenziati  e  affinati...  l'acuta sensazione di paura,  intensamente

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    piacevole, di cui un uomo può diventare schiavo.

    Ogni dettaglio del pesce assassino s'impresse  nella  mia  memoria  in

    modo  indelebile,  dal lieve pulsare delle branchie multiple dietro la

    testa al lungo strascico di pesci remora attaccati con le ventose alla

    liscia superficie bianca del ventre.  Con un pesce di  quella  taglia,

    tentare  un  colpo al muso con le cariche esplosive del fucile avrebbe

    significato soltanto farlo inferocire di più.  L'unica possibilità era

    mirare al cervello.

    Riconobbi  il  momento  in  cui il disgusto dello squalo per la nebbia

    azzurra di repellente fu sopraffatto dalla fame e  dalla  collera.  La

    coda parve irrigidirsi e vibrò una serie di rapidi colpi aumentando di

    scatto la velocità.

    Mi feci forza,  sollevando il respiratore di ricambio per proteggermi,

    e lo squalo si volse rigido e veloce,  rompendo  l'ampio  circolo  per

    attaccare direttamente.

    Vidi  le  mascelle  aprirsi  come  un abisso,  rivestite dalle zanne a

    cuneo,  e  al  momento  decisivo  ci  ficcai  dentro  le  due  bombole

    d'acciaio.

    Lo squalo chiuse le mascelle sull'esca e me la strappò di mano, mentre

    l'impatto  dell'attacco  mi  scagliava  di lato come una foglia morta.

    Quando mi ripresi guardai freneticamente  intorno  e  scoprii  che  la

    morte  bianca  era a sei metri e si muoveva lentamente,  azzannando le

    bombole d'acciaio come un cucciolo mastica una pantofola.

    Scuoteva la testa con il movimento istintivo che strappa brandelli  di

    carne  alla  vittima,  ma  che  ora infliggeva solo graffi profondi al

    metallo verniciato del respiratore.

    Questa era l'occasione,  la mia sola e unica  possibilità.  Scalciando

    forte  guizzai  sopra  l'ampio  dorso  azzurro  sfiorando l'alta pinna

    dorsale e piombai su di lui, mirando al suo punto cieco come un pilota

    da caccia che attacca in picchiata.

    Protesi il fucile,  appoggiai con fermezza la punta sul cranio azzurro

    ricurvo,  proprio in mezzo a quegli occhi freddi e gialli,  e premetti

    il grilletto a molla.

    Il colpo partì con uno schiocco che mi ferì  i  timpani  e  il  fucile

    sobbalzò forte fra le mie mani.

    Lo  squalo  s'impennò  come un cavallo imbizzarrito e ancora una volta

    fui sbalzato di lato,  ma mi ripresi in tempo per osservarlo cadere in

    preda  a  una  terribile frenesia.  I muscoli sotto la pelle liscia si

    contraevano e guizzavano obbedendo agli impulsi disordinati emessi dal

    cervello danneggiato e lo squalo roteava e si tuffava,  si  rovesciava

    selvaggiamente,  sfrecciava  in  giù  per urtare con il muso contro il

    fondo roccioso della fossa, poi si rizzava sulla coda e si lanciava in

    parabole senza meta nelle acque azzurre.

    Continuando a osservarlo a  rispettosa  distanza,  smontai  la  carica

    esplosa e la sostituii con una nuova.

    La  morte  bianca aveva ancora la riserva d'aria di Sherry stretta fra

    le mascelle.  Non potevo lasciargliela.  Seguii prudentemente  le  sue

    evoluzioni  violente e imprevedibili e quando alla fine rimase librato

    per un attimo a testa in giù, sospeso alle ampie curve della coda, gli

    premetti di nuovo sul cranio la carica esplosiva, puntandola con forza

    contro la cupola cartilaginosa in modo che  l'impatto  dell'esplosione

    si ripercuotesse in pieno sul minuscolo cervello.

    Sparai, e lo squalo s'irrigidì. Non si mosse più, ma sempre irrigidito

    si  rovesciò  lentamente e cominciò a sprofondare verso il fondo della

    fossa.  Io mi avvicinai con un guizzo e gli strappai dalle mascelle il

    respiratore danneggiato.

    Vidi subito che i tubi dell'aria erano stati squarciati e lacerati dai

    denti dello squalo, ma le bombole erano solo graffiate.

    Portando  con me il respiratore scattai fra le cime dei bambù verso il

    relitto.  Dal portello non si levavano più bolle d'aria  e  appena  mi

    avvicinai  vidi  che Sherry aveva scartato l'ultima coppia di bombole.

    Erano vuote, e lei stava morendo lentamente.

    Eppure,  anche negli spasimi della lenta asfissia non aveva  fatto  il

    tentativo  fatale  di salire in superficie.  Mi aspettava,  scivolando

    lentamente nella morte ma confidando in me.

    Appena scesi accanto a lei,  mi sfilai il boccaglio e glielo porsi.  I

    suoi  movimenti erano lenti e privi di coordinazione.  Il boccaglio le

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    sfuggì di mano e galleggiò in alto,  sprigionando un torrente  d'aria.

    Io  lo  afferrai  e  glielo  spinsi  in  bocca,  tenendolo fermo e nel

    contempo abbassandomi leggermente  sotto  di  lei  per  facilitare  il

    flusso dell'aria.

    Sherry cominciò a respirare. Il suo torace si sollevava e si abbassava

    in  lunghe,  profonde  sorsate  d'aria preziosa e quasi subito la vidi

    riprendere forza e lucidità.  Soddisfatto,  mi dedicai a smontare  una

    valvola di alimentazione da uno dei respiratori esauriti, usandola per

    sostituire quella danneggiata dallo squalo.

    Lo usai per mezzo minuto prima di assicurare l'apparecchio alle spalle

    di Sherry e recuperare il mio boccaglio.

    Ormai  avevamo  aria  a  sufficienza  per superare il lungo periodo di

    lenta decompressione che ci aspettava. M'inginocchiai davanti a Sherry

    e lei mi rivolse un  sorriso  forzato,  sollevando  il  pollice  verso

    l'alto,  e io le ricambiai il gesto. "Tutto a posto", pensai smontando

    dal fucile la carica e sostituendola con una  presa  dalla  bandoliera

    sulla coscia.

    Poi  ancora  una  volta,  dal  riparo  del  portello,  sbirciai  in su

    nell'acqua libera della fossa.

    Dato che la riserva di pesci morti si era esaurita anche il branco  di

    squali sembrava disperso.  Vidi un paio di goffe sagome scure ancora a

    caccia nelle acque infette,  ma  la  loro  frenesia  era  scemata.  Si

    muovevano  con  maggiore  calma e mi sentii più tranquillo nel portare

    fuori Sherry adesso.

    Le presi la mano e fui sorpreso di sentirla così piccola e fredda,  ma

    lei rispose al mio gesto con una stretta delle dita.

    Indicai  la  superficie  e  lei  annuì.  La  guidai fuori del portello

    scivolando sotto lo scafo e protetti  dal  bambù  puntammo  in  fretta

    verso il riparo della barriera.

    Fianco a fianco,  tenendoci ancora per mano con le spalle alla parete,

    risalimmo lentamente dalla fossa

    La luce aumentava e alzando gli occhi scorsi in alto la baleniera.  Il

    mio morale salì.

    A diciotto metri mi fermai un minuto per cominciare la decompressione.

    Un  grosso  vecchio  Albacore  ci  superò,  maculato e pezzato come un

    maiale,  ma non ci prestò attenzione e io abbassai  il  fucile  mentre

    svaniva in lontananza fra la nebbia.

    Salimmo  lentamente  per  la sosta seguente di decompressione a dodici

    metri, dove restammo per due minuti,  lasciando evaporare gradualmente

    attraverso i polmoni l'azoto accumulato nel sangue. Poi su a sei metri

    per la sosta successiva.

    Sbirciai nella maschera di Sherry e lei roteò gli occhi; evidentemente

    stava  recuperando  coraggio e faccia tosta.  Ora sarebbe andato tutto

    bene. Eravamo quasi arrivati... solo dodici minuti.

    La baleniera era tanto vicina che sembrava di poterla toccare  con  il

    fucile. Riuscivo quasi a distinguere le facce brune di Chubby e Angelo

    sospese oltre la fiancata, mentre aspettavano ansiosi che emergessimo.

    Distolsi lo sguardo da loro, perlustrando attentamente l'acqua intorno

    a  noi.  All'estremità  del  mio  campo  visivo,  dove  la  nebbiolina

    dell'acqua sfumava nel blu compatto, vidi muoversi qualcosa.  Era solo

    il  sospetto  di  un'ombra,  svanita prima che potessi vederla,  ma mi

    sentii riafferrare da un fremito di paura e di apprensione.

    Rimasi sospeso nell'acqua,  di nuovo all'erta,  in attesa,  mentre gli

    ultimi minuti si trascinavano lentamente come insetti morenti.

    L'ombra  passò di nuovo stavolta netta,  un movimento rapido e mortale

    che non mi lasciò dubbi: non era uno squalo Albacore.  Era  la  stessa

    differenza  che  corre  fra  l'ombra  della  jena  in agguato nel buio

    intorno al fuoco da campo e quella del leone a caccia.

    A un tratto fra le cortine  d'acqua  di  un  blu  nebbioso  arrivò  il

    secondo  squalo  Morte bianca.  Planò rapido e silenzioso,  passando a

    quindici metri di distanza come se  ci  ignorasse  e  proseguendo  fin

    quasi  ai  limiti  del  nostro campo visivo per poi girare di scatto e

    ripassare ancora,  come un animale in gabbia che fa avanti e  indietro

    fra le sbarre.

    Sherry si strinse a me e io liberai la mano dalla stretta frenetica in

    cui l'aveva imprigionata. Ora mi servivano tutt'e due le mani.

    Al  passaggio seguente lo squalo cambiò lo schema dei suoi movimenti e

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    cominciò a descrivere gli ampi circoli che precedono sempre l'attacco.

    Girava e girava senza posa,  con  quell'occhio  giallo  pallido  fisso

    voracemente su di noi.

    A  un tratto la mia attenzione fu distratta dalla lenta discesa di una

    dozzina di contenitori di  plastica  blu  della  sostanza  repellente.

    Vedendoci  in  difficoltà,  Chubby  doveva  aver  vuotato  fuori bordo

    l'intera cassetta.  Uno mi passò abbastanza vicino  da  afferrarlo  al

    volo e tenderlo a Sherry.

    In  mano  a  lei  sprigionò  una  cortina azzurra e io riportai la mia

    attenzione sullo squalo.  Si era ritratto un po' fiutando la  tintura,

    ma  descriveva  ancora  dei  rapidi circoli fissandoci col suo sorriso

    ripugnante.

    Guardai l'orologio: ancora tre  minuti  per  la  salvezza,  ma  potevo

    arrischiarmi  a mandare su Sherry anche prima.  A differenza di me lei

    non aveva già avuto un principio di embolia,  probabilmente le bastava

    un minuto o due per essere al sicuro.

    Lo  squalo  restrinse  il  circolo  serrandoci  sempre  più dappresso.

    Vicino...  tanto vicino che guardai  in  fondo  alla  pupilla  nera  e

    sporgente dell'occhio e vi lessi le sue intenzioni.

    Guardai  l'orologio.  Ce  l'avremmo  fatta  per un pelo,  ma decisi di

    mandare su Sherry.  Le battei sulla spalla e indicai  con  urgenza  la

    superficie.  Esitò,  ma  le  battei  di  nuovo  sulla spalla e ripetei

    l'ordine.

    Lei cominciò a salire, lentamente, secondo le regole,  ma le sue gambe

    penzolavano  invitanti.  Lo squalo mi lasciò e salì pian piano a tempo

    con lei, seguendola.

    Sherry lo vide e cominciò a salire più in fretta,  e lo  squalo  puntò

    verso  di  lei.  Adesso ero sotto di loro e mi spostai di lato proprio

    nell'attimo che lo squalo assunse l'atteggiamento  rigido  della  coda

    che segnala l'inizio dell'attacco.

    Gli  ero  sotto  quando  si volse per azzannare Sherry.  Mi avvicinai,

    appoggiai la punta del fucile contro la gola  morbida  e  premetti  il

    grilletto.

    Vidi  la  scossa ripercuotersi nella carne bianca e gonfia e lo squalo

    rinculò con un colpo convulso di coda.  Scattò  in  alto  e  sbucò  in

    superficie,  balzando  su  allo scoperto e ricadendo di schianto in un

    ribollire di schiuma.

    Prese subito a roteare e a librarsi in cerchi  folli,  come  se  fosse

    tormentato da uno sciame di api. Le mascelle si aprirono e si chiusero

    più volte di scatto.

    Divorato  da  una  terribile  ansia,   osservai  Sherry  mantenere  la

    disciplina mentale e salire senza fretta verso la baleniera.  Un  paio

    di  enormi  zampe  brune  erano  protese  attraverso la superficie per

    accoglierla. Mentre guardavo, giunse alla loro altezza.  Le dita scure

    si  chiusero  su  di  lei  come  benne  d'acciaio  e  la risucchiarono

    dall'acqua con forza prodigiosa.

    Ora potevo concentrare tutta la mia attenzione sul problema di restare

    in vita nei prossimi minuti prima di poterla seguire. Lo squalo pareva

    si fosse ripreso dallo choc dell'esplosione e aveva sostituito le  sue

    folli evoluzioni sfrenate con il terribile movimento circolare.

    Ricominciò  con una circonferenza ampia,  riducendone costantemente il

    raggio a ogni  giro.  Lanciai  un'occhiata  all'orologio  e  vidi  che

    finalmente potevo cominciare l'ultima tappa dell'ascesa.

    Mossi  verso  l'alto  lentamente.  La  tortura dell'embolia era ancora

    fresca nella mia memoria... ma lo squalo si avvicinava sempre più.

    A  tre  metri  dalla  baleniera,  mi  fermai  di  nuovo  e  lo  squalo

    s'insospettì,   probabilmente   ricordando   la   recente  esplosione.

    Interruppe il movimento circolare e restò immobile nell'acqua  chiara,

    sospeso  sulle ampie ali appuntite delle pinne pettorali.  Ci fissammo

    negli occhi a una distanza di quattro metri e mezzo e mi  accorsi  che

    il bestione azzurro si stava preparando all'assalto finale.

    Impugnai  il  fucile  tendendo il braccio al massimo e pian piano,  in

    modo da non farlo scattare,  nuotai verso  di  lui  finché  la  carica

    esplosiva  fu a un paio di centimetri dalle fessure delle narici sotto

    il muso.

    Premetti il grilletto e lui indietreggia, scosso dall'esplosione della

    carica.  Piroettò allontanandosi in un'ampia  curva  e  io  mollai  il

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    fucile e mi lanciai in superficie.

    Era  furioso  come un leone ferito,  aizzato dai colpi ricevuti,  e mi

    caricò col dorso ingobbito,  massiccio come una montagna azzurra e  le

    ampie  mascelle  spalancate.  Sapevo  che  stavolta  non c'era modo di

    stornarlo, solo la morte l'avrebbe fermato.

    Schizzando in superficie vidi le  mani  di  Chubby  protese,  le  dita

    simili  a  un  casco  di  banane  scure,  e in quel momento lo adorai.

    Sollevai sopra la testa il braccio destro tendendolo  verso  Chubby  e

    mentre  lo  squalo  superava di scatto i pochi metri che ci separavano

    sentii le sue dita stringersi sul mio polso.

    Poi l'acqua esplose intorno a me.  Sentii la spinta enorme sul braccio

    e  lo  scroscio  potente  dell'acqua  quando  la massa dello squalo la

    fendette.  Mi ritrovai supino sul  ponte  della  baleniera,  strappato

    dalle mascelle di quel terribile animale.

    «Che  bei cagnolini hai,  Harry» disse Chubby,  con un tono disinvolto

    che riconobbi forzato, e mi guardai intorno cercando Sherry.

    «Stai bene?» le gridai,  scorgendola a poppa bagnata  e  pallida.  Lei

    annuì; dubitavo che potesse parlare.

    Sganciai la fibbia di sicurezza della cinghia, alleggerendomi del peso

    del respiratore.

    «Chubby,  prepara un candelotto di gelatina» esclamai,  liberandomi di

    maschera e pinne e sbirciando oltre la fiancata della baleniera.

    Lo squalo non ci mollava,  girava intorno  alla  baleniera  inferocito

    dalle ferite e dalla frustrazione.  Affiorò mostrando la pinna dorsale

    in tutta la sua lunghezza.  Sapevo che poteva facilmente  attaccare  e

    sfondare il fasciame della barca.

    «Oh,  Dio,  Harry,  è  orribile.»  Sherry ritrovò finalmente la voce e

    capii come si sentiva.  Io odiavo  quel  pesce  disgustoso  con  tutta

    l'intensità   del   mio   terrore   recente...   ma  dovevo  distrarlo

    dall'attacco diretto.

    «Angelo, dammi quella murena e un coltello da esche» gridai,  e lui mi

    tese  il freddo corpo viscido.  Io tagliai un pezzo di carne da cinque

    chili e lo lanciai in acqua.

    Lo squalo guizzò e si lanciò sul brandello, ingoiandolo e sfiorando lo

    scafo della baleniera mentre passava vicino. Rollammo violentemente al

    suo passaggio.

    «Svelto,  Chubby» gridai,  lanciando allo squalo un altro boccone.  Lo

    prese  al  volo  come  un cane affamato,  sfrecciando sotto lo scafo e

    urtandolo di nuovo, tanto che la barca oscillò sgradevolmente e Sherry

    strillò aggrappandosi al capo di banda.

    «Pronto» disse  Chubby,  e  io  gli  passai  un  trancio  di  sessanta

    centimetri della murena con la cavità vuota del ventre aperta come una

    borsa.

    «Mettici dentro il candelotto e legalo» gli ordinai,  e lui comincio a

    sorridere.

    «Ehi, Harry» ridacchiò «mi piace.»

    Mentre nutrivo il mostro con i rimasugli della murena,  Chubby legò il

    candelotto di gelignite in un bel pacchetto di carne di murena, con il

    filo isolato di rame che sporgeva. Me lo passò.

    «Inserisci  i  contatti»  ordinai,  avvolgendo una dozzina di volte il

    filo intorno alla mano sinistra.

    «Pronto a sparare» sogghignò Chubby,  e io lanciai il fagotto di carne

    ed esplosivo sul percorso dello squalo.

    Corse  ad  afferrarlo  e  il dorso azzurro lucente sbucò in superficie

    mentre ingoiava l'offerta. Subito il filo cominciò a scorrere sopra la

    fiancata e io ne svolsi altro dal rocchetto.

    «Lascia che lo mandi giù» dissi io, e Chubby annuì gongolando.

    «Okay, Chubby,  spedisci quel bastardo all'inferno» ringhiai mentre il

    pesce affiorava,  la pinna sollevata,  e ci girava intorno in circolo,

    con il filo di rame penzolante dall'angolo della bocca.

    Chubby premette il pulsante e lo squalo esplose in uno spruzzo alto di

    spuma rosa,  come un'anguria,  mentre il sangue pallido  si  mescolava

    alla carne più scura e al contenuto purpureo del ventre,  sprizzando a

    quindici metri d'altezza e schizzando sulla fossa e  sulla  baleniera.

    La   carcassa   dilaniata   ondeggiò  in  superficie  come  un  tronco

    sanguinolento, poi si rovesciò e cominciò a sprofondare.

    «Addio, squalo» gridò Angelo, e Chubby sorrise come un cherubino.

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    «Andiamo a casa» dissi io,  perché la risacca cominciava a  scavalcare

    la barriera e stavo per dare di stomaco.

    Comunque,  il  mio malessere reagì miracolosamente a un trattamento di

    whisky Chivas  Regal,  sia  pure  bevuto  da  una  tazza  smaltata,  e

    parecchio  tempo dopo,  nella caverna,  Sherry mi disse: «Immagino che

    vorrai essere ringraziato per avermi salvato la vita,  e  idiozie  del

    genere...».

    Io le sorrisi e le aprii le braccia.  «No, tesoro, dimostrami soltanto

    la tua gratitudine» al che lei obbedì, e più tardi nessun incubo venne

    a turbare il mio sonno, perché ero esausto nel corpo e nello spirito.

    Penso che tutti noi cominciassimo a considerare la  fossa  di  Gunfire

    Break con timore superstizioso.  La serie di incidenti e disgrazie che

    ci aveva colpito appariva ai nostri occhi  come  il  risultato  di  un

    deliberato piano malefico.

    Ogni  volta che tornavamo alla fossa,  pareva che il suo aspetto fosse

    diventato più sinistro e l'aura minacciosa che la circondava si  fosse

    accentuata.

    «Lo sai che cosa penso?» disse Sherry,  ridendo,  ma non del tutto per

    scherzo.  «Credo che gli  spiriti  dei  principi  mongoli  assassinati

    abbiano  seguito  il tesoro per fargli da guardiani...» Anche col sole

    negli occhi vidi le espressioni sui volti di Angelo e  Chubby.  «Penso

    che  gli  spiriti fossero in quei due grossi squali che abbiamo ucciso

    ieri.» Chubby fece la faccia  di  chi  ha  mangiato  a  colazione  una

    dozzina di ostriche guaste, sbiancò fino ad assumere un colorito bruno

    giallastro  e  lo  vidi  abbozzare  un  gesto di scongiuro con la mano

    destra.

    «Signorina Sherry» intervenne severo Angelo «non deve  parlare  così.»

    Gli  vedevo  la  pelle  d'oca  sulle braccia.  Lui e Chubby avevano un

    attacco di paura superstiziosa.

    «Sì, piantala» convenni.

    «Stavo scherzando» protestò lei.

    «Bello scherzo» ribattei «ci hai fatto proprio morire dal  ridere.»  E

    restammo  tutti in silenzio durante il passaggio del canale finché non

    prendemmo posizione al riparo della barriera.

    Io ero seduto a prua e quando tutti e tre  mi  guardarono  vidi  dalle

    loro espressioni che mi ritrovavo sulle braccia una crisi di morale.

    «Scendo da solo» annunciai, e si sentì un piccolo respiro di sollievo.

    «Vengo con te» si offrì Sherry.

    «Più tardi» acconsentii «ma prima voglio controllare se ci sono squali

    e recuperare l'attrezzatura che abbiamo perso ieri.»

    Scesi  con  cautela,  restando  sospeso cinque minuti proprio sotto la

    barca,  per scrutare gli abissi della fossa in cerca di quelle maligne

    sagome scure, e poi scendendo piano.

    Fra le ombre più profonde l'acqua era fredda e spettrale,  ma vidi che

    la marea notturna aveva ripulito la fossa e risucchiato in mare  tutte

    le  carogne e il sangue che il giorno prima avevano attirato il branco

    di squali.  Non c'era la minima traccia delle  carcasse  degli  squali

    Morte  bianca  e gli unici pesci che vidi erano i banchi fittissimi di

    multicolori ospiti del corallo.  Un luccichio d'argento  in  basso  mi

    guidò verso il fucile che avevo abbandonato nella furia di raggiungere

    la  barca  e  trovai i respiratori vuoti e la valvola di alimentazione

    danneggiata nel portello dove li avevamo lasciati.

    Emersi con il carico e per la prima volta ci furono sorrisi fra il mio

    equipaggio quando riferii che la fossa era pulita.

    «D'accordo» dissi approfittando  della  schiarita  «Oggi  apriremo  la

    stiva.»

    «Vuoi entrarci attraverso lo scafo?» chiese Chubby.

    «Ci  ho  riflettuto,  ma  ho  calcolato  che  ci vorrebbero un paio di

    cariche potenti per entrare da quella parte.  Ho deciso  di  penetrare

    nel  pozzo  dal  ponte dei passeggeri.» Feci uno schizzo sulla lavagna

    mentre spiegavo.  «Il carico si sarà spostato,  dev'essere accatastato

    alla  rinfusa  proprio  oltre  quella  paratia  e una volta aperto qui

    potremo tirarlo fuori pezzo per pezzo dalla scaletta del boccaporto.»

    «C'è un bel tratto da lì fino al portello.» Chubby sollevò il berretto

    e si grattò pensoso la testa calva.

    «Monterò un piccolo bozzello con un paranco alla  scaletta  del  ponte

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    dei cannoni e un altro al portello.»

    «Un sacco di lavoro.» Chubby aveva l'aria triste.

    «E' la prima volta che sei d'accordo con me... comincio a preoccuparmi

    di sbagliare.»

    «Non  ho  detto  che avevi torto» ribatté rigido Chubby «ho detto solo

    che era un sacco di lavoro.  Non puoi lasciar trasportare  bozzello  e

    paranco alla signorina Sherry, dico bene?»

    «No»  ammisi.  «Ci  vuole un tipo coi muscoli» e tastai il suo stomaco

    sporgente duro come una roccia.

    «E' proprio come pensavo» disse lugubre Chubby. «Vuoi che mi prepari?»

    «No» lo fermai.  «Per ora può venire  Sherry  con  me  a  piazzare  le

    cariche.»  Volevo  mettere alla prova i suoi nervi dopo gli orrori del

    giorno  prima.   «Apriremo  il  pozzo  e  poi  andremo  a  casa.   Non

    ricominceremo  a  lavorare  subito dopo l'esplosione.  Daremo il tempo

    alla marea di ripulire la fossa dai pesci morti prima di  scendere  di

    nuovo. Non voglio una replica di ieri.»

    Scivolammo  dentro  dal portello e seguimmo il cavo guida di nylon che

    avevamo disposto  nella  nostra  prima  visita,  lungo  il  ponte  dei

    cannoni, su per la scaletta di boccaporto fino al ponte dei passeggeri

    e  poi  attraverso  il lungo tunnel fino al vicolo cieco della paratia

    del pozzo di prua.  Mentre Sherry mi reggeva la  torcia,  cominciai  a

    scavare  un  foro  nella  parete  divisoria col trapano a manubrio che

    avevo portato dalla superficie.  Era scomodo lavorare senza  un  punto

    d'appoggio  solido,  ma  i  primi tre centimetri furono una bazzecola.

    Questo strato di legno era marcito fino  ad  assumere  la  consistenza

    morbida del sughero, ma più in là incontrai una tavola di quercia dura

    come il ferro e dovetti rinunciare. Ci avrei impiegato una settimana.

    Non  potendo  introdurre  l'esplosivo  nei  fori già preparati,  avrei

    dovuto usare una carica  più  potente  di  quanto  volessi  e  contare

    sull'effetto  tunnel  del corridoio per produrre una scossa secondaria

    che proiettasse il pannello all'interno.  Usai sei mezzi candelotti di

    gelignite,  disponendoli  agli angoli e al centro della paratia,  e li

    assicurai a sbarrette inserite nel legname con un martello.

    Impiegai quasi mezz'ora  a  predisporre  l'esplosione  e  dopo  fu  un

    sollievo  lasciare  i  confini  angusti del vecchio scafo per risalire

    attraverso acque limpide  e  pulite  fino  alla  superficie  argentea,

    tirandoci dietro i fili isolati.

    Chubby  fece  brillare le cariche mentre ci toglievamo il respiratore.

    La scossa fu attutita dallo scafo del relitto, tanto che in superficie

    l'avvertimmo appena.

    Subito dopo lasciammo la fossa e tornammo a casa,  con il morale  alle

    stelle per la prospettiva di una giornata di ozio,  mentre aspettavamo

    che la marea ripulisse la fossa dalle carcasse dei pesci morti.

    Nel pomeriggio Sherry e io  andammo  a  fare  un  picnic  sulla  punta

    meridionale  dell'isola.  Come  provviste  prendemmo  un fiasco da due

    litri di "vino verde" portoghese,  ma per accompagnarlo  pescammo  una

    retina di grossi molluschi,  che io avvolsi nelle alghe e seppellii di

    nuovo nella sabbia.  Sopra accesi un fuoco alimentato coi  detriti  di

    legname della riva. ~

    Quando  il  vino  fu  quasi  finito,  il  sole  stava  tramontando e i

    molluschi erano cotti a puntino.  Il vino,  il  cibo  e  lo  splendido

    tramonto  ebbero l'effetto di intenerire Sherry North.  Fece gli occhi

    dolci e languidi come quelli di una gazzella e  quando  alla  fine  il

    tramonto  sfumò,  lasciando  il  passo  a  una  grossa  luna gialla da

    innamorati, tornammo a casa camminando a piedi nudi sulla sabbia.

    La mattina dopo Chubby e io lavorammo per mezz'ora a portare giù dalla

    baleniera l'attrezzatura che ci serviva,  accatastandola sul ponte del

    relitto prima di poter penetrare più a fondo nello scafo.

    Le  potenti  cariche  che  avevo  sistemato contro la parete del pozzo

    avevano prodotto il  parapiglia  che  temevo.  Avevano  squarciato  le

    tavole e sfondato le pareti delle cabine dei passeggeri,  bloccando il

    passaggio per un quarto della lunghezza.

    Trovammo un buon punto di ancoraggio per la carrucola e mentre  Chubby

    la montava lo lasciai per spostarmi nella cabina più vicina. Puntai la

    pila attraverso i pannelli sfondati.  L'interno,  come tutto il resto,

    era incrostato da uno spesso strato di vegetazione marina,  ma riuscii

    a distinguere la forma dei semplici mobili al di sotto.

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    M'introdussi  nel  varco  e  mi  mossi  lentamente attraverso il ponte

    ingombro,   affascinato  dagli  oggetti  che  trovai  sparpagliati   e

    ammucchiati  nella cabina.  C'erano vasi di porcellana e ceramica;  un

    catino in frantumi e  un  magnifico  vaso  da  notte  con  un  disegno

    floreale   rosa   che  traspariva  attraverso  il  velo  di  sedimenti

    accumulati.  C'erano vasetti di  cosmetici  e  bottiglie  di  profumo,

    oggetti  metallici  irriconoscibili  più piccoli e cumuli di materiale

    amorfo e  indefinibile  che  poteva  essere  stato  tessuto,  tende  o

    materassi e coperte.

    Guardai  l'orologio  e  vidi  che  era ora di salire in superficie per

    cambiare le bombole.  Mentre mi voltavo,  un piccolo oggetto  quadrato

    attirò   la  mia  attenzione  e  vi  diressi  il  raggio  della  pila,

    strofinandolo piano per liberarlo dallo spesso strato  di  fanghiglia.

    Era  una  cassetta  di legno delle dimensioni di una radio portatile a

    transistor,  ma il coperchio era finemente intarsiato di madreperla  e

    tartaruga.  La  presi  e  me la ficcai sotto il braccio.  Chubby aveva

    finito di montare bozzello e  paranco  e  mi  aspettava  accanto  alla

    scaletta  del ponte.  Quando affiorammo accanto alla baleniera tesi la

    cassetta ad Angelo prima di arrampicarmi a bordo.

    Mentre Sherry ci versava il caffè e Angelo applicava le  valvole  alle

    bombole nuove, accesi un sigaro ed esaminai la scatola.

    Era  in  pessimo stato di conservazione,  lo vidi subito.  Il lavoro a

    intarsio era marcio,  il legno di rosa era  gonfio  e  distorto  e  la

    serratura e i cardini erano per metà corrosi.

    Sherry  venne  a  sedersi  accanto  a  me  sul  banco  dei rematori ed

    esaminammo la mia preda. La riconobbe subito.

    «E' il portagioie di una signora» esclamò. «Aprilo, Harry. Vediamo che

    cosa c'è dentro.»

    Infilai sotto la serratura la punta di  un  cacciavite  e  alla  prima

    pressione i cardini cedettero e il coperchio saltò.

    «Oh, Harry!» Sherry vi tuffò le mani per prima e ne estrasse una larga

    catena  d'oro e un pesante medaglione dello stesso materiale.  «Questa

    roba è di moda, oggi, non ci crederesti mai!»

    Ora tutti pescavano nella cassetta.  Angelo prese al volo un  paio  di

    orecchini d'oro e zaffiri che sostituirono subito il paio d'ottone che

    portava  abitualmente,  mentre  Chubby  scelse  un'enorme  collana  di

    granati che si  avvolse  intorno  al  collo  pavoneggiandosi  come  un

    ragazzino.

    «Per la mia signora» spiegò.

    Erano i gioielli personali di una donna del ceto medio,  probabilmente

    moglie di qualche ufficiale di grado inferiore  o  di  un  funzionario

    civile:  nessuno  aveva  un  gran valore,  ma nel suo contesto era una

    collezione affascinante.  Inevitabilmente la signorina North  fece  la

    parte  del leone,  ma io riuscii a sottrarle una semplice fede d'oro a

    fascia larga.

    «Che cosa ne vuoi fare?» mi sfidò,  restia  a  cedere  anche  un  solo

    pezzo.

    «Qualcosa  ne  farò»  le  risposi,  scoccandole  uno  dei miei sguardi

    significativi,  che andò del tutto sprecato perché lei era  tornata  a

    saccheggiare il portagioie.

    Senza  scoraggiarmi misi al sicuro l'anello nella piccola tasca chiusa

    da una lampo della mia sacca di tela. A questo punto Chubby era adorno

    di gioielli vistosi come una sposa indù.

    «Dio mio,  Chubby,  fai concorrenza a Liz Taylor»  gli  dissi,  e  lui

    accolse il complimento con un vezzoso cenno del capo.

    Fu  difficile  convincerlo a ritornare al relitto,  ma appena fummo di

    nuovo  nel  ponte  passeggeri  lavorò  come  un  gigante  nello  scafo

    squarciato.

    Sgomberammo  i  pannelli  e  le  masse  di  legname  che bloccavano il

    passaggio usando bozzello e paranco e i  nostri  sforzi  combinati,  e

    trascinammo il materiale fino al ponte dei cannoni,  accatastandolo in

    disparte in fondo a quella galleria buia.

    Quando raggiungemmo il pozzo della stiva prodiera  le  nostre  riserve

    d'aria erano quasi esaurite. Nell'esplosione il pesante tavolato aveva

    ceduto e oltre l'apertura potevamo distinguere quella che sembrava una

    massa  scura  e  compatta  di materiale.  Intuii che si trattava di un

    conglomerato  formato  dal  carico  per  effetto  del  peso  e   della

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    pressione.

    Tuttavia  fu  solo  nel  pomeriggio del giorno seguente che scoprii di

    avere ragione. Eravamo finalmente nella stiva, ma non mi ero aspettato

    che ci attendesse un compito così immane.

    Il contenuto della stiva era impregnato d'acqua da oltre un secolo. Il

    novanta per cento degli involucri era marcito  e  aveva  ceduto  e  il

    contenuto deperibile si era fuso in una massa scura e friabile.

    In  questo  mucchio compatto gli oggetti di metallo,  i contenitori di

    materiale più forte e resistente e altri oggetti non  troppo  fragili,

    grandi  e  piccoli,  erano  disseminati  come monete della fortuna nel

    pudding natalizio. Avremmo dovuto scavare per trovarli.

    A questo  punto  ci  scontrammo  con  un  nuovo  problema.  Al  minimo

    spostamento  di  questa massa putrefatta l'acqua si riempiva subito di

    un mulinello di particelle scure che oscuravano i raggi delle  pile  e

    ci  facevano piombare nel buio.  Eravamo costretti a lavorare solo col

    tatto.  I  progressi  erano  penosamente  lenti.  Quando  incontravamo

    qualche  oggetto  solido  nella  massa molle dovevamo isolarlo,  farlo

    passare lungo il corridoio,  calarlo fino al ponte dei  cannoni  e  lì

    cercare  di  identificarlo.  Se  era di scarso valore o interesse,  lo

    riponevamo in fondo al ponte per tenere sgombro il campo di lavoro.

    Alla fine del primo giorno avevamo  recuperato  solo  un  oggetto  che

    valesse  la  pena  di  issare in superficie.  Era una robusta cassa di

    legno resistente,  coperta da qualcosa che sembrava cuoio  e  con  gli

    angoli  rinforzati  in  ottone  massiccio.  Aveva  le dimensioni di un

    grosso baule da cabina.

    Era così pesante che Chubby e io non riuscimmo a sollevarla.  Il  peso

    stesso  mi  dette da sperare.  Credevo che potesse contenere con molta

    probabilità una parte del trono d'oro.  Anche se  il  contenitore  non

    pareva  uscito  dalle mani di un carpentiere di un villaggio indiano e

    dei suoi figli alla metà del diciannovesimo secolo,  c'era pur  sempre

    una possibilità che il trono fosse stato imballato nuovamente prima di

    essere spedito da Bombay.

    Se  conteneva  davvero  una parte del trono,  allora il nostro compito

    sarebbe stato semplificato.  Avremmo saputo che  tipo  di  imballaggio

    cercare  in futuro.  Usando bozzello e paranco Chubby e io trascinammo

    la cassa giù per il ponte fino al portello e lì  l'avvolgemmo  in  una

    rete di nylon per impedirle di aprirsi o rompersi durante la salita.

    Agli  occhielli praticati nella circonferenza della rete assicurammo i

    galleggianti di tela e li gonfiammo con l'aria delle nostre bombole.

    Salimmo insieme con la cassa e ne regolammo  l'ascesa  liberando  aria

    dai galleggianti o aggiungendola dalle bombole. Sbucammo in superficie

    accanto  alla  baleniera e Angelo ci passò mezza dozzina di cinghie di

    nylon con cui assicurammo la cassa prima di salire a bordo.

    Il peso della cassa rese vani i nostri sforzi per sollevarla oltre  la

    fiancata,   perché  la  baleniera  s'ingavonò  pericolosamente  quando

    facemmo un tentativo in tre.  Dovemmo issare l'albero  e  usarlo  come

    argano,  solo  allora  i  nostri sforzi combinati ebbero successo e la

    cassa approdò a bordo, versando acqua dalle connessure. Appena si posò

    sul ponte,  Chubby si precipitò ai motori.  La marea ci  incalzava  da

    vicino.

    La  cassa  era  troppo  pesante e la nostra curiosità troppo forte per

    consentirci di portarla su alle  caverne.  L'aprimmo  sulla  spiaggia,

    forzando  il  coperchio  con  un paio di piedi di porco.  La serratura

    elaborata era di ottone e aveva resistito ai danni dell'acqua di mare.

    Resistette  bravamente  anche  ai  nostri  sforzi,  ma  alla  fine  il

    coperchio  ricadde  all'indietro  con  uno  strappo  e cigolò contro i

    cardini corrosi.

    La mia delusione fu immediata, perché era chiaro che questo non era il

    trono della tigre.  Solo quando Sherry sollevò uno dei  grandi  dischi

    lucenti e lo girò con curiosità fra le mani cominciai a sospettare che

    ci fosse piovuta addosso una fortuna.

    Quello  che  Sherry  aveva in mano era un piatto di portata,  e il mio

    primo pensiero fu che era d'oro massiccio.  Ma quando ne afferrai  uno

    simile  dalla  fessura  nella  rastrelliera  abilmente  disegnata e lo

    voltai per esaminare i punzoni, mi accorsi che era argento placcato.

    La  doratura  l'aveva  protetto  dal  mare  in  modo  tale   che   era

    perfettamente  conservato,  un capolavoro di arte orafa con uno stemma

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    al centro e il bordo magnificamente sbalzato con scene di boschi e  di

    cervi, di cacciatori e di uccelli.

    Il piatto che avevo in mano pesava almeno un chilo e mezzo e quando lo

    misi  da  parte  ed  esaminai  il resto del servizio capii che il peso

    della cassa era più che giustificato.

    Il servizio era per trentasei persone e comprendeva piatti  fondi,  da

    pesce,  da  portata,  coppe  da dessert e tutta la posateria relativa.

    C'erano piatti di servizio, un magnifico scaldavivande, secchielli per

    il ghiaccio, copripiatti e un tagliere grande quasi quanto un bagnetto

    da neonati.

    Ogni pezzo era lavorato con lo stesso stemma,  le scene ornamentali di

    animali  selvaggi  e  cacciatori,  e la cassa era stata progettata per

    contenere il servizio.

    «Signore e signori» declamai «in qualità di presidente è  mio  compito

    annunciarvi,  una volta per tutte, che la nostra piccola impresa è ora

    in profitto.»

    «Ma sono solo piatti» protestò Angelo, e io feci una smorfia teatrale.

    «Mio caro  Angelo,  questo  probabilmente  è  uno  dei  pochi  servizi

    completi  di  argenteria  da  banchetto  del periodo di re Giorgio che

    esista in tutto il mondo... è di valore inestimabile.»

    «Quanto?» chiese Chubby dubbioso.

    «Oh Dio,  non lo  so.  Naturalmente  dipende  dal  fabbricante  e  dal

    proprietario  originario...  questo  stemma deve appartenere a qualche

    casato nobiliare;  un ricco nobile che prestò servizio  in  India,  un

    conte, un duca, magari un viceré.»

    Chubby   mi  guardò  come  se  cercassi  di  affibbiargli  un  cavallo

    azzoppato.

    «Quanto?» ripeté.

    «Da Sotheby, in una giornata buona» esitai «non so,  diciamo centomila

    sterline.»

    Chubby  sputò nella sabbia e scosse la testa.  Non si può far fesso il

    vecchio Chubby.

    «Questo Sotheby, dirige un manicomio?»

    «E' vero Chubby» intervenne Sherry.  «Questa roba  vale  una  fortuna.

    Potrebbe fruttare anche di più.»

    Ora Chubby era diviso fra il naturale scetticismo e la cavalleria. Non

    sarebbe stato da gentiluomo dare della bugiarda a Sherry. Raggiunse un

    compromesso sollevando il berretto e grattandosi la testa, sputando di

    nuovo senza dire niente.

    Comunque  trattò  la  cassa  con  nuovo rispetto quando la trascinammo

    attraverso le palme fino alle caverne. La sistemammo dietro la pila di

    lattine e io andai a prendere una bottiglia nuova di whisky.

    «Anche se nel relitto non c'è il trono della tigre, non ce la caveremo

    troppo male.»

    Chubby sorseggiò il suo  whisky  e  borbottò:  «Centomila  sterline...

    devono essere pazzi».

    «Dobbiamo esplorare con maggiore cura la stiva e le cabine, altrimenti

    lasceremo laggiù una fortuna.»

    «Anche i piccoli oggetti,  meno spettacolari dell'argenteria, hanno un

    valore d'antiquariato enorme» confermò Sherry.

    «Il guaio è che appena tocchi qualcosa si solleva una nebbia tale  che

    non  ci  si  vede  oltre  la punta del naso» mugugnò Chubby,  e io gli

    riempii il bicchiere per incoraggiarlo.

    «Senti,  Chubby,  ti ricordi la pompa ad acqua che  Arnie  Andrews  ha

    installato a Monkey Bay?» gli chiesi, e Chubby annuì.

    «Ce  la  presterebbe?»  Arnie era zio di Chubby.  Possedeva un piccolo

    orto sul lato meridionale dell'isola di Saint Mary.

    «Forse sì» rispose prudente Chubby. «Perché?»

    «Voglio tentare di  installare  una  draga»  spiegai,  tracciando  uno

    schizzo  nella  sabbia  fra  i miei piedi.  «Sistemiamo la pompa sulla

    baleniera  e  facciamo  arrivare  fino  al  relitto   un   tratto   di

    manichetta...  così.»  La  tratteggiai col dito.  «Poi la usiamo nella

    stiva come un aspirapolvere,  risucchiando tutta  quella  melma  e  la

    pompiamo in superficie.»

    «Ehi, è giusto» esplose entusiasta Angelo. «Quando esce dalla pompa la

    passiamo al setaccio e possiamo raccogliere tutta la roba piccola.»

    «Proprio  così.  Solo  i  rifiuti  e  gli  oggetti  piccoli  e leggeri

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    risaliranno il tubo, tutto quello che è grande o pesante resterà giù.»

    Discutemmo per un'ora perfezionando i dettagli e apportando gli ultimi

    tocchi all'idea base.  Per tutto quel tempo Chubby tentò valorosamente

    di  non  mostrare  segni  di  entusiasmo,  ma  alla  fine non poté più

    trattenersi.

    «Potrebbe funzionare» borbottò,  il che detto  da  lui  era  una  lode

    sperticata.

    «Bene,  allora dovresti andare a prendere quella pompa,  non ti pare?»

    gli chiesi.

    «Penso che dovrò bere ancora un goccio» temporeggiò lui, e io gli tesi

    la bottiglia.

    «Portala con te» suggerii. «Risparmieremo tempo.»

    Borbottò  qualcosa  di  incomprensibile  e  andò  a  prendere  il  suo

    giaccone.

    Sherry  e io dormimmo fino a tardi,  pregustando la giornata di ozio e

    la sensazione di avere tutta l'isola per noi.  Non ci aspettavamo  che

    Chubby e Angelo tornassero prima di mezzogiorno.

    Dopo  colazione  attraversammo  la sella fra le colline e scendemmo in

    spiaggia.  Giocavamo nell'acqua bassa e il rombo della  risacca  sulla

    barriera  esterna,  i  nostri spruzzi e le risate coprivano ogni altro

    suono.  Fu per puro caso che alzai gli occhi e vidi l'aereo da turismo

    che planava avvicinandosi dal canale verso terra.

    «Corri!»  gridai  a  Sherry,  e lei pensò che scherzassi finché non le

    indicai l'aereo.

    «Corri!  Non facciamoci  vedere»  e  stavolta  lei  reagì  in  fretta.

    Saltammo  fuori  dall'acqua  nudi  e  risalimmo  la  spiaggia  a tutta

    velocità.

    Adesso riuscivo a  distinguere  il  ronzio  dei  motori  dell'aereo  e

    guardai   indietro.   Stava  virando  a  bassa  quota  sopra  la  cima

    meridionale dell'isola e puntava verso di  noi  sulla  lunga  spiaggia

    diritta.

    «Più  veloce!» urlai a Sherry mentre correva davanti a me con le gambe

    lunghe  e  le  natiche  piene,   le  trecce  umide  di  capelli   neri

    ballonzolanti sulla schiena abbronzata.

    Guardai indietro: l'aereo puntava proprio nella nostra direzione.  Era

    distante ancora più di un chilometro,  ma potei distinguere che era un

    bimotore.  Mentre  lo  osservavo,  si  abbassò  ancor più sulla bianca

    distesa di sabbie coralline.

    Afferrammo al volo i vestiti sparsi qua e là e  coprimmo  a  tempo  di

    record  gli  ultimi metri fino al boschetto di palme.  C'era un rialzo

    formato da un albero caduto e dalle fronde strappate agli alberi dalla

    tempesta.  Era un nascondiglio ideale e afferrai Sherry per il braccio

    trascinandola giù.

    Rotolammo  al  riparo  delle fronde secche e restammo distesi fianco a

    fianco, ansimando forte per la corsa in salita dalla spiaggia.

    Allora mi accorsi che l'aereo era  un  bimotore  Chessna.  Sorvolò  la

    spiaggia  e  passò davanti al nostro nascondiglio a soli sei metri dal

    pelo dell'acqua.

    La fusoliera era dipinta di un caratteristico giallo margherita  e  si

    fregiava del nome "Africair". Riconobbi l'aereo. L'avevo già visto una

    mezza  dozzina di volte all'aeroporto di Saint Mary,  di solito mentre

    scaricava  o  imbarcava  gruppi  di  turisti  facoltosi.   Sapevo  che

    l'Africair era una compagnia di voli charter con base sul continente e

    che   i   suoi  apparecchi  venivano  noleggiati  con  una  tariffa  a

    chilometraggio.  Mi chiesi chi fosse  a  pagare  il  noleggio,  questa

    volta.

    Sui  sedili  anteriori dell'aereo c'erano due persone,  il pilota e un

    passeggero,   e  avevano  il  viso  rivolto  verso   di   noi   mentre

    l'apparecchio  sfrecciava rombando.  Tuttavia erano troppo lontani per

    poterne distinguere i lineamenti.  Erano entrambi bianchi,  questo era

    l'unico dato certo.

    Il Chessna effettuò una brusca deviazione di rotta sulla laguna e, con

    un'ala puntata in basso,  verso l'acqua cristallina, girò su se stesso

    e si abbassò per un'altra corsa sulla spiaggia.

    Stavolta passò così vicino che per  un  attimo  fissai  in  faccia  il

    passeggero   mentre   sbirciava   giù  fra  le  palme.   Mi  parve  di

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    riconoscerlo, ma non potevo esserne certo.

    Poi il Chessna si allontanò, cabrando lentamente,  e stabilì una nuova

    rotta   verso   il  continente.   Nella  manovra  ci  fu  qualcosa  di

    compiaciuto,  l'aria di chi ha raggiunto il suo scopo,  un lavoro  ben

    fatto.

    Sherry e io strisciammo fuori dal nostro nascondiglio e ci alzammo per

    scuoterci la sabbia dai corpi umidi.

    «Pensi che ci abbiano visto?» chiese lei timidamente.

    «Con  quel  tuo  didietro che brillava al sole come uno specchio,  non

    potevano mancarci.»

    «Potrebbero averci scambiato per una coppia di pescatori indigeni.»

    La guardai, ma non in faccia,  e ribattei sorridendo: «Pescatori?  Con

    le tue forme da Venere di Milo?».

    «Harry Fletcher,  sei disgustoso» esplose lei.  «Ma sul serio,  Harry,

    che cosa succederà, adesso?»

    «Vorrei saperlo, tesoro, vorrei proprio saperlo» risposi, ma ero lieto

    che Chubby avesse portato con sé a Saint Mary la cassa di  argenteria.

    A quest'ora probabilmente era sepolta dietro il bungalow a Turtle Bay.

    Eravamo  ancora  in  profitto...   anche  se  presto  avessimo  dovuto

    battercela.

    La visita dell'aereo infuse in tutti noi un nuovo  senso  di  urgenza.

    Ormai sapevamo di avere il tempo contato e Chubby al ritorno portò con

    sé notizie altrettanto inquietanti.

    «Il  "Mandrake" ha incrociato per cinque giorni a sud dell'arcipelago.

    L'hanno visto quasi tutti i giorni dal Coolie Peak che faceva avanti e

    indietro come se non sapesse che pesci pigliare» riferì. «Poi lunedì è

    attraccato di nuovo al porto grande.  Wally dice che il proprietario e

    sua moglie sono saliti in albergo a pranzare,  poi hanno preso un taxi

    e sono andati in Frobisher Street. Hanno passato un'ora con Fred Coker

    nel suo ufficio,  poi lui li ha riportati al molo dell'Ammiragliato  e

    sono  tornati  a  bordo  del "Mandrake".  Hanno levato l'ancora e sono

    salpati quasi subito.»

    «E' tutto?»

    «Sì» annuì Chubby «a parte il fatto  che  dopo  Fred  Coker  è  andato

    difilato  alla  banca  e  ha  versato millecinquecento dollari sul suo

    libretto di risparmio.»

    «Come lo sai?»

    «La terza figlia di mia sorella lavora in banca.»

    Tentai di fare una faccia allegra,  anche  se  mi  sentivo  strisciare

    nello  stomaco  tanti  piccoli insetti.  «Be'» osservai «avvilirsi non

    serve  a  niente.   Cerchiamo  di  montare  la  pompa,   così  potremo

    approfittare della marea di domani.»

    Più tardi, dopo che avemmo trasportato la pompa su alle grotte, Chubby

    scese da solo alla baleniera,  e quando tornò portava un lungo fagotto

    di tela.

    «Che cos'hai lì, Chubby?» domandai,  e lui apri timidamente l'involto.

    C'era la mia carabina FN,  con una dozzina di caricatori stipati in un

    piccolo zaino.

    «Ho pensato che poteva tornare utile» borbottò.

    Portai l'arma giù al boschetto e la seppellii accanto  alle  casse  di

    gelignite in una buca poco profonda.  La sua vicinanza mi dette un po'

    di conforto quando tornai a dirigere il montaggio della pompa.

    Lavorammo fino a tardi alla luce delle lanterne  a  gas,  ed  era  già

    mezzanotte  passata  quando  portammo  la pompa con il motore giù alla

    baleniera e l'assicurammo a un supporto improvvisato di  legno  solido

    che sistemammo proprio a mezza nave. Al mattino Angelo e io lavoravamo

    ancora sulla pompa quando puntammo verso la barriera.  Dovemmo restare

    fermi per mezz'ora prima di averla montata e preparata per la prova.

    Scendemmo fino al relitto in tre, Chubby, Sherry e io,  e introducemmo

    il  rigido  serpente  nero della manichetta attraverso il portello del

    cannone fino alla breccia ricavata nel pozzo della stiva.

    Appena fu in posizione,  battei una pacca sulla spalla di Chubby e gli

    indicai la superficie.  Lui assenti e si allontanò, lasciando Sherry e

    me nel ponte passeggeri.

    Avevamo pianificato con cura questa parte dell'operazione e attendemmo

    con impazienza mentre Chubby risaliva,  effettuava la decompressione e

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    saliva  a  bordo  della baleniera per agganciare la pompa e avviare il

    motore.

    Capimmo che  l'aveva  fatto  dal  debole  ronzio  e  dalle  vibrazioni

    trasmesse fino a noi lungo la manichetta.

    Mi  puntellai  all'ingresso  frastagliato  della  stiva e afferrai con

    tutt'e due le mani l'estremità del tubo di drenaggio.  Sherry puntò la

    pila sulla massa scura del carico e io passai lentamente l'imboccatura

    della manichetta sul mucchio di marciume.

    Vidi subito che avrebbe funzionato, pezzetti di detriti svanivano come

    per  incanto  nel tubo,  che provocava un piccolo vortice risucchiando

    acqua e particelle fluttuanti.

    A questa profondità e con la  potenza  fornita  dal  motore  la  pompa

    doveva aspirare centotrentaseimila litri d'acqua l'ora,  il che era un

    volume considerevole.  In pochi  secondi  aveva  sgomberato  il  campo

    d'azione e la visibilità era ancora buona. Potevo cominciare a sondare

    il  mucchio con una sbarra,  isolando i pezzi più grossi e spingendoli

    indietro nel corridoio alle nostre spalle.

    Una volta o due dovetti ricorrere a bozzello e paranco  per  rimuovere

    una  cassa  o  qualche  oggetto voluminoso,  ma per lo più riuscivo ad

    avanzare servendomi solo della manichetta e della leva.

    Avevamo spostato quasi un metro cubo e mezzo di materiale quando venne

    il momento di risalire per cambiare le bombole.  Lasciammo l'estremità

    del  tubo  ancorata  saldamente  al  ponte  passeggeri,  e risalimmo a

    ricevere un'accoglienza da eroi. Angelo era in estasi e perfino Chubby

    sorrideva.

    L'acqua intorno alla baleniera era intorbidita dalla  densa  zuppa  di

    rifiuti  che avevamo risucchiato dalla stiva e Angelo aveva recuperato

    quasi un secchio di piccoli oggetti che erano  passati  dallo  scarico

    della  pompa  cadendo  nel  setaccio;  era  una collezione di bottoni,

    chiodi, piccoli ornamenti di abiti femminili, gradi militari,  qualche

    monetina  di rame e d'argento dell'epoca,  e cianfrusaglie di metallo,

    vetro e osso.

    Perfino  io  ero  impaziente  di  tornare  al  mio  compito  e  Sherry

    insistette tanto che dovetti cedere a Chubby il sigaro fumato a metà e

    scendemmo di nuovo.

    Stavamo  lavorando  da quindici minuti quando m'imbattei nello spigolo

    di una cassa capovolta simile ad altre che avevamo già  scartato.  Per

    quanto  il legno fosse tenero come sughero,  le connessure erano state

    rinforzate con bande e chiodi di ferro,  tanto che dovetti lottare per

    qualche  tempo  prima di staccarne una tavola e spingerla indietro fra

    noi.  Quella seguente  venne  via  più  facilmente,  ma  il  contenuto

    sembrava un materasso di fibre vegetali decomposte e infeltrite.

    Ne staccai un grosso blocco,  che per poco non ostruì l'apertura della

    manichetta, ma alla fine scomparve diretto verso la superficie.  Avevo

    quasi  perso  ogni interesse per questa cassa e stavo per cominciare a

    lavorare  in  un'altra  zona,  ma  Sherry  mostrò  violenti  segni  di

    disapprovazione,   scuotendo  la  testa,  battendomi  sulla  spalla  e

    rifiutandosi di dirigere la luce della pila altrove che sul  groviglio

    poco appetibile di fibre.

    In  seguito le chiesi perché avesse insistito e lei sbatté le ciglia e

    si dette un'aria d'importanza.

    «Intuito femminile, mio caro. Tu non capiresti.»

    Alle sue insistenze attaccai ancora una volta l'apertura della  cassa,

    ma  sgretolando  pezzi più piccoli di fibre in modo da non intasare il

    tubo.

    Avevo rimosso circa quindici centimetri di questo materiale quando  in

    fondo  alla breccia vidi un luccichio metallico Allora sentii il primo

    profondo fremito di certezza e strappai un'altra  tavola  con  furiosa

    impazienza.  L'apertura  si  allargò consentendomi di lavorare con più

    facilità.

    Rimossi lentamente lo strato di fibre compatte che in origine dovevano

    essere  paglia  usata  per  l'imballaggio.   Come  un  volto  che   si

    materializza in un sogno, la visione si rivelò.

    Il  primo  impercettibile  luccichio si schiuse in uno splendore d'oro

    finemente lavorato e sentii Sherry stringermi forte la  spalla  mentre

    si abbassava accanto a me.

    Ci  trovammo  davanti un muso e sotto due labbra che si arrovesciavano

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    in un ringhio feroce,  rivelando  grandi  zanne  d'oro  e  una  lingua

    inarcata.  La fronte alta e spaziosa era larga come le mie spalle, con

    le orecchie appiattite strette al cranio brunito...  e c'era una  sola

    orbita  vuota  incassata quasi al centro dell'ampia fronte.  L'assenza

    dell'occhio dava all'animale un'espressione cieca e tragica,  simile a

    quella di un dio mutilato della mitologia.

    Sentii  un  timore quasi reverenziale mentre fissavo l'enorme testa di

    tigre splendidamente  cesellata  che  avevamo  scoperto.  Qualcosa  di

    freddo   e   di  terrificante  mi  corse  lungo  la  spina  dorsale  e

    involontariamente mi guardai intorno nei  recessi  cupi  e  minacciosi

    della  stiva,  come  se  mi  aspettassi  che gli spiriti guardiani dei

    principi mongoli fossero li in agguato.

    Sherry mi strinse di nuovo la spalla e io riportai la  mia  attenzione

    sull'idolo  d'oro,  ma  la  sensazione di timore reverenziale era così

    forte che dovetti fare forza a me stesso per riprendere il compito  di

    sgomberare  l'imballaggio  che  lo circondava.  Lavorai con molta cura

    perché sapevo bene che il minimo graffio o danno  avrebbe  ridotto  di

    molto il valore e la bellezza dell'effigie.

    Quando  il tempo fu scaduto ci tirammo indietro per fissare la testa e

    le spalle scoperte e il raggio della pila fu riflesso dalla superficie

    brillante in frecce di luce dorata che rischiararono la stiva come  un

    santuario.  Poi  ci  voltammo  e  la  lasciammo al silenzio e al buio,

    risalendo alla luce del sole.

    Chubby si accorse subito che era accaduto qualcosa  di  significativo,

    ma  non  disse  niente  finché  non fummo saliti a bordo e in silenzio

    avemmo riposto l'attrezzatura. Mi accesi un sigaro e lo aspirai, senza

    curarmi di asciugare le goccioline d'acqua di mare  che  mi  piovevano

    giù  per le guance dai capelli zuppi.  Chubby mi osservava,  ma Sherry

    era distante da noi,  avvolta nei suoi pensieri segreti,  chiusa in se

    stessa.

    «L'avete trovato?» chiese finalmente Chubby e io annuii.

    «Sì,  Chubby,  è  lì.»  Fui  sorpreso  di  sentire  la mia voce roca e

    incerta.

    Angelo,  che non aveva avvertito il nostro stato d'animo,  alzò subito

    gli  occhi dall'attrezzatura che stava riordinando.  Aprì la bocca per

    dire qualcosa,  ma  poi  la  richiuse  lentamente  accorgendosi  della

    tensione.

    Eravamo  tutti  silenziosi,   ammutoliti  dall'emozione.  Non  mi  ero

    aspettato che fosse così e guardai Sherry.  Lei finalmente incontrò il

    mio sguardo e i suoi occhi scuri erano come stregati.

    «Andiamo a casa, Harry» disse, e io annuii a Chubby. Lui fissò una boa

    alla  manichetta  e  la  lasciò  cadere fuori bordo per recuperarla il

    giorno dopo. Poi avviò i motori e diresse la prua verso il canale.

    Sherry attraversò la baleniera e venne a  sedersi  accanto  a  me  sul

    banco dei rematori.  Le passai il braccio sulle spalle, ma nessuno dei

    due parlò finché la baleniera non approdò  silenziosa  sulla  spiaggia

    bianca dell'isola.

    Al tramonto Sherry e io salimmo sul picco che sovrastava il campo e ci

    sedemmo  vicini  a  guardare  oltre  la  barriera,  osservando la luce

    affievolirsi sul mare e tuffare la fossa di Gunfire Reef  in  un'ombra

    più fonda.

    «Mi  sento  quasi colpevole» bisbigliò Sherry «come se avessi commesso

    un tremendo sacrilegio.»

    «Sì» ammisi. «Capisco quello che vuoi dire.»

    «Quella cosa...  sembrava che avesse una vita propria.  E' strano  che

    abbiamo  scoperto  la  testa prima di tutto il resto.  Ritrovarsi a un

    tratto davanti a quel muso che ti fissa  minaccioso...»  Rabbrividì  e

    rimase  in silenzio per qualche istante.  «Eppure ho provato anche una

    profonda soddisfazione,  una sensazione di pace interiore.  Non so  se

    riesco  a  spiegarmi  bene...  perché  le  due  sensazioni  erano così

    contrastanti, eppure mescolate.»

    «Capisco. L'ho provato anch'io.»

    «Che cosa ne faremo,  Harry,  che  cosa  faremo  di  quello  splendido

    animale?»

    Non so perché, in quel momento non avevo voglia di parlare di denaro e

    compratori... il che di per sé dava la misura di quanto fosse profondo

    il mio attaccamento all'idolo d'oro.

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    «Scendiamo» proposi invece. «Angelo ci aspetta per la cena.»

    Seduto  alla  luce  del  fuoco,  con una buona cena nello stomaco,  un

    bicchiere di whisky in una mano e  un  sigaro  nell'altra,  mi  sentii

    finalmente in grado di parlarne agli altri.

    Spiegai  come ci eravamo imbattuti nella cassa e descrissi l'imponente

    testa d'oro. Mi ascoltarono assorti, in perfetto silenzio.

    «Abbiamo liberato la testa fino alle spalle.  Penso  che  sia  lì  che

    finisce.  Probabilmente  è  tagliata in modo da adattarsi alla sezione

    seguente.  Domani dovremmo riuscire a metterla allo scoperto,  ma sarà

    un  lavoro  delicato.  Non possiamo tirarla su con bozzello e paranco.

    Dev'essere protetta dai danni prima che possiamo spostarla.»

    Chubby diede un suggerimento e per un po' discutemmo nei  dettagli  il

    modo  migliore di maneggiare la testa per ridurre al minimo il rischio

    di danni.

    «Possiamo presumere che tutte le cinque  casse  contenenti  il  tesoro

    siano  state  caricate  insieme.  Spero di trovarle nella stessa parte

    della stiva,  probabilmente imballate anche quelle in casse  di  legno

    rinforzate da bande di ferro...»

    «Tranne le pietre» m'interruppe Sherry. «Nella testimonianza resa alla

    corte  marziale,  il  Subahdar  spiegò  che  erano state chiuse in una

    cassetta da ufficiale pagatore.»

    «Sì, certo» riconobbi.

    «Che aspetto dovrebbe avere?» chiese Sherry.

    «All'arsenale  di  Copenhagen  ne  ho  vista   in   mostra   una   che

    probabilmente  sarà  molto  simile.  E' come una piccola cassaforte di

    ferro...  della misura di una grossa latta di  biscotti.»  Indicai  le

    dimensioni  allargando  le mani,  come un pescatore che si vanta della

    sua preda.  «E' rinforzata da costoloni di ferro e ha un catenaccio  e

    un paio di lucchetti ad ogni angolo.»

    «Sembra formidabile.»

    «Dopo  cent'anni e più nella fossa,  probabilmente sarà tenera come il

    gesso... sempre se è ancora intera.»

    «Domani lo scopriremo» annunciò Sherry fiduciosa.

    Al mattino scendemmo sulla spiaggia con la  pioggia  che  tamburellava

    sulle  nostre  mute e gocciolava giù a ruscelletti.  All'altezza delle

    cime si era formato un tetto di nuvole,  dense  formazioni  scure  che

    avanzavano  compatte  dal mare per sganciare sull'isola il loro carico

    di umidità.

    La violenza della pioggia sollevava dalla superficie del mare una fine

    nebbiolina perlacea,  e le cortine grigie in movimento  riducevano  la

    visibilità a poche centinaia di metri,  tanto che l'isola scomparve in

    una foschia grigiastra appena ci dirigemmo verso la barriera.

    Sulla baleniera tutto era freddo e viscido e  grondava  acqua.  Angelo

    doveva  aggottare  regolarmente  e  noi  ce  ne  stavamo rannicchiati,

    stretti nelle mute di gomma,  mentre Chubby  stava  ritto  a  poppa  e

    socchiudeva  gli  occhi  per  difendersi dalla pioggia battente mentre

    affrontava il canale.

    La boa fluorescente  arancione  galleggiava  ancora  a  ridosso  della

    barriera  e  noi  la  tirammo  su,  issammo  a bordo l'estremità della

    manichetta e la collegammo alla testa della pompa.  Serviva  anche  da

    catena dell'ancora e Chubby poté spegnere i motori.

    Fu  un  sollievo  lasciare la barca,  sfuggire allo stillicidio freddo

    della pioggia e  immergersi  nelle  silenziose  nebbie  azzurre  della

    fossa.

    Dopo  aver  resistito  a  considerevoli  pressioni  da  parte mia e di

    Chubby,  Angelo aveva finalmente ceduto  a  velate  minacce  e  aperte

    lusinghe, rinunciando al suo materasso di traliccio imbottito di fibre

    di  cocco.  Quando fu imbevuto ben bene d'acqua di mare,  il materasso

    affondò subito e io lo portai con me stretto in un rotolo,  legato con

    una fune.

    Solo  dopo  averlo  fatto passare attraverso il portello fino al ponte

    passeggeri tagliai la fune e lo spiegai.

    Poi Sherry e io tornammo nella stiva dove la testa di  tigre  accecata

    ringhiò ancora alla luce della torcia.

    Bastarono  dieci  minuti di lavoro per liberare la testa dal suo nido.

    Come sospettavo,  la sezione terminava all'altezza delle spalle  e  la

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    zona  di congiunzione presentava una flangia accurata;  era chiaro che

    unendola alla sezione del tronco la flangia avrebbe combaciato con  la

    fessura madre in un incastro solido e quasi impercettibile.

    Quando  rotolai  con  precauzione  la testa su un fianco feci un'altra

    scoperta.  In un certo senso avevo dato per scontato che l'idolo fosse

    fatto d'oro massiccio, ma ora vedevo che in effetti era cavo.

    Lo  spessore  reale  del metallo era di circa due centimetri e mezzo e

    l'interno era ruvido e nodoso al tatto.  Mi resi subito conto  che  un

    idolo  massiccio  avrebbe  pesato  centinaia  di tonnellate e il costo

    della  sua  costruzione  sarebbe  stato  proibitivo  perfino  per   un

    imperatore  in  grado di finanziare la costruzione di un tempio enorme

    come il Taj Mahal.

    La sottigliezza dello strato di metallo aveva naturalmente  indebolito

    la  struttura  e  quando  la voltai vidi subito che la testa aveva già

    subito dei danni.

    L'orlo della cavità  del  collo  era  stato  appiattito  e  deformato,

    probabilmente  durante  il  viaggio  clandestino in mezzo alle foreste

    indiane,  su un carro privo di balestre,  o magari  durante  la  lotta

    mortale della "Dawn Light" contro il ciclone.

    Puntellandomi  all'ingresso  della  stiva,  mi  chinai sulla testa per

    valutarne il peso e la cullai fra le  braccia  come  il  corpo  di  un

    bambino.   Gradualmente   aumentai   la  forza  della  stretta  e  fui

    compiaciuto,  ma non sorpreso,  quando riuscii  a  sollevarla  fra  le

    braccia.

    Naturalmente  il  peso era tremendo e richiedeva tutta la mia forza in

    una posizione di equilibrio calcolata con cura,  ma potevo sollevarla.

    Non  pesava  più  di  centotrenta  chili,  pensai,  mentre  mi  giravo

    goffamente sotto il pesante carico d'oro e la posavo  con  precauzione

    sul  materasso  di  fibra  di  cocco  che  Sherry  teneva  pronto  per

    accoglierla.  Poi mi raddrizzai per riposarmi e  massaggiare  i  punti

    dove  i  bordi  taglienti del metallo mi avevano segato la carne.  Nel

    frattempo tentai un piccolo calcolo aritmetico.  Centotrenta  chili  e

    rotti   equivalevano   a   circa   quattromila  e  ottocento  once:  a

    centocinquanta dollari l'oncia facevano quasi tre quarti di milione di

    dollari.  Quello era il valore intrinseco della sola testa.  Il  trono

    comprendeva  altre  tre  sezioni,  tutte  probabilmente  più  grandi e

    pesanti, poi c'era il valore delle pietre.  Era un totale astronomico,

    ma  poteva  essere  raddoppiato  o  triplicato  se si teneva conto del

    valore artistico e storico del tesoro.

    Abbandonai i miei calcoli, in questo momento privi di senso,  e invece

    aiutai  Sherry a ripiegare il materasso intorno alla testa della tigre

    e a legare il tutto in un solido fagotto.  Allora potei usare bozzello

    e  paranco  per trasportarlo lungo la scaletta di boccaporto e calarlo

    sul ponte dei cannoni.

    Lo trascinammo laboriosamente fino al portello e lì lottammo per farlo

    passare attraverso l'apertura angusta,  ma alla fine  ci  riuscimmo  e

    potemmo  disporvi  intorno la rete di nylon e gonfiare i galleggianti.

    Fu necessario montare di nuovo l'albero per issarlo a bordo.

    Ma non c'era nessun motivo per cui la testa  dovesse  restare  coperta

    una  volta  al  sicuro sulla baleniera,  e con tutta la solennità e la

    padronanza di me che riuscii a mettere insieme  sotto  la  torrenziale

    pioggia  tropicale,  la scoprii.  Chubby e Angelo fecero da spettatori

    entusiasti.   La  loro  eccitazione  non  fu  sminuita  nemmeno  dalle

    condizioni  pietose di umidità e si affollarono intorno alla testa per

    toccarla ed esaminarla,  fra grida e risate eccitate.  Era  questa  la

    gaiezza festiva che era mancata alla nostra prima scoperta del tesoro.

    Avevo  preso la precauzione di far scivolare nella mia sacca la fiasca

    da viaggio d'argento e ora corressi le tazze fumanti di caffè nero con

    dosi generose di scotch e brindammo a noi stessi e  alla  tigre  d'oro

    con  il  liquido  bollente,  ridendo  mentre  la pioggia ci inondava e

    tamburellava sul favoloso tesoro ai nostri piedi.

    Alla fine sciacquai la mia tazza fuori bordo e controllai l'orologio.

    «Faremo  un'altra  immersione»  decisi.   «Puoi  riavviare  la  pompa,

    Chubby.»

    Ora  sapevamo  dove continuare a cercare e dopo aver sgombrato i resti

    della cassa che aveva contenuto la testa scorsi,  nell'apertura più in

    là,  il  fianco  di  una  cassa simile e spinsi il tubo nella zona per

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    liberarla dalla fanghiglia prima di procedere.

    I miei scavi dovevano aver squilibrato il mucchio in putrefazione  del

    vecchio  carico  e  bastò  lo  spostamento causato dal risucchio della

    manichetta per farne cadere una parte.  Con un rombo ci crollò addosso

    e  in  un  attimo le nuvole turbinanti di melma resero vani gli sforzi

    della manichetta per diradarle e piombammo di nuovo nel buio.

    Nel buio cercai a tentoni Sherry e lei dovette cercare me,  perché  le

    nostre  mani  s'incontrarono  e  si  allacciarono.  Con una stretta mi

    rassicurò che non era stata colpita dal carico e  potei  cominciare  a

    risucchiare l'acqua torbida con la pompa aspirante.

    Entro  cinque  minuti  potevo  distinguere  nell'oscurità  il bagliore

    giallo  della  pila  di  Sherry,  poi  la  sua  sagoma  e  il  confuso

    guazzabuglio del nuovo carico venuto alla luce.

    Con Sherry al mio fianco, avanzai nella stiva.

    La frana aveva coperto la cassa di legno su cui stavo lavorando, ma in

    cambio  aveva  portato  in  luce  qualcos'altro  che riconobbi subito,

    nonostante le pessime condizioni,  perché era quasi  esattamente  come

    l'avevo  descritta  a  Sherry la sera prima,  perfino nei dettagli del

    chiavistello che bloccava la  serratura  e  dei  doppi  lucchetti.  La

    cassetta  dell'ufficiale pagatore,  però,  era quasi del tutto corrosa

    dalla ruggine e quando la toccai la  mia  mano  rimase  macchiata  dal

    rosso gessoso dell'ossido di ferro.

    Alle  estremità  della cassetta c'erano pesanti anelli di ferro per il

    trasporto; con ogni probabilità un tempo erano mobili,  ma ormai erano

    saldati dalla ruggine alla fiancata di metallo;  tuttavia mi permisero

    di  estrarre  con  precauzione  la  cassetta  dal   letto   di   melma

    appiccicosa.  Si liberò, suscitando un piccolo mulinello di detriti, e

    riuscii a  sollevarla  con  relativa  facilità.  Dubito  che  il  peso

    complessivo  superasse  i  settantacinque  chili  ed  ero certo che la

    maggior parte fosse costituita dal ferro.

    Dopo la testa enormemente pesante  avvolta  nel  materasso  soffice  e

    voluminoso,  estrarre dal relitto la cassetta più piccola e leggera fu

    un compito semplice e bastò un solo galleggiante per sollevarla  fuori

    dal portello.

    La  marea  e  la  risacca si stavano riversando ancora una volta nella

    fossa con violenza allarmante e la baleniera  rollava  e  beccheggiava

    impaziente  mentre  issavamo  a  bordo  la  cassetta e la posavamo sul

    mucchio di respiratori coperti da un telone a prua.

    Poi finalmente Chubby poté avviare i motori e portarci  attraverso  il

    canale.  Eravamo tutti eccitati e la fiasca d'argento passò di mano in

    mano.

    «Che effetto fa essere ricchi,  Chubby?»  esclamai  e  lui  bevve  una

    sorsata  dalla  fiasca,  strizzando  gli  occhi  e poi tossendo per il

    bruciore prodotto dall'alcool prima di sorridermi.

    «Tutto come prima, amico. Ancora nessun cambiamento.»

    «Chubby, lei che cosa farà con la sua parte?» insistette Sherry.

    «Ormai è un po' tardi,  signorina Sherry...  se solo mi fosse  toccata

    vent'anni  fa,  allora  avrei  saputo cosa farne...  eccome.» Prese un

    altro sorso.  «Questo è il guaio...  quando sei giovane non ti  capita

    mai e quando sei vecchio è troppo tardi, maledizione.»

    «E lei,  Angelo?» Sherry si rivolse a lui,  appollaiato sulla cassetta

    arrugginita,  con i riccioli da gitano appesantiti dalla  pioggia  che

    gli  penzolavano  sulle  guance  e  le  gocce impigliate fra le lunghe

    ciglia scure. «E' ancora giovane, che cosa farà?»

    «Signorina Sherry,  me ne sto qui seduto a pensarci...  e ho  già  una

    lista lunga da qui fino a Saint Mary e ritorno.»

    Ci  vollero  due  viaggi  dalla  spiaggia al campo prima di mettere al

    riparo dalla pioggia la testa e la  cassetta,  nella  caverna  che  ci

    serviva da magazzino.

    Chubby  accese  due lanterne a gas,  perché il cielo basso aveva fatto

    calare la sera in anticipo,  e ci  raccogliemmo  intorno  alla  cassa,

    mentre la testa d'oro ringhiava contro di noi da un posto d'onore, una

    mensola di terra scavata in fondo alla caverna.

    Con  un  seghetto  e  un  piede  di  porco,  Chubby e io cominciammo a

    lavorare sulla serratura e scoprimmo subito  che  l'aspetto  decrepito

    del  metallo  era ingannevole,  chiaramente era una lega ben temprata.

    Nella prima mezz'ora spezzammo tre lame del seghetto e  Sherry  asserì

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    di  essere scandalizzata dal mio linguaggio.  La mandai a prendere una

    bottiglia  di  Chivas  Regal  dalla  nostra  caverna  per  tenerci  di

    buonumore   e   Chubby   e  io  ci  prendemmo  l'equivalente  scozzese

    dell'intervallo per il tè.

    Con  rinnovato  vigore  ritornammo  all'assalto  della  cassetta,   ma

    passarono  altri  venti  minuti prima che Chubby riuscisse a segare il

    chiavistello.  A quel punto fuori della caverna era buio.  La  pioggia

    sibilava ancora senza sosta, ma il dolce fruscio delle foglie di palma

    annunciava  il  sorgere  del  vento dell'ovest,  che prima del mattino

    avrebbe disperso le nuvole di tempesta.

    Segato il chiavistello, lo staccammo dagli anelli che lo fermavano con

    un martello pesante preso dalla cassetta degli  attrezzi.  Ogni  colpo

    staccava  dalla  superficie del metallo una pioggia soffice di scaglie

    di ruggine e fu necessario  un  buon  numero  di  colpi  energici  per

    liberare il chiavistello dalla stretta tenace della corrosione.

    Con  tutto  che  era  stato  liberato,  il  coperchio  si  rifiutò  di

    sollevarsi.  Per quanto lo bersagliassimo di martellate da una dozzina

    di  direzioni  diverse  e  io  lo sottoponessi a un'ulteriore serie di

    maltrattamenti, non voleva saperne di cedere.

    Decretai un'altra sosta per il whisky e per discutere il problema.

    «Che ne dici di un candelotto di dinamite?»  suggerì  Chubby  con  uno

    scintillio negli occhi, ma dovetti trattenerlo controvoglia.

    «Ci serve la fiamma ossidrica» annunciò Angelo.

    «Bravo»  plaudii  in tono ironico,  perché stavo perdendo la pazienza.

    «La più vicina fiamma ossidrica è lontana ottanta chilometri e tu  fai

    un'osservazione del genere.»

    Fu  Sherry  a scoprire la serratura secondaria,  un sistema segreto di

    perni che attraverso il coperchio si agganciavano alle cavità nascoste

    nel corpo della cassetta.  Evidentemente  richiedeva  una  chiave  per

    farlo  scattare,  ma in mancanza di questa scelsi un robusto punzone e

    lo introdussi nel buco  della  serratura:  per  fortuna  incappai  nel

    braccio di chiusura e lo spezzai.

    Chubby  attaccò di nuovo il coperchio,  che stavolta si sollevò rigido

    sui cardini corrosi.  Una parte  del  contenuto  marcio  e  puzzolente

    rimase  attaccato  all'interno,  staccandosi dalla massa principale di

    vecchia stoffa scura.  Erano tessuti di  cotone,  un  blocco  umido  e

    compatto,  e  intuii che doveva trattarsi di abiti indigeni o balle di

    stoffa usati come imballaggio.

    Stavo per proseguire l'esplorazione, quando a un tratto mi ritrovai in

    seconda fila, a guardare sopra la spalla di Sherry North.

    «E'  meglio  che  lasci  fare  a  me»  disse  lei.  «Potresti  rompere

    qualcosa.»

    «Ma che dici?» protestai.

    «Perché  non  ti  prepari  un  altro  drink?»  mi  suggerì conciliante

    cominciando a sollevare strati di tessuto fradicio.  La proposta aveva

    del  buono,  pensai,  così  mi  riempii il bicchiere e osservai Sherry

    scoprire uno strato di pacchetti avvolti nella stoffa.

    Ciascuno era legato con uno spago che si sbriciolò al tocco e anche il

    primo pacchetto si disintegrò  appena  lei  tentò  di  tirarlo  fuori.

    Sherry  chiuse  le  mani  intorno  alla  massa  in decomposizione e la

    raccolse su un'incerata  ripiegata  vicino  alla  cassetta.  Il  pacco

    conteneva  decine  di  piccoli  oggetti  a  forma  di  noce  di misura

    variabile,  da poco più grandi della capocchia di un fiammifero  a  un

    chicco d'uva maturo; ognuno era stato avvolto in un pezzetto di carta,

    che come il cotone era completamente marcito.

    Sherry  scelse uno di questi oggetti rotondeggianti e sfregò i residui

    di carta fra pollice e indice  rivelando  una  grossa  pietra  azzurra

    scintillante, dal taglio quadrato e levigata su un lato.

    «Zaffiro?»  propose.  Io  gliela presi di mano e la esaminai in fretta

    alla luce della lanterna. Era opaca e la smentii.

    «No,  credo che siano lapislazzuli.» Il  frammento  di  carta  che  vi

    aderiva  ancora era leggermente colorato di tintura blu.  «Inchiostro,

    direi.» Lo appallottolai fra le dita. «Almeno il colonnello si è preso

    la briga di identificare le  pietre.  Probabilmente  ha  avvolto  ogni

    pezzo  in  un foglietto numerato che si riferiva a un disegno generale

    del trono per permettere di rimontarlo.»

    «Ormai non c'è più speranza di riuscirci» disse Sherry.

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    «Non so» replicai.  «Sarà un  lavoro  infernale,  ma  dovrebbe  essere

    ancora possibile rimettere tutto insieme.»

    Fra  le nostre provviste c'era un rotolo di sacchetti di plastica e io

    spedii Angelo a scovarlo.  Appena aperto un involto di tessuto marcito

    ripulivamo  superficialmente le pietre che conteneva e impacchettavamo

    ogni lotto in un sacchetto separato.

    Fu un lavoro lento, anche se collaboravamo tutti, e dopo quasi due ore

    avevamo  riempito  dozzine  di  pacchetti  con  migliaia   di   pietre

    semipreziose...   lapislazzuli,  berilli,  occhi  di  tigre,  granate,

    ametiste e un'altra mezza dozzina sulla cui identità ero incerto. Ogni

    pietra evidentemente era stata tagliata con amore e levigata  in  modo

    da adattarsi perfettamente alla sua nicchia nel trono d'oro.

    Fu  solo  dopo  aver  svuotato  la cassetta fino all'ultimo strato che

    c'imbattemmo  nelle  pietre  di  maggior  valore.   Evidentemente   il

    colonnello le aveva scelte per prime ed erano finite sul fondo.

    Accostai  alla luce della lampada un pacchetto di plastica trasparente

    pieno di smeraldi,  che brillarono come una stella verde.  Li fissammo

    tutti  come ipnotizzati,  mentre io li giravo lentamente per coglierne

    gli straordinari riflessi di luce.

    Li misi da parte e Sherry rituffò la mano nella  cassetta  e  dopo  un

    attimo  di esitazione tirò fuori un pacchetto più piccolo.  Asportò il

    materiale umido e  friabile  avvolto  in  uno  strato  spesso  intorno

    all'unica pietra che conteneva.

    Poi,  nella  mano  stretta  a coppa,  sollevò in alto il diamante Gran

    Mogol. Aveva le dimensioni di un uovo di pollastrella, tagliato in una

    forma sfaccettata a cuscino,  proprio  come  l'aveva  descritto  Jean-

    Baptiste  Tavernier  tanti  secoli fa.  Lo sfolgorante assortimento di

    tesori che avevamo maneggiato prima  non  offuscò  in  alcun  modo  la

    gloria  di  questa  pietra,  come  tutte  le stelle del firmamento non

    possono oscurare  il  sorgere  del  sole.  Impallidirono  e  svanirono

    davanti alla brillantezza e allo splendore del grande diamante.

    Sherry tese lentamente la mano verso Angelo,  offrendoglielo perché lo

    tenesse e lo esaminasse,  ma lui ritrasse le mani e le strinse  dietro

    la schiena, fissando ancora la pietra con timore reverenziale.

    Sherry si voltò e la porse a Chubby, ma anche lui rifiutò con gravità.

    «Lo dia al signor Harry. Credo che lo meriti lui.»

    Io  lo  presi  e  fui  sorpreso che un tale fuoco ultraterreno potesse

    essere così freddo al tocco. Mi alzai,  lo portai verso la testa d'oro

    della  tigre  che  ringhiava  furiosa alla luce fissa delle lanterne e

    premetti il diamante nell'orbita vuota dell'occhio.

    Si adattò alla perfezione e io usai il coltello da esche per  chiudere

    le  graffette  d'oro  che  lo  fissavano al suo posto e che il vecchio

    colonnello probabilmente aveva aperto con  una  baionetta  più  di  un

    secolo fa. Poi mi tirai indietro e sentii i lievi sussulti di stupore.

    Con  il  ritorno  dell'occhio  al suo posto la belva d'oro era tornata

    alla vita. Ora pareva che ci sorvegliasse con alterigia imperiale e da

    un momento all'altro ci aspettavamo che la caverna risuonasse del  suo

    crudele ringhio furioso.

    Tornai a riprendere il mio posto nel circolo accovacciato intorno alla

    cassetta  arrugginita  e  fissammo  tutti  la testa d'oro della tigre.

    Sembravamo i fedeli di un antico rito pagano,  prosternati davanti  al

    terribile idolo.

    «Chubby,  mio vecchio caro e fedele amico,  ti guadagnerai un posto in

    paradiso se mi passi  quella  bottiglia»  dissi  io,  e  questo  ruppe

    l'incantesimo.  Tutti  ritrovarono la voce contendendosi il diritto di

    parlare e non passò molto tempo prima che  dovessi  mandare  Sherry  a

    prendere un'altra bottiglia per lubrificare le nostre gole secche.

    Eravamo  tutti  piuttosto ubriachi quella sera,  perfino Sherry North,

    che si appoggiò a me per mantenere l'equilibrio quando  finalmente  ci

    dirigemmo schiamazzando fino alla nostra caverna sotto la pioggia.

    «Mi stai davvero corrompendo, Fletcher.» Inciampò in una pozzanghera e

    per poco non mi fece cadere.  «Questa è la prima volta in vita mia che

    mi ubriaco.»

    «Sta' allegra,  tesoro mio,  che ora  comincia  la  nuova  lezione  di

    corruzione.»

    Quando mi svegliai era ancora buio e mi alzai facendo attenzione a non

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    disturbare  Sherry,  che  respirava  con  un ritmo leggero e regolare.

    Faceva fresco, così infilai i calzoncini e un maglione di lana.

    Fuori della caverna il vento dell'ovest aveva  diradato  i  banchi  di

    nuvole.  Aveva  smesso  di  piovere  e  le stelle occhieggiavano nelle

    brecce,  irradiando abbastanza  luce  da  permettermi  di  leggere  il

    quadrante luminoso dell'orologio. Erano appena passate le tre.

    Mentre  cercavo  la  mia  palma  preferita,  vidi che avevamo lasciato

    accesa la lanterna nella caverna che faceva da deposito.  Finii quello

    che dovevo fare e mi accostai all'ingresso illuminato.

    La  cassa aperta era dove l'avevamo lasciata,  e così pure la preziosa

    testa d'oro con il suo occhio luccicante...  e a un tratto mi colpì il

    terrore divorante che l'avaro deve provare per il proprio tesoro.  Era

    così vulnerabile.

    "...  dove s'introducono i ladri..." pensai,  e non si poteva dire che

    nei dintorni scarseggiassero.

    Dovevo mettere tutto al sicuro, l'indomani sarebbe stato troppo tardi.

    Nonostante  il  dolore  alla  testa  e il rigurgito di whisky in gola,

    occorreva farlo subito... ma avevo bisogno di aiuto.

    Chubby si svegliò appena lo chiamai all'ingresso della caverna e  uscì

    al  chiarore  delle  stelle,  splendente  nel  suo pigiama a strisce e

    sveglissimo come se prima di andare a letto non avesse  bevuto  niente

    di  più  forte del latte di sua madre.  Spiegai i miei timori e le mie

    apprensioni.  Chubby grugnì assentendo e si diresse con  me  verso  il

    deposito.  Rimettemmo alla rinfusa nella cassa di ferro i sacchetti di

    gemme e io fermai il coperchio con un tratto  di  cavo  di  nylon.  La

    testa  d'oro  l'avvolgemmo  con  cura  in  un  telo d'incerata verde e

    portammo il tutto giù nel boschetto  di  palme,  prima  di  tornare  a

    prendere le pale e la lanterna a gas.

    Al  bagliore  bianco  e  uniforme  della  lanterna  lavorammo fianco a

    fianco, scavando due buche poco profonde nel terreno sabbioso, a pochi

    metri da quella dov'erano già sepolti la gelignite e il fucile FN  con

    le munizioni di riserva.

    Seppellimmo la cassetta e la testa d'oro e le coprimmo. Poi passai sul

    terreno  una  fronda  di  palma per cancellare ogni traccia del nostro

    lavoro.

    «Sei contento, Harry?» chiese alla fine Chubby.

    «Sì, mi sento meglio. Ora va' a dormire un po', dammi retta.»

    Se ne andò  fra  le  palme,  portando  la  lanterna,  senza  guardarsi

    indietro.  Io  sapevo che non sarei riuscito più a dormire,  perché il

    lavoro manuale mi aveva schiarito la testa e messo in circolazione  il

    sangue. Sarebbe stato assurdo tornare alla grotta e cercare di restare

    disteso in silenzio accanto a Sherry fino all'alba.

    Volevo  trovare un posto tranquillo e discreto dove meditare sulle mie

    prossime mosse nell'intricato gioco d'azzardo in  cui  ero  coinvolto.

    Imboccai  il  sentiero  che  portava  alla  sella fra le cime minori e

    mentre vi salivo le ultime nuvole furono spazzate via e rivelarono una

    luna pallida.  Mancava ancora una settimana al plenilunio,  ma la luce

    era sufficiente a indicarmi la via verso il picco più vicino e lasciai

    il sentiero per salire faticosamente fino alla sommità.

    Trovai  un  posto riparato e mi sedetti.  Avrei voluto avere un sigaro

    con me,  perché fumando rifletto meglio.  Anche senza emicrania  penso

    meglio, ma nemmeno per questo c'erano rimedi.

    Mezz'ora  dopo  avevo  deciso  che  dovevamo  consolidare le posizioni

    raggiunte finora.  Le fitte di avarizia che mi avevano  assalito  poco

    prima  persistevano ancora e avevo ricevuto un chiaro avvertimento che

    il nemico era a caccia.  Appena faceva giorno dovevamo prendere quello

    che avevamo recuperato finora,  la testa e la cassetta,  e filarcela a

    Saint Mary  per  farne  quello  che  avevo  già  progettato  con  cura

    meticolosa.

    In  seguito  ci  sarebbe  stato  tempo  per  tornare  a Gunfire Reef a

    recuperare quello che era  rimasto  nelle  profondità  nebulose  della

    fossa.  Appena  presa  la decisione,  sentii un moto di sollievo,  una

    nuova leggerezza di spirito,  e pensai con impazienza  alla  soluzione

    dell'altro grave enigma che mi assillava da tanto tempo.

    Fra  poco  sarei  stato in grado di chiedere la mano di Sherry North e

    dare  un'occhiata  a  quelle  carte  che  mi  teneva  nascoste   tanto

    gelosamente. Volevo sapere che cosa provocava quelle ombre scure negli

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    abissi  azzurri  dei  suoi  occhi  e  trovare  risposta  a tanti altri

    interrogativi che la circondavano. Quel momento sarebbe venuto presto.

    Finalmente il cielo impallidì,  la prima luce  perlacea  dell'alba  si

    diffuse  a oriente e addolcì la superficie scura e rugosa dell'oceano.

    Mi alzai indolenzito dal  mio  sedile  fra  le  rocce  e  m'incamminai

    intorno  alla vetta,  sotto le sferzate violente del vento dell'ovest.

    Rimasi là in piedi, sul versante esposto che sovrastava il campo,  col

    vento che mi faceva venire la pelle d'oca sulle braccia e mi arruffava

    i capelli.

    Guardai  giù  nella  laguna  e  al  tenue  chiarore  dell'alba la nave

    abbuiata che era scivolata furtiva fra le braccia aperte della baia mi

    apparve come un pallido fantasma.

    Proprio mentre guardavo vidi lo scroscio dell'ancora calata a  prua  e

    la  nave girò su se stessa,  mostrandomi in pieno il profilo,  così da

    non lasciarmi dubbi: era il "Mandrake".

    Prima che  recuperassi  le  mie  facoltà,  aveva  messo  in  mare  una

    scialuppa che avanzava veloce verso la spiaggia.

    Cominciai a correre.

    Una  volta caddi sul sentiero,  ma l'impeto della discesa a precipizio

    mi sospinse avanti e con una sola capriola  fui  di  nuovo  in  piedi,

    continuando a correre a perdifiato.

    Ansimavo  forte  quando  piombai  nella  caverna  di  Chubby gridando:

    «Forza, voi, muovetevi! Sono già sulla spiaggia».

    I due sbucarono fuori dai  sacchi  a  pelo.  Angelo  aveva  i  capelli

    arruffati e gli occhi vacui, ma Chubby era sveglio e all'erta.

    «Chubby»  scattai.  «Va'  a  prendere  la carabina dalla buca.  Corri,

    amico, fra pochi minuti arriveranno dal boschetto.» Mentre parlavo lui

    si era cambiato,  indossando una camicia e allacciandosi i calzoni  di

    tela.  Assentì con un grugnito. «Ti seguo fra un attimo» gridai mentre

    lui correva fuori nella debole luce dell'alba.

    «Angelo,  sveglia!» Lo afferrai per le spalle e lo  scrollai.  «Voglio

    che tu faccia la guardia a Sherry, capito?»

    Adesso era vestito e annuì, guardandomi con occhi opachi.

    «Avanti.»  Per  poco  non  lo  trascinai,  mentre  correvamo fino alla

    caverna. Strappai Sherry dal letto e mentre si vestiva le spiegai:

    «Angelo verrà con te.  Voi due dovete  prendere  una  lattina  d'acqua

    potabile e rifugiarvi a sud dell'isola, ma prima oltrepassate la sella

    senza  farvi  vedere.  Scalate la vetta e nascondetevi nel camino dove

    abbiamo trovato l'iscrizione. Sai dove?»

    «Sì, Harry» annuì lei.

    «Restate lì.  Non uscite e non  fatevi  vedere  per  nessuna  ragione.

    Capito?»

    Lei assentì, ficcandosi nei pantaloni il lembo della camicia.

    «Ricordati,  questi  sono  assassini.  Il  tempo  dei giochi è finito,

    abbiamo a che fare con un branco di lupi.»

    «Sì, Harry, lo so.»

    «Allora va bene.» L'abbracciai e la baciai in fretta.  «Ora filate.» E

    loro  uscirono  dalla caverna,  Angelo trasportando una latta da venti

    litri d'acqua potabile, e corsero via fra le palme.

    Infilai in uno zaino leggero alcuni oggetti,  una scatola  di  sigari,

    fiammiferi,  un binocolo, una borraccia d'acqua e un maglione pesante,

    una latta di cioccolata  e  razioni  d'emergenza,  una  torcia,  e  mi

    allacciai  alla  vita  la cintura con il pesante coltello da esche nel

    fodero. Passandomi sulla spalla la cinghia dello zaino, uscii di corsa

    anch'io dalla caverna e seguii  Chubby  giù  fra  le  palme  verso  la

    spiaggia.

    Avevo  percorso appena cinquanta metri quando sentii il tonfo sordo di

    armi da fuoco leggere,  un grido e  un'altra  raffica.  Erano  proprio

    davanti a me, poco lontano.

    Mi fermai e scivolai dietro il tronco di una palma,  sbirciando fra le

    ombre sempre meno cupe degli alberi.  Vidi del movimento,  una  figura

    che  mi  correva incontro,  e aprendo il fodero del coltello attesi di

    essere sicuro prima di chiamare piano: «Chubby!».

    La figura in corsa deviò di scatto verso di me. Portava il fucile FN e

    la bandoliera di tela con i caricatori di riserva  e  quando  mi  vide

    aveva il respiro rapido ma leggero.

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    «Mi hanno individuato» grugnì. «Ce n'è a decine di quei bastardi.»

    In quel momento vidi altri movimenti fra gli alberi.

    «Eccoli che vengono» dissi. «Andiamo.»

    Volevo  dare  un  buon vantaggio a Sherry,  così non presi il sentiero

    attraverso la sella,  ma svoltai direttamente a sud  per  distoglierli

    dalla  sua  pista.  Puntammo verso le paludi all'estremità meridionale

    dell'isola.

    Ci videro mentre correvamo in  direzione  obliqua  davanti  alla  loro

    avanguardia.  Sentii  un  grido,  cui  ne risposero subito altri,  poi

    seguirono cinque spari isolati e io scorsi le fiammate sbocciare dalle

    canne fra gli alberi scuri.  Un proiettile colpì un  tronco  di  palma

    sopra le nostre teste,  con un rumore sordo, ma noi correvamo veloci e

    nel giro di pochi minuti le urla degli  inseguitori  si  persero  alle

    nostre spalle.

    Raggiunsi  l'orlo  della palude salmastra e deviai verso l'interno per

    evitare gli acquitrini fetidi. Sul primo lieve pendio delle colline mi

    fermai per ascoltare e riprendere fiato.  Ormai la luce  aumentava  in

    fretta.  Fra poco si sarebbe levato il sole e per allora volevo essere

    al coperto.

    A un tratto si udirono in lontananza grida spaventate, dalla direzione

    degli acquitrini,  e capii che l'inseguimento si era arenato nel fango

    vischioso. Questo li avrebbe scoraggiati in modo piuttosto persuasivo,

    pensai con un sogghigno.

    «Va  bene,  Chubby,  proseguiamo»  bisbigliai,  e mentre eravamo lì si

    sentì un altro suono, da una direzione diversa.

    Il rumore era attutito dalla distanza e dall'altitudine  della  cresta

    che si frapponeva, perché proveniva dal lato a mare dell'isola, ma era

    il suono inconfondibile, lacerante, del fuoco di un'arma automatica.

    Chubby  e  io  restammo  paralizzati  in ascolto e il suono si ripeté,

    un'altra lunga raffica crepitante.  Poi calò  il  silenzio,  anche  se

    restammo in ascolto per tre o quattro minuti.

    «Avanti» dissi piano,  non potevamo perdere altro tempo, e corremmo su

    per il pendio verso la cima meridionale.

    Ci arrampicammo in fretta nella luce del giorno sempre più  intensa  e

    io  ero  troppo  preoccupato  per  sentire  qualsiasi malessere mentre

    percorrevamo la stretta cengia e penetravamo finalmente nella profonda

    fessura nella roccia in cui avevo previsto di incontrarmi con Sherry.

    Il nascondiglio era silenzioso e deserto,  ma  io  gridai  lo  stesso,

    senza speranza: «Sherry? Sei qui, amore?».

    Nessuna risposta venne dalle ombre e io mi rivolsi di nuovo a Chubby.

    «Avevano  un  buon vantaggio su di noi.  Dovrebbero essere qui» e solo

    allora quella raffica di mitra che avevamo sentito prima  acquistò  un

    significato.

    Presi  il  binocolo dallo zaino prima di ficcarlo in una fessura della

    roccia.

    «Si sono cacciati nei guai, Chubby» esclamai. «Vieni. Andiamo a vedere

    che cosa è successo.»

    Appena lasciata la  cengia  ci  addentrammo  nel  labirinto  di  rocce

    frantumate  sul lato esterno dell'isola,  ma nonostante la fretta e la

    terribile ansia per l'incolumità  di  Sherry  avanzai  con  cautela  e

    facemmo  bene  attenzione  a  non  rivelare  la  nostra  presenza a un

    eventuale  osservatore  appostato  fra  le  palme  o   sulle   spiagge

    sottostanti.

    Appena superato lo spartiacque della cresta,  davanti a noi si aprì un

    panorama nuovo,  la  mezzaluna  della  spiaggia  e  la  curva  nera  e

    frastagliata di Gunfire Reef.

    Mi  fermai di colpo e attirai Chubby giù vicino a me,  rannicchiandomi

    al riparo.

    Ancorata  in  posizione  tale  da  controllare  la  bocca  del  canale

    attraverso la barriera,  c'era la motovedetta armata di Zinballa, nave

    ammiraglia del mio vecchio amico Suleiman Dada.  Verso di essa tornava

    dalla  spiaggia  una  piccola  barca  a  motore,   stipata  di  figure

    minuscole.

    «Che Dio li maledica» mormorai  «avevano  davvero  programmato  tutto.

    Manny  Resnick si è messo d'accordo con Suleiman Dada.  Ecco perché ci

    ha impiegato tanto ad arrivare.  Mentre Manny sbarcava sulla spiaggia,

    Dada  sorvegliava  il canale in modo che non potessimo tentare la fuga

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    da quella parte come l'altra volta.»

    E aveva degli uomini sulla spiaggia...  questo spiega il mitra.  Manny

    Resnick  ha  portato  il  "Mandrake"  nella  baia  per  far  alzare la

    selvaggina e Dada sorvegliava la porta di servizio.»

    «E la signorina Sherry e Angelo?  Pensi che ce  l'abbiano  fatta?  Gli

    uomini di Dada li avranno sorpresi quando hanno superato la sella?»

    «Oh  Dio!»  gemetti,  maledicendo me stesso per non essere rimasto con

    lei.  Mi alzai e puntai il binocolo sulla lancia mentre avanzava lenta

    sulle  acque  limpide  della  barriera  esterna,  verso la motovedetta

    all'ancora.

    «Non riesco a vederli.» Anche con l'aiuto del binocolo  gli  occupanti

    della  scialuppa erano soltanto una massa scura,  perché il sole stava

    sorgendo alle loro spalle e il riverbero sull'acqua mi abbagliava. Non

    riuscivo a distinguere  le  figure  l'una  dall'altra,  figurarsi  poi

    riconoscere i singoli individui.

    «Forse  li  tengono nella barca...  ma non riesco a vedere.» Nella mia

    agitazione avevo lasciato il riparo delle rocce e  stavo  cercando  un

    punto di osservazione migliore, spostandomi sulla linea dell'orizzonte

    allo  scoperto.  Gli  stessi raggi di sole che mi accecavano dovettero

    illuminarmi in pieno.

    Vidi il lampo familiare e il lungo pennacchio bianco di fumo  sbuffare

    dal  cannone a tiro rapido sistemato a prua della motovedetta e sentii

    il proiettile arrivare quasi con un frullo d'ali.

    «Giù» gridai a Chubby, appiattendomi fra le rocce.

    Il colpo esplose molto vicino,  con un lampo incandescente simile alla

    breve apertura dello sportello di una fornace.  Schegge e frammenti di

    roccia sibilarono e fischiarono intorno a noi e io balzai in piedi.

    «Corri!» gridai a Chubby e ci  ritirammo  zigzagando  oltre  la  linea

    dell'orizzonte  proprio  mentre  il  colpo  seguente  ci passava sulla

    testa, facendoci chinare di scatto per la potenza del fragore.

    Quando ci accovacciammo oltre la cresta Chubby si asciugò una  macchia

    di sangue dall'avambraccio.

    «Tutto bene?» chiesi.

    «Un graffio, nient'altro. Una scheggia di roccia» borbottò.

    «Chubby,  vado  giù  a  scoprire cos'è successo agli altri.  Non serve

    rischiare in due. Tu aspetta qui.»

    «Sprechi il fiato, Harry, io vengo con te. Andiamo.» Sollevò il fucile

    e mi precedette giù dalla vetta.

    Pensai di prendergli l'arma.  Nelle sue mani  era  letale  pressappoco

    quanto una fionda. Poi ci ripensai. Gli infondeva sicurezza.

    Ci spostammo lentamente,  sfruttando qualunque riparo e guardando bene

    avanti a noi prima di proseguire.  Ma l'isola era silenziosa,  a parte

    il  sussurro  e  il  fruscio  del  vento  dell'ovest fra le cime degli

    alberi,  e non vedemmo nessuno mentre risalivamo il  versante  a  mare

    dell'isola.

    M'imbattei  nella  pista  lasciata  da Sherry e Angelo nel superare la

    sella che sovrastava il campo. I loro passi in corsa si erano impressi

    a fondo nel terreno soffice, alle piccole impronte snelle di Sherry si

    sovrapponevano quelle larghe dei piedi nudi di Angelo.

    Le seguimmo giù per il pendio,  ma a un tratto scartavano dalla pista.

    Qui  avevano  lasciato  la  lattina  d'acqua e deviando bruscamente si

    erano separati un po',  come se avessero corso fianco a fianco per una

    sessantina di metri.

    Lì  trovammo Angelo.  Non avrebbe mai goduto la sua parte del bottino.

    Era stato colpito da tre pallottole di grosso calibro che gli  avevano

    squarciato  il  tessuto  sottile  della camicia e aperto enormi ferite

    scure nella schiena e nel torace.

    Aveva perso molto sangue,  ma il terreno  sabbioso  l'aveva  assorbito

    quasi  tutto  e quello che restava si stava già seccando in una spessa

    crosta  scura.   Le  mosche  erano  accorse  a   sciami,   zampettando

    allegramente  nei  fori  dei  proiettili  e  affollandosi sulle lunghe

    ciglia scure che circondavano gli occhi spalancati e attoniti.

    Seguendo le tracce vidi che Sherry aveva proseguito per una ventina di

    passi: poi la piccola idiota era tornata indietro  per  inginocchiarsi

    accanto ad Angelo.  Imprecai.  Sarebbe potuta fuggire, se non si fosse

    lasciata andare a quel gesto inutile e assurdo.

    L'avevano  catturata  mentre  era  inginocchiata  accanto  al   corpo,

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    trascinandola  giù  fra  le palme fino alla spiaggia.  Scorsi i lunghi

    solchi nella sabbia dove aveva puntato i piedi tentando di resistere.

    Senza lasciare il riparo degli alberi,  mi chinai a guardare la sabbia

    fine  e  bianca,  seguendo  le  loro  tracce  fino  al punto in cui si

    vedevano ancora i segni della  chiglia  della  barca  a  motore  sulla

    sabbia della battigia.

    L'avevano portata via sulla motovedetta e io mi accovacciai dietro una

    pila  di  detriti e foglie di palma secche per fissare la piccola nave

    snella al largo.

    Proprio  mentre  la  guardavo,  levò  l'ancora,  acquistò  velocità  e

    costeggiò  lentamente  l'isola  per doppiare la punta ed entrare nella

    laguna interna dov'era ancorato il "Mandrake".

    Mi raddrizzai e tornai strisciando attraverso il boschetto,  fin  dove

    avevo lasciato Chubby.  Aveva messo da parte la carabina ed era seduto

    col corpo di Angelo fra le braccia,  cullandogli la  testa  contro  la

    spalla.  Stava  piangendo,  grosse  lacrime scure gli rotolavano piano

    lungo le gote brune segnate da solchi e  bagnavano  i  folti  riccioli

    scuri del ragazzo che teneva fra le braccia.

    Io  raccolsi  il  fucile  e feci la guardia mentre Chubby piangeva per

    tutti e due.  Gli invidiavo il sollievo delle lacrime,  lo sfogo della

    sofferenza  che  apre  la  via  alla rassegnazione.  Il mio dolore era

    intenso come il suo,  perché avevo voluto altrettanto bene ad  Angelo,

    ma era chiuso giù in fondo, dove faceva più male.

    «Ora  basta,  Chubby»  gli dissi alla fine.  «Andiamo,  amico.» Lui si

    alzò, con il ragazzo ancora fra le braccia,  e tornammo indietro lungo

    la cresta.

    In  una gola soffocata dalla vegetazione rigogliosa seppellimmo Angelo

    in una fossa poco profonda scavata con le nostre mani  e  lo  coprimmo

    con  uno  strato di rami e foglie che tagliai con il coltello prima di

    riempire la buca.  Non potei indurmi a gettargli la  sabbia  sul  viso

    scoperto e le foglie formavano un sudario più gentile.

    Chubby si asciugò le lacrime con il palmo della mano e si alzò.

    «Hanno  preso  Sherry»  gli  dissi  con  calma.   «E'  a  bordo  della

    motovedetta.»

    «E' ferita?» domandò.

    «Non credo, non ancora.»

    «Cosa vuoi fare adesso,  Harry?» chiese lui,  e qualcuno rispose  alla

    domanda per me.

    In lontananza,  verso il campo, sentimmo un fischio stridulo e salimmo

    sulla cresta in un punto da cui potevamo vedere la laguna interna e il

    lato dell'isola che guardava il continente.

    Il "Mandrake" si trovava ancora là dove l'avevo visto l'ultima volta e

    la motovedetta di Zinballa era ancorata a un centinaio di  metri,  più

    vicino  alla  spiaggia.  Si  erano  appropriati  della  baleniera e la

    stavano usando per sbarcare uomini sulla spiaggia.  Erano tutti armati

    e in uniforme.  Si dispersero subito fra le palme e la baleniera tornò

    verso il "Mandrake".

    Puntai il binocolo sullo yacht e mi accorsi che anche lì c'erano degli

    sviluppi. Nel campo visivo delle lenti vidi Manny Resnick,  in camicia

    bianca e pantaloni azzurri,  scendere nella baleniera.  Era seguito da

    Lorna Page. Lei portava occhiali scuri, una sciarpa gialla sui capelli

    e un completo pantaloni verde smeraldo,  e appena la riconobbi  sentii

    l'odio ribollirmi nelle vene.

    Poi  accadde  qualcosa che mi lasciò perplesso.  Il bagaglio che avevo

    visto caricare sulla Rolls a Curzon Street fu trasportato sul ponte da

    due scagnozzi di Manny e trasbordato anche quello sulla baleniera.

    Un ufficiale del "Mandrake" salutò dal ponte e Manny agitò la mano  in

    un gesto disinvolto di congedo.

    La  baleniera  si  staccò  dalla  murata del "Mandrake" e accostò alla

    motovedetta. Non appena Manny, la sua amica, le guardie del corpo e il

    bagaglio approdarono sul ponte della motovedetta,  il "Mandrake"  levò

    l'ancora, si diresse verso l'ingresso della baia e puntò con decisione

    verso le acque profonde del canale.

    «Se ne va» mormorò Chubby. «Perché?»

    «Sì,  se  ne  va» riconobbi.  «A Manny non serve più.  Ora ha un nuovo

    alleato e non ha bisogno di una nave  sua.  Probabilmente  quella  gli

    costava mille sterline al giorno e Manny è sempre stato tirchio.»

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    Puntai  di  nuovo  il binocolo sulla motovedetta e vidi Manny e il suo

    entourage entrare nella cabina.

    «Forse c'è anche un'altra ragione» borbottai.

    «Qual è, Harry?»

    «Manny Resnick e Suleiman Dada vogliono il minor numero  possibile  di

    testimoni per quello che intendono fare adesso.»

    «Sì, capisco cosa vuoi dire» grugnì Chubby.

    «Amico mio,  penso che ci aspetti un trattamento tale che al confronto

    quello che hanno fatto ad Angelo sembrerà una gentilezza.»

    «Harry,  dobbiamo portar via da quella  barca  la  signorina  Sherry.»

    Chubby  stava  emergendo dalla nebbia di dolore in cui l'aveva gettato

    l'uccisione di Angelo. «Dobbiamo fare qualcosa, Harry.»

    «E' un bel pensiero, Chubby,  ne convengo.  Ma non l'aiuteremo granché

    facendoci  ammazzare.  La mia idea è che lei sarà al sicuro finché non

    metteranno le mani sul tesoro.»

    Il suo enorme viso  scuro  s'increspò  come  il  muso  di  un  bulldog

    preoccupato.

    «Cosa facciamo, Harry?»

    «Ora come ora scappiamo di nuovo.»

    «Che cosa vuoi dire?»

    «Sta' a sentire» gli dissi,  e lui piegò la testa. Il sibilo acuto del

    fischietto si ripeté e poi sentimmo delle voci portate fino a noi  dal

    vento.

    «A  quanto  pare  ricorreranno per prima cosa alla forza bruta.  Hanno

    sbarcato tutti gli uomini e batteranno l'isola per farci  alzare  come

    un paio di fagiani.»

    «Scendiamo a dargli il benvenuto» ringhiò Chubby sollevando il fucile.

    «Ho un messaggio per loro da parte di Angelo.»

    «Non fare l'idiota,  Chubby» scattai infuriato. «Ora stammi a sentire.

    Voglio contare quanti sono.  Poi,  se ci capita una  buona  occasione,

    cercherò  di  catturarne  uno  da solo per prendergli l'arma.  Aspetta

    un'opportunità,  Chubby,  ma non attaccare ancora.  Regolati con molta

    prudenza,  capito?»  Non  volevo  alludere in termini poco lusinghieri

    alla sua abilità di tiratore.

    «Okay» rispose.

    «Resta da questa parte della cresta.  Conta quanti di loro scendono da

    questa parte dell'isola.  Io farò lo stesso sul versante opposto.» Lui

    assentì.  «C'incontreremo fra due ore nel punto in cui la  motovedetta

    ci ha bombardato.»

    «E tu,  Harry?» Fece il gesto di tendermi la carabina,  ma non ebbi il

    coraggio di privarlo dell'arma.

    «Sono a posto» risposi. «Vai, amico.»

    Precedere la fila  di  battitori  era  un  compito  facile  perché  si

    chiamavano  l'un  l'altro  ad  alta  voce  per  farsi  coraggio  e non

    tentavano nemmeno di nascondersi o di procedere furtivi, ma avanzavano

    con lentezza e cautela in una fila continua.

    Sul mio versante erano in nove,  di cui sette  negri  in  uniforme  da

    marinaio,  armati  con fucili d'assalto AK 47,  e due uomini di Manny.

    Questi indossavano abiti sportivi leggeri e portavano armi bianche. In

    uno di loro riconobbi il conducente della Rover di quella sera lontana

    e il passeggero del bimotore Chessna che aveva avvistato Sherry  e  me

    sulla spiaggia.

    Una volta fatto il conto dei capi, volsi loro le spalle e corsi avanti

    fino alla curva della palude salmastra.  Sapevo che incontrando questo

    ostacolo la fila  di  battitori  avrebbe  perso  la  coesione  ed  era

    probabile che qualcuno dei suoi componenti restasse isolato.

    Trovai una lingua sporgente di acquitrino con alcuni gruppi di giovani

    mangrovie  e  ruvida  erba  palustre  dalle  sfumature  cupe  di verde

    malarico.  Ne seguii il contorno e m'imbattei in un punto in  cui  una

    palma  si  era  abbattuta  di  traverso  sulla lingua come un ponte...

    offrendo due direzioni di fuga.  Intorno  si  era  formata  una  fitta

    copertura  di fronde di palma cadute ed erba palustre,  che forniva un

    buon nascondiglio per tendere un'imboscata.

    Mi stesi al riparo di questo cumulo di vegetazione secca e arruffata e

    impugnai  nella  destra  il  pesante  coltello  da  esche,   pronto  a

    lanciarlo.

    La  fila  di  battitori  avanzava  a  ritmo  costante,  le  loro  voci

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    aumentavano di volume avvicinandosi  alla  palude.  Ben  presto  potei

    sentire  il  fruscio  e lo scroscio dei rami mentre uno di loro veniva

    direttamente verso di me.

    Quando fu a circa sei metri si fermò per gridare e  io  schiacciai  il

    viso  sulla  terra  umida e sbirciai sotto la pila di rami secchi.  Lì

    c'era un'apertura e vidi i suoi piedi e le gambe fino alle  ginocchia.

    Portava  pantaloni  di  pesante  saia blu e scarpe da ginnastica di un

    bianco sporco,  senza calze.  Ad ogni passo le sue caviglie mostravano

    un tratto di pelle nerissima, da africano.

    Era uno dei marinai della motovedetta,  quindi,  e ne fui soddisfatto.

    Doveva imbracciare un'arma automatica.  Preferivo quella alla  pistola

    che portavano gli uomini di Manny.

    Rotolai lentamente su un fianco e liberai il braccio col coltello.  Il

    marinaio gridò ancora,  così vicino  e  così  forte  che  i  nervi  mi

    saltarono e sentii nel sangue il fiotto eccitante dell'adrenalina.  Da

    poco lontano giunse la risposta al suo richiamo e  il  marinaio  venne

    avanti.

    Sentivo  i  suoi passi leggeri sulla sabbia che avanzavano cauti verso

    di me.

    A un tratto,  quando aggirò la cascata  di  macchia  fu  perfettamente

    visibile, a dieci passi di distanza.

    Era in divisa da marinaio, con in testa un berretto blu guarnito da un

    allegro  pomponcino  rosso,  ma  portava appoggiato sull'anca il mitra

    dall'aria minacciosa.  Era un giovanotto alto e magro,  sulla ventina,

    con  il  viso liscio e coperto di sudore per il nervosismo,  tanto che

    aveva sulla pelle un velo lucido di un nero violaceo,  sul  quale  gli

    occhi spiccavano bianchissimi.

    Mi vide e tentò di puntare su di me il mitra,  ma lo portava sull'anca

    destra e nel movimento s'inceppò goffamente.  Io  mirai  al  punto  di

    congiunzione fra le clavicole, incorniciato dallo scollo dell'uniforme

    alla base della gola.  Lanciai dall'alto,  con uno scatto del polso al

    momento di allentare la presa,  così che il coltello partì descrivendo

    una  traiettoria  rapidissima  e colpì precisamente il punto che avevo

    scelto. La lama affondò completamente e dalla gola del marinaio sporse

    solo l'impugnatura di noce scuro.

    Lui tentò di gridare, ma non pronunciò nessun suono perché la lama gli

    aveva reciso le corde vocali, proprio come volevo. Guardandomi, crollò

    lentamente in ginocchio,  come  se  pregasse,  le  mani  penzoloni  ai

    fianchi.

    Ci  fissammo  per  un  attimo  che  parve eterno.  Poi fu scosso da un

    brivido violento,  dalla bocca e dal naso  gli  sgorgò  un  fiotto  di

    sangue gorgogliante e cadde faccia avanti sul terreno.

    Accovacciato  a terra,  lo girai sulla schiena ed estrassi il coltello

    dalla morsa tenace della ferita, asciugando la lama sulla sua manica.

    Lavorando in fretta lo spogliai dell'arma e dei caricatori di  riserva

    contenuti nella bandoliera della cintura di tela, poi, sempre restando

    accovacciato  a terra,  lo trascinai per i piedi nel fango vischioso e

    m'inginocchiai sul suo torace per spingerlo sotto  la  superficie.  Il

    fango  gli  coprì  la  faccia,  lento e denso come cioccolato fuso,  e

    quando fu del tutto sommerso mi affibbiai  alla  vita  la  cintura  di

    tela,  raccolsi  il mitra e tornai indietro silenziosamente attraverso

    la breccia che avevo aperto nella fila di battitori.

    Mentre correvo piegato in due,  sfruttando tutti i  ripari  possibili,

    controllai che l'AK 47 fosse a posto. L'arma mi era familiare. L'avevo

    usata  nel  Biafra  e  mi  accertai che il caricatore fosse pieno e la

    culatta fosse caricata prima  di  passarmi  la  cinghia  sulla  spalla

    destra, tenendolo pronto sull'anca.

    Percorsi  circa  cinquecento  metri,  mi fermai e mi nascosi dietro il

    tronco di una  palma  per  ascoltare.  Alle  mie  spalle  i  battitori

    dovevano  essere  in  difficoltà  nella palude e cercavano di uscirne.

    Ascoltai le grida e il trillo irato del fischietto.  Pareva la  finale

    del campionato di calcio,  pensai,  con un sogghigno amaro,  perché il

    ricordo dell'uomo che avevo ucciso era ancora disgustosamente fresco.

    Ora che avevo superato le linee  deviai  e  m'incamminai  direttamente

    attraverso l'isola, dirigendomi all'appuntamento con Chubby sulla cima

    meridionale.  Una  volta  attraversati i boschetti di palme sui pendii

    inferiori,  la vegetazione era più folta e la  migliore  copertura  mi

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    consentiva di muovermi con maggiore velocità.

    A metà strada della cresta fui sorpreso da una nuova raffica. Stavolta

    era  la  caratteristica  sferzata  schioccante della carabina FN,  più

    secca e lenta della tempesta del mitra AK 47 che rispose subito.

    Dal volume e dalla  durata  del  fuoco,  dedussi  che  tutte  le  armi

    impegnate avevano vuotato i caricatori in una raffica continua.  Scese

    un silenzio pesante.

    Così,  Chubby stava attaccando,  nonostante tutti i miei avvertimenti.

    Per  quanto  fossi  in collera,  ero anche profondamente allarmato dai

    guai in cui era andato a cacciarsi. Una cosa era certa... Chubby aveva

    mancato il bersaglio, qualunque fosse.

    Passai dal trotto alla corsa e tagliai in diagonale verso  la  sommità

    della  cresta,  mirando  a  raggiungere  la zona da cui era partito il

    fuoco.

    Sbucai fuori da una macchia  su  uno  stretto  sentiero  invaso  dalla

    vegetazione  che  seguiva  la  direzione  voluta e lo imboccai di gran

    carriera.

    Raggiunsi la cima della salita e lì per poco non finii fra le  braccia

    di  uno  degli  uomini  in  uniforme,  che  mi veniva incontro quasi a

    precipizio.

    Lo seguivano in fila indiana sei compagni,  tutti lanciati al  massimo

    della velocità. Trenta metri più indietro ce n'era un altro, che aveva

    perduto la sua arma e aveva l'uniforme inzuppata di sangue fresco.

    Sui  volti  di tutti c'erano espressioni di terrore e correvano con la

    cieca  determinazione  di  uomini  in  seguiti  da  tutti  i   diavoli

    dell'inferno.

    Capii  all'istante  che  erano  i superstiti di uno scontro con Chubby

    Andrews.  Era stato troppo per i  loro  nervi,  erano  terrorizzati  e

    decisi  a  tornare  alla  base...  La  mira  di  Chubby  doveva essere

    migliorata per incanto e gli chiesi scusa in silenzio.

    I marinai  erano  tanto  preoccupati  del  diavolo  che  avevano  alle

    calcagna  che  parvero  non  notarmi per la frazione di secondo che mi

    bastò a far scorrere la sicura del mitra e a piantarmi saldamente  sul

    terreno, con le ginocchia piegate e i piedi allargati.

    Mossi  l'arma  in  un  corto  arco  trasversale,  mirando  basso  alle

    ginocchia.  Con un volume di fuoco  come  quello  dell'AK  47  bisogna

    puntare alle gambe, contando su altri tre o quattro colpi al bersaglio

    grosso  mentre  l'uomo cade nella traiettoria di tiro.  L'accorgimento

    serve anche a  controbilanciare  la  tendenza  della  canna  corta  ad

    alzarsi,  sotto  l'effetto  del rinculo.  Caddero urlando all'indietro

    l'uno sull'altro come birilli,  abbattuti dal violento  impatto  delle

    pallottole di grosso calibro.

    Tenni  il  grilletto  abbassato contando fino a quattro,  poi mi girai

    tuffandomi nella folta parete della macchia.  Mi nascose all'istante e

    io mi piegai in due zigzagando sotto i rami.

    Alle   mie  spalle  un  mitra  sparò  e  le  pallottole  lacerarono  e

    strapparono il denso fogliame.  Nessuna mi si avvicinò e io ripresi  a

    correre.

    Intuii  che  il  mio attacco improvviso e del tutto inaspettato doveva

    aver sistemato definitivamente due o tre marinai e forse ferito uno  o

    due altri.

    Quel  che  più contava,  l'effetto sul loro morale doveva essere stato

    disastroso... specie a così breve distanza dall'attacco di Chubby. Una

    volta in salvo sulla motovedetta,  ci avrebbero pensato a lungo  prima

    di  rimettere  piede  sull'isola.  Avevamo vinto nettamente il secondo

    round,  ma loro avevano ancora Sherry.  Quella era la carta  più  alta

    nelle  loro  mani.  Fin tanto che l'avevano potevano dettare le regole

    del gioco.

    Chubby mi aspettava fra le rocce sulla sella del picco. Quell'uomo era

    indistruttibile.

    «Cristo, Harry, dove diavolo sei stato?» ringhiò. «E' tutta la mattina

    che aspetto.»

    Vidi che aveva recuperato il mio zaino dalla fenditura  fra  le  rocce

    dove l'avevo lasciato.  Era ai suoi piedi,  insieme a due fucili AK 47

    con le relative cartucciere.

    Mi tese la  borraccia  e  solo  allora  mi  accorsi  di  quanto  fossi

    assetato.  L'acqua dal forte gusto di cloro per me aveva il sapore del

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    Veuve Clicquot, ma mi limitai a tre sorsi.

    «Devo chiederti scusa,  Harry.  Ho attaccato.  Non ho  proprio  potuto

    farne  a  meno.  Erano tutti in gruppo,  in piedi,  allo scoperto come

    scolaretti in  gita  domenicale.  Non  ho  proprio  resistito,  li  ho

    annaffiati  per  benino.  Ne  ho  fatti  secchi  due  e gli altri sono

    scappati come conigli sparando in aria.»

    «Già» annuii. «Li ho incontrati mentre superavano la cresta.»

    «Ho sentito gli spari. Stavo proprio per venirti a cercare.»

    Mi sedetti sulla roccia accanto a lui e trovai i sigari  nello  zaino.

    Ne  accendemmo  uno  per  ciascuno  e fumammo in grato silenzio per un

    attimo, che Chubby sciupò subito.

    «Be',  gli abbiamo acceso il  fuoco  sotto  la  coda,  non  credo  che

    verranno a cercarne dell'altro.  Ma hanno ancora Sherry, amico. Finché

    hanno in mano lei, sono in vantaggio.»

    «Quanti erano, Chubby?»

    «Dieci.» Sputò un frammento di tabacco e scrutò la punta  ardente  del

    sigaro.  «Ma  ne  ho  eliminati due...  e penso di averne azzoppato un

    altro.»

    «Sì» ammisi.  «Sulla cresta ne ho incontrati sette e li  ho  attaccati

    anch'io.  Ora  non  ne  restano che quattro,  più altri otto dalla mia

    parte. Diciamo una dozzina, più quelli rimasti a bordo...  altri sei o

    sette. Circa venti armi puntate su di noi, Chubby.»

    «Un bello svantaggio, Harry.»

    «Puntiamo su questo, Chubby.

    «D'accordo.»

    Scelsi il mitra più nuovo ed efficiente,  che poteva contare su cinque

    caricatori interi. Nascosi le armi scartate sotto una lastra piatta di

    pietra e poi caricai e controllai l'altro.

    Bevemmo ancora un sorso dalla borraccia,  quindi mi avviai  per  primo

    lungo  la  cresta,  tenendomi  al  largo  dalla  linea dell'orizzonte,

    tornando verso il campo abbandonato.

    Dal punto in cui avevo scoperto  l'arrivo  del  "Mandrake"  osservammo

    tutta la parte settentrionale dell'isola.

    Come avevamo previsto,  Manny e Suleiman Dada avevano ritirato tutti i

    loro uomini dall'isola.  Sia la baleniera sia la  lancia  più  piccola

    erano  ormeggiate  ai  fianchi  della  motovedetta.  A  bordo  regnava

    un'attività febbrile e priva di senso e  mentre  osservavo  le  figure

    indaffarate  immaginai  le scene di terribile collera e di castigo che

    si stavano svolgendo nella cabina principale.

    Suleiman Dada e il suo nuovo "protégé" stavano certamente mettendo  in

    atto  una terribile vendetta sulle loro truppe già malamente sconfitte

    e demoralizzate.

    «Voglio scendere al campo,  Chubby.  Vedere cosa  ci  hanno  lasciato»

    annunciai alla fine,  tendendogli il binocolo. »Tieni gli occhi aperti

    per me. Tre spari rapidi come segnale di avvertimento.»

    «D'accordo, Harry» rispose lui,  ma proprio mentre mi alzavo,  a bordo

    della motovedetta si scatenò un nuovo accesso di febbrile attività. Mi

    feci  restituire  il  binocolo  da  Chubby  e  osservai  Suleiman Dada

    emergere dalla cabina e  salire  laboriosamente  sul  ponte  scoperto.

    Nell'uniforme  bianca  ornata  di  medaglie  che  brillavano al sole e

    assistito da una folla di uomini,  mi  rammentava  una  grassa  regina

    delle  termiti  bianche  trasferita  nella  sua cella da uno sciame di

    formiche operaie.

    Finalmente l'impresa fu compiuta e guardando nel binocolo vidi tendere

    a Suleiman un altoparlante elettronico.  Si rivolse verso la spiaggia,

    portò  alla  bocca  il  microfono  e  attraverso  il  potente binocolo

    distinsi il movimento delle  labbra.  Pochi  secondi  dopo  ci  giunse

    chiaramente  il  suono,  ingigantito dallo strumento e trasportato dal

    vento.

    «Harry Fletcher, spero che lei possa sentirmi.» La voce profonda e ben

    modulata assumeva un tono più aspro nell'amplificatore. «Ho intenzione

    di  inscenare  stasera  una  dimostrazione  che  la  convincerà  della

    necessità  di cooperare con me.  La prego di trovarsi in una posizione

    tale da poter assistere.  La giudicherà  affascinante.  Alle  nove  di

    stasera sul ponte di poppa di questa nave.  E' un appuntamento, Harry.

    Non manchi.»

    Tese l'altoparlante a uno dei suoi ufficiali e scese sotto coperta.

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    «Faranno qualcosa a Sherry» borbottò Chubby, tormentando sconsolato il

    fucile che aveva in grembo.

    «Lo  sapremo  alle  nove»   replicai,   osservando   l'ufficiale   con

    l'altoparlante che scendeva dal ponte per prendere posto sulla barca a

    motore. Iniziarono un lento giro dell'isola, fermandosi ogni ottocento

    metri  per ripetere l'invito di Suleiman Dada alla spiaggia silenziosa

    orlata di palme. Ci teneva molto che accettassi.

    «Va bene, Chubby.» Controllai l'orologio. «Abbiamo ancora qualche ora.

    Io scendo al campo. Sta' in guardia.»

    Il campo era stato saccheggiato e depredato di quasi tutti gli oggetti

    di  valore,   attrezzature  e  provviste  erano  state  fracassate   e

    sparpagliate per le caverne, eppure qualcosa si era salvato.

    Trovai cinque latte di carburante e le nascosi,  insieme a molte altre

    attrezzature che potevano tornare utili.  Poi sgusciai cautamente  nel

    boschetto  di  palme  e scoprii con sollievo che il nascondiglio della

    cassetta,  della testa di tigre d'oro e delle altre provviste non  era

    stato toccato.

    Portando  con  me  una  latta  da  venti litri di acqua potabile e tre

    scatolette di manzo salato e verdure miste,  risalii sulla cresta dove

    Chubby mi aspettava.  Mangiammo e bevemmo,  poi dissi a Chubby: «Cerca

    di dormire, se ti riesce. Sarà una nottata lunga e faticosa».

    Lui grugnì e si raggomitolò sull'erba come un grosso orso bruno.  Poco

    dopo russava già, con un ritmo sommesso e regolare.

    Fumai lentamente tre sigari,  riflettendo,  ma fu solo al tramonto che

    ebbi il primo vero colpo di genio. Era un'idea tanto chiara e semplice

    e così deliziosamente opportuna,  che mi parve subito  sospetta  e  la

    riesaminai con attenzione.

    Il  vento  era calato ed era ormai notte quando mi sentii sicuro della

    mia idea e restai seduto a covarla, sorridendo soddisfatto.

    La motovedetta era illuminata a giorno, tutti gli oblò brillavano e un

    paio di riflettori risplendevano di luce bianca sul  ponte  di  poppa,

    che sembrava un palcoscenico vuoto.

    Svegliai Chubby e mangiammo di nuovo.

    «Scendiamo sulla spiaggia» proposi. «Da lì vedremo meglio.»

    «Potrebbe essere una trappola» mi avvertì Chubby con aria tetra.

    «Non  credo.  Sono  tutti a bordo e puntano sulla forza.  Hanno ancora

    Sherry. Non hanno bisogno di giocare tiri strani.»

    «Amico, se fanno qualcosa a quella ragazza...» S'interruppe alzandosi.

    «D'accordo, andiamo.»

    Scendemmo in silenzio e con cautela attraverso le palme,  con le  armi

    spianate  e  il  dito  sul grilletto,  ma la notte era tranquilla e il

    boschetto deserto.

    Ci fermammo fra gli alberi in cima alla spiaggia.  La motovedetta  era

    lontana  solo duecento metri e io appoggiai la spalla al tronco di una

    palma mettendo a fuoco il binocolo.  La visuale era tanto  nitida  che

    riuscii a leggere la scritta sul pacchetto da cui una delle sentinelle

    prese una sigaretta per accenderla.

    Avevamo  un  posto di prima fila per lo spettacolo che Suleiman voleva

    offrirci, qualunque fosse,  e io sentii un fremito di apprensione,  il

    presagio  di  orrori  imminenti,  corrermi  come un alito gelido sulla

    pelle.

    Abbassai il binocolo e bisbigliai piano a Chubby: «Facciamo un cambio»

    e lui mi passò la carabina FN dalla canna lunga, prendendo l'AK 47.

    Volevo tenere sotto tiro il ponte della motovedetta con la  precisione

    dell'FN.  Naturalmente  non  potevo  far niente per intervenire finché

    Sherry era sana e salva,  ma  se  le  facevano  qualcosa...  mi  sarei

    accertato che non fosse la sola a soffrire.

    Il tempo passava molto lentamente e nuovi timori vennero a tormentarmi

    e  a  farmi sembrare l'attesa ancor più lunga di quanto non fosse,  ma

    alla  fine,  pochi  minuti  prima  dell'ora  fissata,  a  bordo  della

    motovedetta  si  rinnovò il trambusto e ancora una volta Suleiman Dada

    fu issato su per la scaletta  dai  suoi  uomini  e  prese  posto  alla

    battagliola   guardando   in   giù   sul   ponte   di  poppa.   Sudava

    abbondantemente e la zona intorno  alle  ascelle  e  sul  dorso  della

    giacca  bianca  dell'uniforme  era zuppa di sudore.  Mi resi conto che

    aveva ingannato il tempo facendo  spesso  ricorso  alla  bottiglia  di

    whisky,   probabilmente  attinta  alla  mia  riserva,  che  era  stata

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    asportata dalla caverna.

    Rideva e scherzava con gli  uomini  che  lo  circondavano,  la  pancia

    enorme scossa dall'ilarità,  mentre i suoi uomini facevano servilmente

    eco alle risate. Il suono arrivava sulle acque fino alla spiaggia.

    Suleiman fu seguito da Manny Resnick e dalla sua bionda  amica.  Manny

    era  azzimato e fresco nel suo costoso abbigliamento sportivo.  Rimase

    leggermente  in  disparte  dagli   altri,   l'espressione   fredda   e

    distaccata.  Mi  fece pensare a un adulto a una festa di bambini,  che

    prevedeva un dovere noioso e leggermente spiacevole.

    Per contrasto Lorna Page era eccitata,  con gli occhi lucidi come  una

    ragazza  al primo appuntamento.  Rideva con Suleiman Dada e si chinava

    oltre il parapetto sul ponte deserto con aria di attesa. Attraverso il

    potente binocolo vidi sulle sue guance un rossore che non  era  frutto

    del trucco.

    Ero tanto concentrato su di lei che solo quando sentii Chubby muoversi

    a un tratto irrequieto,  e udii il suo grugnito allarmato, abbassai le

    lenti sul ponte.

    Sherry era lì,  in piedi fra due marinai in uniforme.  La tenevano per

    le braccia e in mezzo a loro sembrava piccola e fragile.

    Portava  ancora  i vestiti che si era buttata addosso in fretta quella

    mattina e i capelli  erano  scarmigliati.  Aveva  il  viso  sparuto  e

    l'espressione  tesa...  ma  solo  quando la osservai con attenzione mi

    accorsi che quelle che sembravano occhiaie erano  in  effetti  lividi.

    Con  un  sussulto  di  collera gelida,  mi accorsi che aveva le labbra

    gonfie e distorte come se fosse  stata  punta  dalle  api.  Anche  una

    guancia era grossolanamente deformata e contusa.

    L'avevano  percossa  e  malmenata.  Guardando  bene  scorsi macchie di

    sangue secco sulla camicia azzurra e quando una delle guardie la  fece

    voltare  rudemente  verso la spiaggia vidi che aveva una mano fasciata

    alla  bell'e  meglio  e  le  bende  erano  macchiate   di   sangue   o

    disinfettante.

    Sembrava stanca e malata,  quasi al limite delle forze. La mia collera

    minacciò di sopraffare la ragione. Avevo voglia di far soffrire quelli

    che avevano trattato così Sherry,  e avevo già cominciato a  sollevare

    il  fucile  con  mani  tremanti  per la violenza del mio odio,  quando

    riuscii a dominarmi. Serrai gli occhi e trassi un respiro profondo per

    calmarmi. Sarebbe venuto il momento... ma non era questo.

    Quando riaprii gli occhi e puntai di nuovo il binocolo,  Suleiman Dada

    aveva l'altoparlante alla bocca.

    «Buonasera, Harry, mio caro amico. Sono certo che lei riconosce questa

    signorina.»  Fece un ampio gesto verso Sherry,  che lo guardò con aria

    stanca.

    «Dopo averla interrogata con  scrupolo,  un  procedimento  che  le  ha

    causato qualche disagio,  sono giunto alla conclusione che non sa dove

    si trovi attualmente l'oggetto al  quale  i  miei  amici  e  io  siamo

    interessati. Mi dice che l'ha nascosto lei, Harry.» Fece una pausa per

    asciugarsi il viso grondante con una salvietta tesagli da uno dei suoi

    uomini, prima di continuare.

    «Per  me  questa  giovane  signora  non  ha  più  interesse...  se non

    eventualmente come merce di scambio.»

    Fece un gesto e Sherry venne spinta di sotto.  Qualcosa di freddo e di

    viscido  mi si agitò nel ventre al vederla allontanarsi.  Mi chiesi se

    l'avrei mai più rivista... viva.

    Sul ponte deserto si schierarono quattro  uomini  di  Suleiman.  Erano

    nudi  fino  alla  cintola  e  la luce dei riflettori giocava sui corpi

    muscolosi scuri e lisci.

    Ciascuno portava un manico di piccone in legno di noce e  in  silenzio

    si disposero ai vertici di un quadrato sul ponte scoperto. Subito dopo

    due  guardie guidarono al centro un uomo.  Aveva le mani legate dietro

    la schiena.  Gli si affiancarono e lentamente lo costrinsero a  girare

    su   se   stesso,   mentre   la   voce  di  Suleiman  Dada  rimbombava

    dall'altoparlante.

    «Mi chiedo se lo riconosce.» Io fissai la larva umana curva nella tuta

    da carcerato di tela  grigia  che  gli  pendeva  in  brandelli  sudici

    dall'ossatura  scarna.  Aveva  la pelle chiara e cerea,  con gli occhi

    cerchiati profondamente infossati,  lunghi capelli biondi e ispidi che

    gli  pendevano  sul  viso  in  ciocche  unte  e  una  barbetta  rada e

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    irregolare.

    «Sì,  Harry?» Suleiman rise di gusto nell'altoparlante.  «Un soggiorno

    nella  prigione  di Zinballa fa miracoli per un uomo,  vero?...  Ma la

    tenuta regolamentare non  è  elegante  come  quella  di  ispettore  di

    polizia.»

    Solo  allora  riconobbi l'ex ispettore Peter Daly...  l'uomo che avevo

    scaraventato nelle acque della laguna  esterna  dal  ponte  del  "Wave

    Dancer" poco prima di sfuggire a Suleiman Dada attraverso il canale di

    Gunfire Reef.

    «L'ispettore  Peter Daly» confermò Suleiman con una risatina chioccia.

    «Un  uomo  che  mi  ha  profondamente  deluso.  Non  mi  piacciono  le

    delusioni,  Harry.  Me  la  prendo  molto a male.  L'ho portato con me

    appunto  per  un'eventualità  del  genere.   E'   stata   una   saggia

    precauzione, perché ritengo che una dimostrazione visiva sia molto più

    convincente di semplici parole.»

    S'interruppe  di  nuovo per asciugarsi il viso e bere avidamente da un

    bicchiere offertogli da uno dei suoi uomini. Daly cadde in ginocchio e

    alzò gli occhi verso l'uomo sul ponte.  Aveva sul viso  un'espressione

    di abietto terrore e la saliva gli colava dalla bocca mentre implorava

    pietà.

    «Benissimo, se lei è pronto possiamo procedere, Harry» tuonò Suleiman,

    e  una delle guardie tirò fuori un grosso cappuccio di stoffa nera che

    infilò sulla testa di Daly e chiuse stringendogli un  cordone  intorno

    al collo. Lo tirarono rudemente in piedi.

    «E' la nostra variante del gioco della mosca cieca.»

    Attraverso il binocolo vidi un fiotto di liquido inzuppare i pantaloni

    di tela di Peter Daly, quando la vescica gli si svuotò per il terrore.

    Evidentemente  aveva già assistito a questo gioco durante il soggiorno

    nelle carceri di Zinballa.

    «Harry,  voglio da lei un po' di fantasia.  Non badi a questa  sudicia

    creatura piagnucolante... immagini al suo posto la sua bella e giovane

    amica.»  Respirò  forte,  ma  quando l'uomo accanto a lui gli offrì di

    nuovo la salvietta, Suleiman gli vibrò senza scomporsi un manrovescio,

    che lo mandò lungo disteso sul  ponte,  e  proseguì  con  voce  calma:

    «Immagini  il suo bel corpo giovane,  immagini la sua paura mentre sta

    in piedi nel buio senza sapere che cosa l'aspetta».

    Le due guardie cominciarono a far roteare Daly fra loro come nel gioco

    infantile;  girava e girava  e  ora  potevo  sentire  i  suoi  strilli

    soffocati e le grida di terrore.

    A un tratto le due guardie fecero un passo indietro,  lasciandolo solo

    nel circolo di uomini seminudi. Uno di loro piantò l'impugnatura della

    sua arma contro le reni di Daly e con una spinta lo mandò dalla  parte

    opposta del circolo, dove l'uomo di fronte aspettava di spingergli nel

    ventre la punta del manico di piccone.

    Barcollava avanti e indietro,  spinto dai colpi di bastone. Lentamente

    i suoi torturatori aumentarono la violenza dell'attacco, finché uno di

    loro sollevò la mazza e la  vibrò  come  un'ascia  su  un  albero.  Si

    abbatté sulle costole di Daly.

    Fu  il  segnale  della  fine  e  appena  l'uomo cadde sul ponte gli si

    affollarono intorno,  alzando  e  abbassando  i  bastoni  a  un  ritmo

    impressionante  mentre  i colpi giungevano chiari attraverso la laguna

    fino a noi, che osservavamo disgustati e stravolti.

    Uno dopo l'altro si stancarono e indietreggiarono per  riposare  e  il

    corpo maciullato di Peter Daly rimase disteso al centro del ponte.

    «Brutale, dirà lei, Harry... ma non potrà negare che sia efficace.»

    Ero  nauseato  da  quella  crudeltà  barbarica  e  accanto a me Chubby

    mormorò: «E' un mostro... non ho mai visto niente di simile».

    «Ha tempo  fino  a  domani,  Harry,  per  venire  da  me  disarmato  e

    ragionevole.   Parleremo,   ci   accorderemo   su   certe   questioni,

    effettueremo uno scambio e ci separeremo da amici.»

    S'interruppe per guardare,  mentre uno dei suoi uomini assicurava  una

    fune  alla caviglia di Daly e gli altri lo issavano in cima all'albero

    maestro della motovedetta,  dove  penzolò  grottesco  come  un  osceno

    pennone.  Lorna  Page guardava in alto,  la testa riversa all'indietro

    così che i capelli biondi  le  scendevano  sulla  schiena,  le  labbra

    leggermente dischiuse.

    «Se rifiuta di essere ragionevole,  Harry, allora domani a mezzogiorno

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    farò il giro di quest'isola con la sua amica appesa così...» Indicò il

    cadavere,  la  cui  testa  sfigurata  oscillava  lentamente  avanti  e

    indietro a pochi metri dal ponte.  «...  all'albero maestro. Ci pensi,

    Harry. Prenda tempo. Ci pensi bene.»

    Di colpo i riflettori si spensero e  Suleiman  cominciò  la  laboriosa

    discesa verso la cabina,  seguito da Manny Resnick e Lorna Page. Manny

    era leggermente  accigliato,  come  se  stesse  meditando  un  accordo

    d'affari, ma mi accorsi che Lorna se la godeva un mondo.

    «Mi viene voglia di vomitare» borbottò Chubby.

    «Allora fattela passare» ribattei «perché abbiamo parecchio da fare.»

    Mi  alzai  e  mi  diressi  in  silenzio  verso  il boschetto di palme.

    Scavammo a turno mentre uno di noi restava di guardia fra gli  alberi.

    Non  volli  usare  la  luce  per  paura di attirare l'attenzione della

    motovedetta e stavamo tutti e due bene attenti a mantenere il silenzio

    e a non far risuonare rumori metallici oltre i confini del  boschetto.

    Tirammo  fuori  le  casse rimanenti di gelignite e di materiale per le

    esplosioni,  poi facemmo lo stesso con la cassetta  arrugginita  e  la

    trasportammo  in  un punto accuratamente scelto sotto il ripido pendio

    del picco.  A cinquanta metri di altezza c'era una piega nel  terreno,

    protetta da un fitto schermo di macchia marittima.

    Scavammo un'altra buca per la cassetta, affondando nel terreno soffice

    finché  incontrammo  l'acqua,  poi  la  riempimmo  e la seppellimmo di

    nuovo.  Chubby salì fino alla piega nascosta nel terreno e lì  fece  i

    suoi preparativi.

    Nel  frattempo  io ricaricavo il mitra e lo avvolgevo in una delle mie

    vecchie camicie insieme con i cinque caricatori,  nascondendo il tutto

    sotto un paio di centimetri di sabbia accanto al fusto della palma più

    vicina, dove le piogge recenti avevano formato nel pendio un canaletto

    asciutto.

    La  trincea scavata dall'acqua e l'albero distavano quaranta passi dal

    punto in cui era sepolta la cassetta,  e speravo  che  bastassero.  La

    trincea era profonda poco più di sessanta centimetri e avrebbe offerto

    ben poco riparo.

    La luna spuntò dopo mezzanotte e ci fornì luce sufficiente per mettere

    a punto i nostri preparativi.  Chubby controllò che fossi ben visibile

    dal suo nascondiglio in cima al pendio  quando  mi  trovavo  in  piedi

    accanto  al  canaletto.  Poi  salii anch'io per ricontrollare con lui.

    Accendemmo un sigaro ciascuno,  nascondendo il fiammifero e schermando

    la  punta  ardente nel cavo della mano,  mentre ripassavamo da capo il

    nostro piano d'azione.

    Mi preoccupavo soprattutto che non  ci  fossero  equivoci  per  quanto

    riguardava tempi e segnali,  e costrinsi Chubby a ripeterli due volte.

    Lui eseguì con un'aria teatrale di  sopportazione,  ma  alla  fine  mi

    ritenni soddisfatto. Schiacciammo i mozziconi dei sigari e li coprimmo

    di  sabbia  e scendendo il pendio ci trascinammo dietro delle scope di

    fronde di palma per cancellare ogni traccia di attività.

    La prima parte del mio piano era completata e tornammo al punto in cui

    erano  nascosti  la  tigre  d'oro  e   il   resto   della   gelignite.

    Riseppellimmo  la  tigre  e poi preparai una cassa piena di gelignite.

    Era una dose imponente di esplosivo,  sufficiente per una strage dieci

    volte superiore...  ma non sono mai stato tipo da lesinare quando ho i

    mezzi per mostrarmi generoso.

    Non avrei potuto usare l'esploditore elettrico e  il  filo  isolato  e

    dovevo  affidarmi  a  uno  dei  detonatori  a  tempo.  Ho una spiccata

    antipatia per questi piccoli aggeggi capricciosi.  Funzionano in  base

    al  principio  dell'acido che corrode un filo sottile che trattiene un

    martelletto su una capsula di polvere.  Quando l'acido taglia il filo,

    la  capsula esplode e il ritardo nella detonazione dipende dalla forza

    dell'acido e dallo spessore del filo.

    Nella regolazione del tempo si può  verificare  un  ampio  margine  di

    errore,  e  questo  in  una occasione mi aveva creato un inconveniente

    quasi fatale.  Tuttavia in questo caso non avevo alternative e  scelsi

    un  detonatore  a  matita con una durata di sei ore,  preparandolo per

    agire sulla gelignite.

    Fra le attrezzature sfuggite al saccheggio degli invasori c'era il mio

    vecchio respiratore a ossigeno a circuito chiuso. Questo apparecchio è

    quasi altrettanto pericoloso  da  usare  dei  detonatori  a  tempo.  A

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    differenza degli autorespiratori che utilizzano aria compressa, quello

    a  circuito  chiuso  impiega  ossigeno  puro,  che  viene  filtrato  e

    purificato dal diossido di carbonio a ogni respiro e poi riciclato.

    L'ossigeno respirato a pressioni superiori  a  due  atmosfere  diventa

    pericoloso  come  il  monossido  di  carbonio.  In altri termini se si

    respira ossigeno puro a profondità superiori  ai  dieci  metri,  è  la

    morte  sicura.  Bisogna  avere  nervi d'acciaio per giocare con quella

    roba...  ma ha un enorme vantaggio: non forma bollicine in  superficie

    che possono allarmare una sentinella e rivelargli la vostra posizione.

    Quando  tornammo  sulla  spiaggia  Chubby  portò  la  cassa  pronta di

    gelignite e la carabina.  Si  fecero  le  tre  prima  che  finissi  di

    indossare e provare il respiratore, poi portai in acqua la gelignite e

    ne  sperimentai la galleggiabilità.  Ci volle qualche chilo di zavorra

    per  neutralizzare  la  spinta  di  galleggiamento  e   renderla   più

    maneggevole nell'acqua.

    Eravamo  scesi  sulla spiaggia dalla parte opposta del promontorio che

    chiudeva la baia  rispetto  alla  motovedetta  all'ancora.  La  punta,

    coperta  di sabbia e di palme,  ci fece da schermo mentre lavoravamo e

    finalmente fui pronto.

    Fu una lunga nuotata estenuante.  Dovetti doppiare la punta ed entrare

    nella  baia...  una  distanza  superiore  a  un  chilometro...  sempre

    trainandomi dietro la pesante cassa di esplosivo.  In acqua esercitava

    una  forte resistenza e mi ci volle quasi un'ora prima di avvistare le

    luci della motovedetta  che  brillavano  sopra  di  me  attraverso  la

    superficie.

    Tenendomi  sul  fondo  scivolai  lentamente  in avanti,  terribilmente

    conscio che il chiaro di luna faceva spiccare la mia silhouette contro

    la sabbia bianca del letto della laguna,  perché l'acqua  era  limpida

    come gin e profonda solo quindici metri.

    Fu  un sollievo rifugiarmi al riparo dell'ombra scura proiettata dallo

    scafo e sapere che ero al sicuro dal rischio di  essere  scoperto.  Mi

    riposai  per qualche minuto,  poi svolsi le cinghie di nylon che avevo

    alla cintura e le assicurai alla cassa di gelignite.

    A questo punto controllai l'ora sull'orologio:  le  lancette  luminose

    indicavano  le  quattro  e  dieci.  Spezzai  l'ampolla  di  vetro  del

    detonatore,  permettendo all'acido di cominciare la  lenta  corrosione

    del  filo,  e  lo  rimisi  nella  fessura  preparata  nella  cassa  di

    esplosivo. Nel giro di sei ore, più o meno, il tutto sarebbe scoppiato

    con la forza di una bomba di cento chili piovuta dal cielo.

    Mi staccai dal fondo della laguna e salii lentamente fino  allo  scafo

    della  motovedetta.  Era  coperto  da  una  viscida  barba  di alghe e

    incrostato da uno strato irregolare di crostacei e molluschi.

    Mi mossi lentamente lungo la chiglia, cercando un punto di ancoraggio,

    ma non ce n'erano e alla fine fui  costretto  a  usare  il  fusto  del

    timone.  Vi fissai la cassa,  legandola con tutto il cavo di nylon che

    avevo...  e quando ebbi finito ero certo che  avrebbe  resistito  alla

    trazione  dell'acqua  anche  quando  la  motovedetta  navigava a tutta

    velocità.

    Finalmente soddisfatto,  scesi di nuovo sul fondo della  laguna  e  mi

    allontanai  senza  far  rumore.  Stavolta  procedetti molto più veloce

    nell'acqua,  senza  il  peso  della  cassa  di  gelignite.  Chubby  mi

    aspettava sulla spiaggia.

    «Tutto  a  posto?»  chiese  a  bassa voce,  aiutandomi a liberarmi dal

    respiratore a ossigeno.

    «Purché quella matita faccia il suo dovere.»

    Adesso ero così stanco che il tragitto  di  ritorno  mi  sembrò  lungo

    un'eternità e camminai trascinando i piedi.  La notte precedente avevo

    dormito poco e da allora per niente.

    Stavolta fu Chubby a restare di guardia mentre io dormivo e quando  mi

    scosse  gentilmente  erano  le  sette  del mattino e la luce aumentava

    rapidamente.

    Consumammo una colazione fredda a base di scatolette e io la  conclusi

    con una manciata di pastiglie di glucosio altamente energetico attinte

    dalle razioni, innaffiandole con una tazza d'acqua.

    Estrassi  il  coltello  dal  fodero  nella  cintura  e con un colpo da

    virtuoso lo lanciai nel tronco  della  palma  più  vicina.  Rimase  lì

    conficcato, vibrando.

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    «Non  darti  arie!»  borbottò  Chubby  e  io  gli  rivolsi un sorriso,

    tentando di apparire rilassato e fiducioso.

    «Guarda, proprio come ha detto lui...  niente armi» e allargai le mani

    vuote.

    «Pronto?» chiese lui,  e ci alzammo entrambi a disagio.  Chubby non mi

    avrebbe mai augurato buona fortuna...  quella era la forma peggiore di

    malocchio che si potesse gettare a qualcuno.

    «Ci vediamo» mi disse.

    «Okay, Chubby.» Gli tesi la mano. Lui la prese e la strinse forte, poi

    si  allontanò,  raccolse  la  carabina FN e si avviò lentamente fra le

    palme.

    Io rimasi a guardarlo finché non  sparì,  ma  lui  non  si  voltò  mai

    indietro e anch'io mi incamminai e scesi sulla spiaggia disarmato.

    Sbucai  dagli alberi e rimasi sulla battigia,  fissando la motovedetta

    oltre la stretta striscia d'acqua.  Vidi con sollievo che il  cadavere

    appeso all'albero era stato rimosso.

    Per parecchi secondi nessuna delle sentinelle sul ponte mi notò,  così

    alzai le mani sopra la testa e gridai forte: «Ohé!». Sulla motovedetta

    si scatenò subito un fervore di attività e si sentirono gridare  degli

    ordini.  Manny  Resnick  e  Lorna  comparvero  alla  battagliola  e mi

    fissarono,  mentre una mezza dozzina di marinai armati si calava nella

    baleniera e puntava sulla spiaggia.

    Appena   la   barca   approdò   saltarono  fuori  sulla  sabbia  e  mi

    circondarono,  premendomi con impazienza nella schiena e nel ventre la

    canna  degli  AK  47.  Io  restai  con le mani a mezz'asta e cercai di

    mantenere un'espressione di disinteresse mentre  un  sottufficiale  mi

    perquisiva  con  deliberata  accuratezza  in  cerca  di  armi.  Quando

    finalmente fu soddisfatto,  mi appoggiò la mano fra le  scapole  e  mi

    dette una spinta decisa. Uno dei suoi uomini più zelanti la interpretò

    come  un'autorizzazione e tentò di spezzarmi le reni con il calcio del

    suo AK 47... ma il colpo arrivò quindici centimetri più in alto. Io mi

    avviai  a  passo  svelto  verso  la  barca,  per  prevenire  qualunque

    ulteriore  esibizione  marziale,  e  loro  mi  si  affollarono intorno

    premendo la canna delle loro armi cariche  nelle  più  svariate  parti

    della mia anatomia, con effetti piuttosto dolorosi.

    Manny Resnick mi guardò salire a bordo della motovedetta.

    «Ci si rivede, Harry» osservò con un sorriso privo di allegria.

    «Il piacere è tutto tuo,  Manny.» Gli ricambiai il sogghigno sinistro,

    e un altro colpo mi arrivò fra le scapole,  proiettandomi dalla  parte

    opposta  del ponte.  Serrai i denti per dominare la collera e pensai a

    Sherry North. Questo mi fu d'aiuto.

    Il comandante Suleiman Dada era stravaccato su un basso divano coperto

    da semplici cuscini di tela. Si era tolto la giacca dell'uniforme, che

    era appesa a un gancio sulla paratia accanto a  lui,  appesantita  dai

    galloni  e  dalle  medaglie.  Portava  solo  un  panciotto  grigiastro

    inzuppato di sudore e perfino in quell'ora così mattutina teneva nella

    destra un bicchiere di liquido bruno chiaro.

    «Ah,  Harry Fletcher...  o dovrei  dire  piuttosto  Harry  Bruce?»  Mi

    sorrise come un enorme neonato color carbone.

    «Scelga  lei,  Suleiman» lo invitai,  ma ora non mi sentivo in vena di

    parlare con lui del più e del meno. Non mi facevo illusioni sui rischi

    della posizione in cui Sherry e io ci trovavamo e i miei  nervi  erano

    tesi  al  limite di rottura e la paura mi brontolava nella pancia come

    un animale in gabbia.

    «Ho appreso tante cose nuove su di lei dai miei buoni  amici.»  Indicò

    Manny   e  la  bionda  Lorna  che  mi  avevano  seguito  nella  cabina

    principale.  «Affascinante,  Harry.  Non mi sarei mai sognato che  lei

    fosse un uomo dal talento così vasto e multiforme.»

    «Grazie,  Suleiman,  è un vero amico, ma non ci lasciamo fuorviare dai

    complimenti. Abbiamo affari importanti, vero?»

    «Vero, Harry, verissimo.»

    «Hai riportato a galla il  trono  della  tigre,  Harry,  lo  sappiamo»

    intervenne Manny, ma io scossi la testa.

    «Solo una parte. Il resto è andato... ma abbiamo recuperato quello che

    c'era.»

    «D'accordo, ti credo» convenne Manny. «Dicci quello che c'è.»

    «C'è la testa della tigre,  circa centotrenta chili d'oro...» Suleiman

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    e Manny si scambiarono un'occhiata.

    «E' tutto?» chiese Manny,  e io capii d'istinto che sotto le  percosse

    Sherry aveva parlato. Non gliene volli per questo. Me l'ero aspettato.

    «C'è anche la cassetta dei gioielli. Le pietre rimosse dal trono erano

    conservate in una cassetta di ferro.»

    «E il diamante... il Gran Mogol?» domandò Manny.

    «L'abbiamo   trovato»   risposi,   e  loro  mormorarono  e  sorrisero,

    scambiandosi cenni d'intesa.  «Ma io sono  il  solo  a  sapere  dov'è»

    aggiunsi piano, e subito ridivennero tesi e silenziosi.

    «Stavolta ho qualcosa da offrire, Manny. T'interessa?»

    «C'interessa,  Harry, molto.» Suleiman Dada parlò per lui e mi accorsi

    della tensione crescente fra i miei due nemici, ora che il bottino era

    quasi a portata di mano.

    «Voglio Sherry North» dissi.

    «Sherry North?» Manny mi fissò un attimo e poi si lasciò sfuggire  una

    tossetta divertita. «Sei ancora più idiota di quanto pensassi, Harry.»

    «La  ragazza  non  c'interessa  più.»  Suleiman  bevve  un  sorso  dal

    bicchiere e io sentii il tanfo del suo sudore nel caldo intenso  della

    cabina. «Può prendersela.»

    «Voglio la mia barca, carburante e acqua per allontanarmi dall'isola.»

    «Ragionevole,  Harry,  molto ragionevole.» Manny sorrise di nuovo come

    per uno scherzo segreto.

    «E voglio  la  testa  della  tigre»  e  tanto  Manny  quanto  Suleiman

    scoppiarono a ridere forte.

    «Harry, Harry!» mi sgridò Suleiman, sempre ridendo. «Ingordo.»

    «Voi  potete  prendervi il diamante e circa venticinque chili di altre

    gemme...» Tentai di rendere appetibile l'idea con tutta la capacità di

    persuasione che riuscii a sfoderare.  Era l'unica cosa ragionevole  da

    fare  per  un uomo nella mia posizione.  «...  in confronto la testa è

    niente. Il diamante vale un milione, la testa coprirebbe appena le mie

    spese.»

    «Lei è un uomo tenace, Harry» ridacchiò Suleiman. «Troppo tenace.»

    «Che cosa ne ricaverò, allora?» domandai.

    «La vita, e ringrazia il cielo per questa» disse piano Manny,  e io lo

    fissai.  Vidi il gelo nei suoi occhi, simili a quelli di un rettile, e

    capii senza alcun dubbio  quali  erano  le  sue  intenzioni  nei  miei

    confronti, una volta che li avessi condotti al tesoro.

    «Come  posso  fidarmi?»  Dovevo  recitare  la mia parte fino in fondo,

    però, e Manny si strinse nelle spalle con indifferenza.

    «Harry,  come può non fidarsi di noi?» intervenne Suleiman.  «Che cosa

    potremmo guadagnarci uccidendo lei e la sua amica?»

    "E  cosa  potreste  mai  rimetterci?",  pensai,  ma  annuii e risposi:

    «D'accordo. Non ho molta scelta».

    Si rilassarono di nuovo,  scambiandosi un sorriso,  e Suleiman levò il

    bicchiere in un brindisi silenzioso.

    «Beve, Harry?» chiese.

    «E'  un po' presto per me,  Suleiman» ribattei «ma ora vorrei avere la

    ragazza.»

    Suleiman fece segno a uno degli uomini di andarla a prendere.

    «Voglio  la  baleniera  sulla  spiaggia,   rifornita  d'acqua   e   di

    carburante» ripresi cocciuto, e Suleiman dette gli ordini.

    «La  ragazza  viene  a  terra  con  me,  e  quando vi avrò indicato la

    cassetta e la testa le prenderete e ve ne andrete.» Spostai lo sguardo

    dall'uno all'altro. «Ci lascerete sani e salvi sull'isola, d'accordo?»

    «Ma  certo,   Harry.»  Suleiman  allargò  le  braccia  con  un   gesto

    disarmante.  «Siamo tutti d'accordo.» Temevo che si accorgessero della

    mia espressione incredula...  così mi volsi con sollievo verso  Sherry

    mentre veniva introdotta nella cabina.

    Il mio sollievo svanì quando la fissai.

    «Harry» bisbigliò lei fra le labbra gonfie e violacee.  «Sei venuto...

    oh, Dio, sei venuto.» Mosse un passo incerto verso di me.

    La sua guancia era livida  e  orribilmente  gonfia  e  dall'estensione

    dell'edema pensai che forse l'osso era fratturato.  I lividi sotto gli

    occhi le davano un'aria smunta da tisica e il sangue  si  era  seccato

    formando  una crosta nera sull'orlo delle narici.  Non volevo guardare

    le sue ferite, così la presi fra le braccia e me la strinsi al petto.

    Ci stavano osservando divertiti e interessati, sentivo i loro occhi su

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    di noi,  ma non volevo affrontarli e lasciar scorgere  l'odio  omicida

    che doveva trasparire dal mio sguardo.

    «D'accordo»  dissi «facciamola finita.» Quando finalmente mi volsi per

    affrontarli, sperai che la mia espressione fosse sotto controllo.

    «Purtroppo io non verrò con voi.» Suleiman non fece nessuno sforzo per

    alzarsi dal divano.  «Andar su e giù da  una  barchetta,  e  camminare

    sulla sabbia al sole per lunghe distanze non è uno dei miei passatempi

    preferiti.  Le  dico  addio qui,  Harry,  e i miei amici...» indicò di

    nuovo Manny  e  Lorna  «...  verranno  con  lei  in  qualità  di  miei

    rappresentanti.  Naturalmente  sarà  accompagnato anche da una dozzina

    dei miei uomini, tutti armati, che agiscono su mie istruzioni.» Pensai

    che questo avvertimento non era destinato a me solo.

    «Arrivederci, Suleiman. Forse ci rivedremo.»

    «Ne dubito, Harry» chiocciò lui. «Ma Dio la protegga e la accompagnino

    le mie benedizioni.» Mi congedò con una grossa zampa dal palmo roseo e

    con l'altra sollevò il bicchiere e bevve l'ultimo dito di liquore.

    Nella lancia Sherry sedette vicino a me. Mi si strinse contro e il suo

    corpo mi sembrò smagrito dalle sofferenze patite. Le passai il braccio

    sulle spalle e lei bisbigliò con voce stanca: «Ci uccideranno,  Harry,

    questo lo sai, vero?».

    Ignorai  la domanda e chiesi piano: «La mano» era ancora avvolta nella

    benda rudimentale «che cos'è successo?»

    Sherry  guardò  la  ragazza  bionda  accanto  a  Manny  e  la   sentii

    rabbrividire per un attimo.

    «E' stata lei, Harry.» Lorna Page chiacchierava animatamente con Manny

    Resnick. La sua pettinatura spruzzata con cura di lacca resisteva agli

    sforzi   del   vento   per   scompigliarla  e  il  viso  era  truccato

    meticolosamente con costosi cosmetici. Il suo rossetto era lucido e le

    palpebre erano di un verde iridescente,  con lunghe ciglia scurite dal

    mascara intorno agli occhi da gatta.

    «Loro mi tenevano...  e lei mi strappava le unghie.» Rabbrividì ancora

    e Lorna Page rise in tono  leggero.  Manny  chiuse  le  mani  a  coppa

    intorno  a  un  accendino  d'oro  Dunhill  mentre  lei  accendeva  una

    sigaretta. «Continuavano a chiedermi dov'era il tesoro... e ogni volta

    che non sapevo rispondere lei mi strappava  un'unghia  con  le  pinze.

    Facevano  un  suono  lacerante...»  Sherry  s'interruppe,  con la mano

    ferita contro lo stomaco come per proteggerla. Ora capivo quanto fosse

    vicina al punto di rottura e la tenni stretta,  tentando di infonderle

    forza attraverso il contatto fisico.

    «Piano,  bambina,  adesso calmati» mormorai, e lei si strinse ancor di

    più a me.  Le accarezzai i capelli e tentai nuovamente di dominare  la

    collera, controllandola prima che mi offuscasse l'intelletto.

    La lancia approdò sulla spiaggia. Noi sbarcammo e restammo fermi sulla

    sabbia mentre le guardie ci accerchiavano con le armi spianate.

    «Bene,  Harry» esclamò Manny. «Ecco la barca, tutta pronta per te.» La

    baleniera era in secco sulla spiaggia. «I serbatoi sono pieni e quando

    ci avrai mostrato la merce potrai andartene.»

    Parlava con disinvoltura,  ma la ragazza al suo fianco ci guardava con

    occhi  ardenti  da  predatrice...  Mi  chiesi  quale  sorte  ci avesse

    riservato.  Intuii che Manny le aveva promesso di consegnarci  a  lei,

    una  volta  ottenuto  quel  che  voleva,  perché  si  divertisse a suo

    piacere.

    «Spero che non tenterai di fare  il  furbo,  Harry.  Spero  che  sarai

    ragionevole e non ci farai perdere tempo.»

    Avevo  notato  che  Manny  si  era  circondato dei suoi uomini.  Erano

    quattro,  tutti armati di pistola,  e uno di loro era la  mia  vecchia

    conoscenza  che  aveva  guidato  la  Rover  la  sera  del nostro primo

    incontro.  A controbilanciarli c'erano dieci marinai negri guidati  da

    un  sottufficiale  e  già  sentivo che l'opposizione era divisa in due

    partiti sempre più ostili.  Manny ridusse ulteriormente il  numero  di

    marinai distaccandone due di guardia alla lancia. Poi si rivolse a me:

    «Se sei pronto, Harry, puoi farci strada».

    Dovetti  aiutare  Sherry  tenendola  per il gomito e guidandola fra le

    palme.  Era tanto debole che inciampò più volte e il  suo  respiro  si

    fece affaticato e irregolare prima che arrivassimo alle caverne.

    Con  la  piccola  folla  di  uomini  armati  che ci seguiva da vicino,

    proseguimmo costeggiando il pendio.  Lanciai di soppiatto  un'occhiata

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    all'orologio.  Erano  le  nove.  Ancora un'ora,  prima che la cassa di

    gelignite sotto la motovedetta esplodesse.  Il tempo rientrava  ancora

    nei limiti che avevo fissato.

    Feci  un  po'  di  scena prima di indicare il punto preciso in cui era

    sepolta la cassetta e solo a stento mi trattenni dal  guardare  in  su

    verso  il  pendio,  dove  la  piega  del  terreno  era schermata dalla

    vegetazione.

    «Ordina di scavare qui» dissi a  Manny,  facendo  un  passo  indietro.

    Quattro marinai tesero le armi ai compagni e montarono le piccole pale

    pieghevoli di tipo militare che avevano portato con sé.

    Il  terreno  era  soffice e smosso di fresco,  tanto che procedevano a

    velocità allarmante.  Fra pochi minuti avrebbero portato alla luce  la

    cassetta.

    «La  ragazza è ferita» dissi a Manny.  «Deve sedersi.» Lui mi guardò e

    notai che la sua mente lavorava  in  fretta.  Sapeva  che  Sherry  non

    poteva   andare  lontano  e  credo  che  vedesse  di  buon  occhio  la

    possibilità di allontanare qualche marinaio,  perché parlò  brevemente

    con  il  sottufficiale  e  io  guidai  Sherry verso la palma e la feci

    sedere contro il fusto.

    Lei sospirò di sollievo e due marinai vennero a  sorvegliarci  con  le

    armi spianate.

    Guardai  il  pendio,  ma  non  si vedeva niente di sospetto,  anche se

    sapevo che Chubby doveva osservarci con attenzione.  A  parte  le  due

    guardie,  tutti  gli  altri erano riuniti in attesa intorno ai quattro

    che erano già immersi fino al ginocchio nella buca scavata di fresco.

    Anche le nostre due guardie erano divorate dalla  curiosità,  la  loro

    attenzione  continuava  a  divagare  e  guardavano in continuazione il

    gruppo distante una quarantina di metri.

    Sentii nitidissimo  il  suono  metallico  della  vanga  che  colpì  il

    coperchio  della cassetta...  poi si levò un grido eccitato.  Tutti si

    affollarono  intorno  allo  scavo  in  una  babele  di  voci  animate,

    cominciando  a  tirare  gomitate ai vicini per avere la possibilità di

    dare un'occhiata.  Le nostre guardie ci volsero le spalle e fecero  un

    passo  o  due  nella stessa direzione.  Era più di quanto avessi osato

    sperare.

    Manny Resnick spinse da parte con violenza due marinai e  saltò  nella

    buca  accanto  agli  scavatori.  Lo  sentii gridare: «Va bene,  allora

    portate queste funi e tiriamola fuori. Attenti, non fate danni».

    Anche Lorna Page era china sulla buca. Era il momento ideale.

    Sollevai la mano destra e mi asciugai la fronte nel segnale concordato

    con Chubby e riabbassando la mano afferrai Sherry e rotolai in  fretta

    all'indietro nel canale poco profondo scavato dalla pioggia.

    Sherry  era  stata  colta  alla sprovvista e nell'ansia di metterla al

    riparo l'avevo trattata rudemente.  Quando urtai le ferite già dolenti

    lanciò un grido.

    Sentendola  urlare  le  due  guardie piroettarono sollevando i mitra e

    capii che stavano per sparare... e la bassa trincea non offriva nessun

    riparo.

    «Ora,  Chubby,  ora!» pregai,  lanciandomi su Sherry per  farle  scudo

    contro  il  fuoco  dei  mitra  e premendole le mani sulle orecchie per

    proteggerle.

    In quell'istante Chubby girò la manopola dell'esploditore elettrico  a

    batteria  e  l'impulso  corse  lungo il filo isolato che la sera prima

    avevamo nascosto con  tanta  cura.  C'era  mezza  cassa  di  gelignite

    stipata  nella  cassetta  di ferro,  il massimo che avevo potuto usare

    senza disintegrare Sherry e me nello scoppio.

    Immaginai la gioia diabolica di Chubby quando la cassa saltò.  Esplose

    verso l'alto, deviata dalle pareti della buca, ma avevo confezionato i

    candelotti  di  gelignite  con  sabbia  e  manciate di pietre dure che

    dovevano  funzionare  come  un  rudimentale  shrapnel,  contenendo  lo

    scoppio e rendendolo ancor più micidiale.

    Il  gruppo  di  uomini  intorno  alla  buca saltò in aria,  roteando e

    descrivendo capriole come una troupe di acrobati folli,  e una colonna

    di sabbia e di polvere si levò a trenta metri d'altezza.

    La  terra  tremò  sotto di noi,  scuotendo i nostri corpi supini,  poi

    l'onda d'urto c'investì,  abbattendo le due guardie  che  stavano  per

    spararci addosso e strappando loro i vestiti dal corpo.

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    Pensai  di avere entrambi i timpani rotti,  dato che ero completamente

    sordo,  ma sapevo di aver protetto dall'esplosione quelli  di  Sherry.

    Assordato e mezzo accecato dalla polvere,  rotolai lontano da Sherry e

    grattai freneticamente sul fondo sabbioso della trincea.  Urtai con le

    dita il mitra sepolto e lo tirai fuori,  strappando gli stracci che lo

    proteggevano e alzandomi rapido in ginocchio.

    Le guardie vicino a me erano vive,  una strisciava sulle  ginocchia  e

    l'altra  stava  seduta,  stordita,  con  il  sangue che scorreva sulla

    guancia da un timpano esploso.

    Le uccisi con due corte raffiche. Poi alzai gli occhi versò il mucchio

    di uomini mutilati intorno allo scavo.

    Si notavano deboli sussulti convulsi,  lievi gemiti e piagnucolii.  Mi

    alzai tremante dalla trincea e vidi Chubby in piedi sul pendio.  Stava

    gridando,  ma il frastuono ronzante che mi  risuonava  nelle  orecchie

    m'impediva di sentirlo.

    Rimasi  là,  barcollando  leggermente,  guardandomi  intorno  come  un

    idiota,  e Sherry si alzò in piedi accanto a me.  Mi toccò  la  spalla

    dicendo  qualcosa e sentii con sollievo la sua voce,  mentre il ronzio

    nelle orecchie si attenuava leggermente.

    Guardai di nuovo il  teatro  dell'esplosione  e  vidi  uno  spettacolo

    strano e raccapricciante.  Una figura dalle parvenze umane,  spogliata

    degli abiti e di gran parte della pelle,  una cosa sanguinolenta,  con

    un  braccio  staccato  per  metà  dall'articolazione  della spalla che

    penzolava lungo il fianco,  sospeso a un brandello di carne  viva,  si

    alzò lentamente accanto alla buca come un fantasma dalla tomba.

    Rimase  così  per  un  lungo istante prima che riuscissi a riconoscere

    Manny Resnick.  Pareva impossibile che fosse  sopravvissuto  a  quella

    strage, ma più ancora che cominciasse a venirmi incontro.

    Avanzò  barcollando,  un passo dopo l'altro,  sempre più vicino,  e io

    rimasi paralizzato, incapace di muovermi.  Poi vidi che era cieco,  la

    sabbia gli aveva bruciato le pupille e scorticato la pelle del viso.

    «Oh  Dio,  Dio!»  bisbigliò  Sherry  accanto  a  me,  e  questo  ruppe

    l'incantesimo.  Sollevai il mitra e  il  torrente  di  pallottole  che

    squarciò il petto di Manny fu un atto di misericordia.

    Ero  ancora  intontito  e fissavo la carneficina che avevamo provocato

    quando Chubby mi raggiunse.  Mi prese  per  il  braccio  e  lo  sentii

    gridare: «Ti senti bene, Harry?». Annuii e lui riprese: «La baleniera!

    Dobbiamo controllare la baleniera!».

    Mi  rivolsi  a  Sherry.  «Va'  nella  grotta.  Aspettami  lì» e lei si

    allontanò docile.

    «Prima controlliamo questi» borbottai a Chubby,  e ci  avvicinammo  al

    mucchio  di  corpi  intorno alla cassetta di ferro in frantumi.  Erano

    tutti morti o lo sarebbero stati fra breve.

    Lorna Page era distesa  supina.  L'esplosione  le  aveva  strappato  i

    vestiti  e il corpo pallido e snello era coperto solo dalla biancheria

    di pizzo,  con qualche brandello del completo pantaloni verde  che  le

    pendeva   dai  polsi  e  le  aderiva  alle  gambe  lacerate  e  ancora

    sanguinanti.

    Sfidando anche l'esplosione,  la pettinatura aveva conservato  la  sua

    eleganza laccata,  offuscata solo da un velo di fine sabbia bianca. La

    morte  le  aveva  giocato  un  macabro  scherzo...   perché  la  forza

    dell'esplosione   le   aveva  conficcato  nella  fronte  un  grumo  di

    lapislazzuli azzurri.  Si era incastonato nella  sua  scatola  cranica

    come l'occhio della tigre nel trono d'oro.

    I  suoi occhi erano chiusi,  mentre il terzo prezioso occhio di pietra

    mi fissava con odio accusatore.

    «Sono tutti morti» grugnì Chubby.

    «Sì,  sono morti» riconobbi,  distogliendo lo  sguardo  dalla  ragazza

    mutilata. Fui sorpreso di non sentire esultanza o soddisfazione né per

    la  sua morte né per il modo in cui era avvenuta.  La vendetta,  lungi

    dall'essere dolce, è del tutto insipida, pensai, mentre seguivo Chubby

    sulla spiaggia.

    Ero ancora malfermo per  effetto  dell'esplosione  e  anche  se  avevo

    riacquistato quasi del tutto l'udito faticavo a tener dietro a Chubby.

    Era agile, per la sua mole.

    Ero indietro di dieci passi quando sbucammo dagli alberi e ci fermammo

    in cima alla spiaggia.

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    La  baleniera  era  là  dove  l'avevamo lasciata,  ma i due marinai di

    guardia alla lancia dovevano aver sentito l'esplosione e deciso di non

    correre rischi.

    Erano già a metà strada dalla motovedetta e quando videro Chubby e  me

    uno  di  loro  scaricò  il  mitra nella nostra direzione.  La distanza

    superava di gran lunga le  possibilità  dell'arma  e  non  ci  curammo

    nemmeno di cercare riparo.  Comunque gli spari attirarono l'attenzione

    degli uomini  rimasti  a  bordo  della  motovedetta  e  vidi  che  tre

    correvano a prua ad armare il cannoncino.

    «Cominciano i guai» mormorai.

    Il  primo  colpo  fu  alto  ed  esplose  fra  le  palme dietro di noi,

    sforacchiandone i fusti.

    Chubby e io indietreggiammo in fretta e ci sdraiammo dietro la  cresta

    sabbiosa della spiaggia.

    «E adesso?» chiese Chubby.

    «E' una posizione di stallo» risposi. I due colpi seguenti del cannone

    a  tiro rapido sfogarono senza danno la loro furia fra gli alberi,  in

    alto e alle nostre spalle,  ma poi ci  fu  un  intervallo  di  qualche

    secondo e li vidi girare il cannone.

    Il  colpo seguente sollevò un'alta colonna d'acqua dalle secche vicino

    alla baleniera. Chubby lanciò un ruggito di collera, come una leonessa

    che vede minacciati i suoi cuccioli.

    «Cercano di affondare la baleniera!» muggì, mentre il colpo successivo

    s'infrangeva sulla spiaggia in un corto zampillo di sabbia.

    «Dammi» scattai, e gli tolsi il fucile,  ficcandogli in mano l'AK 47 e

    sfilandogli  dalle spalle la cinghia dello zaino.  La sua mira non era

    all'altezza del lavoro di fino che s'imponeva adesso.

    «Resta qui» gli ordinai, e saltai su piegato in due, seguendo la curva

    della baia.  Ormai mi  ero  ripreso  quasi  del  tutto  dagli  effetti

    dell'esplosione  e  non  appena  raggiunsi  la  punta  più vicina alla

    motovedetta mi appiattii col ventre sulla sabbia e  spinsi  avanti  la

    lunga canna dell'FN.

    I  cannonieri  si  accanivano  ancora contro la baleniera e colonne di

    sabbia e d'acqua si levavano in rapida successione intorno ad essa. La

    piastra anteriore blindata dell'armatura del cannone mi si  presentava

    di tre quarti e le spalle e i fianchi della postazione erano scoperti.

    Spostai il selettore di fuoco della carabina sul tiro singolo e trassi

    qualche  respiro  profondo  per  rendere  sicura la mira dopo la lunga

    corsa attraverso la sabbia soffice.

    Il puntatore stava azionando le manovelle per brandeggiare e aveva  la

    fronte premuta contro il cuscinetto sopra l'oculare.

    Lo centrai nel mirino e sparai un colpo solo. Fu sbalzato dal sedile e

    proiettato  di  traverso  sulla  culatta del cannone.  Le manovelle di

    puntamento,  abbandonate a se stesse,  girarono pigramente e la  canna

    del pezzo si solleva verso il cielo.

    I  due  serventi  si  guardarono intorno stupiti e io sparai contro di

    loro altri  due  colpi  senza  mirare.  Il  loro  stupore  si  tramutò

    all'istante  in  panico  e disertarono i loro posti scattando lungo il

    ponte e tuffandosi in un boccaporto aperto.

    Spostai la mira di lato, verso l'alto,  contro il ponte scoperto della

    motovedetta.  Tre colpi piazzati fra gli ufficiali e i marinai riuniti

    produssero un coro gratificante di strilli e il ponte  si  vuotò  come

    per incanto.

    La  lancia  proveniente  dalla  spiaggia  accostò  e io sospinsi i due

    marinai su per la murata e nella  cabina  di  coperta  con  altri  tre

    colpi. Trascurarono di legare la barca, che si allontanò alla deriva.

    Cambiai  il  caricatore  della  carabina  e  poi  con calma deliberata

    piazzai una pallottola in ognuno degli oblò sul lato  più  vicino  del

    battello.  Sentii chiaramente lo schiocco dei vetri in frantumi a ogni

    sparo.

    Questa si rivelò una provocazione troppo sfacciata per Suleiman  Dada.

    Sentii  sferragliare  l'argano e la catena dell'ancora rientrò a prua,

    luccicante d'acqua;  appena l'ancora sbucò  in  superficie  le  eliche

    della  motovedetta fecero ribollire a poppa un vortice di schiuma e la

    barca virò verso l'apertura della laguna.

    La tenni sotto tiro mentre superava lentamente  il  mio  nascondiglio,

    nel  caso cambiasse idea sulla partenza.  Il ponte era protetto da una

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    tenda sporca di tela bianca e capii che il timoniere era rintanato  là

    dietro a testa bassa.  Sparai vari colpi attraverso la tela,  tentando

    di indovinare la sua posizione.

    Non  ottenni  nessun  risultato  apparente,   così  riportai  la   mia

    attenzione  sugli oblò,  sperando in un rimbalzo fortunato all'interno

    dello scafo.

    La  motovedetta   acquistò   rapidamente   velocità,   cominciando   a

    ballonzolare  come una vecchia signora che rincorre l'autobus.  Doppiò

    la punta e io mi  alzai  e  mi  spazzolai  di  dosso  la  sabbia.  Poi

    ricaricai il fucile e mi lanciai di corsa fra le palme.

    Quando   raggiunsi   la  punta  settentrionale  dell'isola  e  arrivai

    abbastanza in alto sul pendio da dominare il  canale,  la  motovedetta

    era  a  più  di un chilometro,  diretta risolutamente verso il lontano

    continente africano,  una piccola sagoma bianca tra il  verde  sfumato

    del mare e l'azzurro più intenso del cielo, in alto.

    Mi  ficcai  sotto  il  braccio  l'FN  e trovai un posto dove sedermi a

    osservare i suoi progressi.  Il mio orologio segnava le dieci e  sette

    minuti e cominciai a chiedermi se la cassa di gelignite sotto la poppa

    della  motovedetta  non  si  fosse staccata per effetto della trazione

    dell'acqua e del getto delle eliche.

    Ora la motovedetta stava  passando  in  mezzo  alle  barriere  esterne

    sommerse,  prima  di entrare nelle acque aperte che si stendevano fino

    alla costa.  Le barriere lanciavano  spruzzi  a  intervalli  regolari,

    emettendo una spuma bianca ad ogni assalto del mare, come se un mostro

    respirasse acquattato sotto la superficie.

    Il  puntolino bianco dello scafo sembrava etereo e immateriale in quel

    deserto di  mare  e  cielo,  presto  si  sarebbe  fuso  con  le  acque

    dell'oceano corrugate dal vento e increspate dalla corrente.

    L'esplosione, quando si verificò, fu priva di effetto, la sua violenza

    fu   attutita   dalla   distanza  e  il  suono  addolcito  dal  vento.

    All'improvviso si levò un geyser d'acqua che  avviluppò  il  minuscolo

    battello bianco.  Sembrava una piuma di struzzo, morbida e ondeggiante

    al vento,  che raggiunta la massima altezza s'inarcò,  poi perse  ogni

    forma e si tramutò in una macchia sulla superficie agitata.

    Il  suono mi arrivò parecchi secondi dopo,  un solo tonfo sordo,  mite

    con i miei timpani ancora sensibili,  e mi parve di  sentire  come  un

    soffio di vento sul viso.

    Quando  la  schiuma  si fu placata il canale era vuoto,  del minuscolo

    battello non restava traccia e del suo passaggio sulle  acque  agitate

    dal vento non era rimasto il minimo segno.

    Sapevo  che  con  la  marea i grossi squali Albacore dall'aria crudele

    venivano  a  caccia  a  riva,  sospinti  dalla  corrente.  Ben  presto

    avrebbero  fiutato nell'acqua la traccia di sangue e carni dilaniate e

    dubitavo  che  chiunque  fosse  sopravvissuto   all'esplosione   della

    motovedetta  potesse  sfuggire  a  lungo  alle  attenzioni  di  quegli

    assassini ottusi e voraci. Quelli che trovavano il comandante Suleiman

    avrebbero fatto buona caccia, pensai, a meno che non riconoscessero in

    lui un loro simile e gli accordassero i privilegi  professionali.  Era

    una  battuta  piuttosto  macabra,  e  mi  procurò  solo  un  attimo di

    divertimento. Mi alzai e scesi verso le caverne.

    Scoprii che la mia cassetta di pronto  soccorso  era  stata  aperta  e

    svuotata  durante  il  saccheggio  del  giorno  prima,   ma  recuperai

    materiale sufficiente a pulire e medicare le dita mutilate di  Sherry.

    Erano state strappate tre unghie.  Temevo che le matrici fossero state

    distrutte e che  non  sarebbero  più  ricresciute,  ma  quando  Sherry

    espresse gli stessi timori li smentii recisamente.

    Una  volta curate le ferite le feci ingoiare un paio di codeine per il

    dolore e le preparai un letto in fondo alla caverna.

    «Riposa» le dissi, inginocchiandomi per baciarla con tenerezza. «Cerca

    di dormire. Verrò a prenderti quando saremo pronti per la partenza.»

    Chubby era già impegnato nei preparativi necessari.  Aveva controllato

    la  baleniera  e  a  parte  alcuni fori di shrapnel l'aveva trovata in

    buone condizioni.

    Tappammo i fori con lo stucco  speciale  preso  dalla  cassetta  degli

    attrezzi e la lasciammo sulla spiaggia.

    La buca in cui era stata sepolta la cassetta servì da fossa comune per

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    i  morti che vi giacevano intorno.  Li stendemmo dentro come sardine e

    li coprimmo con sabbia soffice.

    Esumammo dalla sua tomba la testa d'oro,  con l'occhio che scintillava

    ancora sulla fronte ampia, e barcollando sotto il suo peso la portammo

    giù alla baleniera e la circondammo con i cuscini di politene in fondo

    alla  barca.  I  pacchetti di plastica di zaffiri e smeraldi li ficcai

    nello zaino che posi vicino alla testa.

    Poi tornammo alle caverne  e  recuperammo  tutte  le  provviste  e  il

    materiale  che  non  era  stato danneggiato.  Era pomeriggio inoltrato

    quando finimmo di sistemare tutto nella baleniera,  e io  ero  stanco.

    Posai il fucile FN in cima al carico e mi tirai indietro.

    «A  posto,  Chubby?»  gli  chiesi  mentre  accendevamo  un sigaro e ci

    concedevamo, la prima pausa. «Penso che ora possiamo partire.»

    Chubby aspirò una boccata e soffiò un lungo  sbuffo  di  fumo  azzurro

    prima di sputare sulla sabbia.  «Voglio solo andare a prendere Angelo»

    borbottò,  e quando lo fissai spiegò: «Non posso lasciare  il  ragazzo

    lassù.  Qui  è  troppo  deserto,  vorrà  stare  con i suoi in una vera

    tomba».

    Così, mentre io tornavo alle caverne a chiamare Sherry,  Chubby scelse

    un telone e si allontanò nel buio che si addensava.

    Svegliai  Sherry  e  mi assicurai che stesse al caldo con uno dei miei

    maglioni addosso,  poi le detti altre due compresse e la portai  verso

    la spiaggia. Ormai era buio e tenevo la torcia in una mano, mentre con

    l'altra aiutavo Sherry.  Raggiungemmo la spiaggia e mi fermai incerto.

    Sentii che qualcosa non andava e puntai la pila sulla barca carica.

    Poi capii cos'era e provai un lieve senso di nausea allo stomaco.

    Il fucile non era più dove l'avevo lasciato, nella baleniera.

    «Sherry» bisbigliai con urgenza «sta giù e restaci finché  non  te  lo

    dico io.»

    Lei si lasciò subito cadere sulla sabbia vicino allo scafo in secca, e

    io cercai freneticamente un'arma.  Pensai al fucile subacqueo,  ma era

    sotto le lattine.  Il mio coltello per le esche era ancora  conficcato

    nel tronco di una palma... me n'ero dimenticato fino a questo momento.

    Una chiave inglese dalla cassetta degli utensili, magari... ma riuscii

    soltanto a formulare il pensiero.

    «Buono,  Harry, ho il fucile.» La profonda voce gutturale si sprigionò

    dal buio  proprio  alle  mie  spalle.  «Non  si  volti  e  non  faccia

    sciocchezze.»

    Doveva  essere rimasto disteso nel boschetto dopo aver preso il fucile

    e ora mi era arrivato alle spalle. Rimasi impietrito.

    «Senza voltarsi... mi lanci quella torcia. Sopra la spalla.»

    Obbedii e sentii la sabbia scricchiolare sotto i suoi piedi mentre  si

    chinava a raccoglierla.

    «Va bene,  si giri... piano.» Quando mi voltai mi puntò negli occhi il

    raggio potente, abbagliandomi.  Tuttavia riuscivo ancora a distinguere

    vagamente l'enorme sagoma sgraziata dell'uomo oltre il fascio di luce.

    «Ha  fatto  una bella nuotata,  Suleiman?» gli chiesi.  Mi accorsi che

    portava solo un paio di corte mutande bianche e il ventre enorme e  le

    grosse gambe sformate luccicavano umide al riflesso della torcia.

    «Sto diventando allergico ai suoi scherzi,  Harry» riprese lui, con la

    sua voce profonda e ben  modulata,  e  ricordai  troppo  tardi  quanto

    diventa  leggero  e  forte un uomo obeso nell'acqua di mare.  Tuttavia

    anche  con  il  favore  della  marea  Suleiman  Dada  aveva   compiuto

    un'impresa  formidabile,  sopravvivendo all'esplosione e percorrendo a

    nuoto due miglia di mare agitato.  Dubitavo che qualcun altro dei suoi

    uomini avesse fatto altrettanto.

    «Penso  che dovrei cominciare dal ventre» riprese e vidi che teneva il

    calcio del fucile sul gomito sinistro.  Con la stessa mano mi  puntava

    il  raggio  della  torcia  in  faccia.  «Mi dicono che è la ferita più

    dolorosa.»

    Quindi restammo in silenzio per qualche istante,  Suleiman Dada con il

    suo   profondo   ansito  asmatico  e  io  cercando  disperatamente  di

    escogitare un modo per distrarlo quel  tanto  da  poter  afferrare  la

    canna del fucile.

    «Non   sarebbe   per   caso  disposto  a  gettarsi  in  ginocchio  per

    supplicarmi?» domandò.

    «Vada a farsi fottere, Suleiman» risposi.

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    «No,  non credevo proprio che l'avrebbe  fatto.  Peccato,  mi  sarebbe

    piaciuto.  Ma che ne dice della ragazza, Harry, certo varrebbe la pena

    di sacrificare un po' del suo orgoglio...»

    Sentimmo entrambi Chubby.  Aveva capito di non poter  attraversare  la

    spiaggia  senza  farsi  scoprire,  nemmeno  al buio.  Aveva tentato di

    indurre Suleiman Dada a spostarsi,  ma sono certo che  sapeva  di  non

    farcela.  Il suo scopo, in realtà, era di offrirmi il diversivo di cui

    avevo disperatamente bisogno.

    Balzò fuori dal buio,  correndo  silenziosamente  tradito  solo  dallo

    scricchiolio  della  sabbia sotto i piedi.  Anche quando Suleiman Dada

    gli puntò contro il fucile, non tentennò.

    Ancor prima che risuonasse lo schiocco dello sparo e  dalla  canna  si

    sprigionasse la lunga fiammata abbacinante,  io avevo già coperto metà

    della  distanza  che  mi  separava  dal  gigante  nero.  Con  la  coda

    dell'occhio  vidi Chubby cadere,  poi Suleiman Dada cominciò a puntare

    il fucile verso di me.

    Io deviai la canna dell'arma sfiorandola e gli piantai una spalla  nel

    torace. Avrebbe dovuto sfondargli le costole, invece sentii la potenza

    del mio slancio assorbita dalla spessa imbottitura di grasso. Era come

    lanciarsi  contro  un materasso di piume d'oca e anche se indietreggiò

    barcollando di alcuni passi e perse il fucile,  Suleiman  Dada  rimase

    ritto  su  quei  due  tronchi  massicci  di  gambe,  e  prima di poter

    recuperare  l'equilibrio  mi  sentii  avviluppare  in  una  gigantesca

    stretta da orso.

    Mi afferrò di peso e mi attirò sul suo petto soffice,  intrappolandomi

    con le braccia e sollevandomi da terra in modo che non  potei  puntare

    le  gambe  per  resistere.  Provai  un  brivido d'incredulità,  quando

    sperimentai la forza di quell'uomo,  non una pura  forza  bruta...  ma

    qualcosa  di tanto imponente e poderoso che sembrava non avere limiti,

    quasi come l'impeto inarrestabile del mare.

    Tentai con i gomiti  e  le  ginocchia,  scalciando  e  picchiando  per

    spezzare la morsa,  ma i colpi non incontravano niente di solido e non

    facevano nessun effetto su di lui.  Invece la stretta avvolgente delle

    sue  braccia cominciò a serrarsi con la lenta pressione delle spire di

    un pitone gigante.  Capii subito che era  capacissimo  di  stritolarmi

    letteralmente...  e  provai  un senso di panico.  Mi contorsi e lottai

    freneticamente fra le sue braccia,  senza ottenere altro  effetto  che

    aumentare  l'enorme  potenza  che esercitava su di me.  Il suo respiro

    sibilante si fece più aspro e lui si  chinò  in  avanti,  curvando  le

    grosse  spalle e forzandomi la schiena all'indietro in un arco che nel

    giro di pochi secondi mi avrebbe spezzato la spina dorsale.

    Allora piegai all'indietro la testa,  la rialzai con la bocca aperta e

    serrai i denti sul largo naso schiacciato. Addentai con la forza della

    disperazione,  e  sentii  distintamente  i  miei denti penetrare nella

    carne e nella cartilagine del suo naso e subito la bocca mi si  riempì

    di un caldo fiotto di sangue.  Come un cane in un combattimento contro

    un toro, azzannai e tirai.

    L'uomo lanciò un ruggito di dolore e di collera e lasciò la presa  con

    cui  mi stava stritolando per cercare di staccare i miei denti dal suo

    viso.  Appena mi sentii le braccia libere sgusciai  con  un  guizzo  e

    piantai  i piedi sulla sabbia umida,  in modo da colpirlo all'anca per

    atterrarlo.  Era così intento nel tentativo di liberare il  naso,  che

    non  resistette  al  colpo e mentre finiva riverso all'indietro i miei

    denti gli strapparono un pezzo di carne viva.

    Sputai l'orribile boccone,  ma il sangue caldo mi scorse  giù  per  il

    mento e dovetti resistere alla tentazione di asciugarmi.

    Suleiman  Dada  era  disteso  sulla  schiena,  arenato  come un enorme

    ranocchio nero,  ma non sarebbe  rimasto  impotente  ancora  a  lungo,

    dovevo metterlo fuori combattimento sul serio e c'era solo un punto in

    cui  poteva  essere vulnerabile.  Mi slanciai su di lui con un balzo e

    ricadendo gli piombai sulla gola  per  puntargli  un  ginocchio  sulla

    laringe con tutto il peso e l'impeto del mio corpo e sfondargliela.

    Fu rapido come un cobra, sollevando le braccia per proteggersi la gola

    e  afferrarmi  mentre  piombavo  su  di  lui.  Ancora  una volta finii

    avviluppato da quelle grosse braccia nere e rotolammo avvinghiati  giù

    per la spiaggia, nell'acqua calda e bassa della laguna.

    In un corpo a corpo come questo ero svantaggiato e lui mi fu sopra col

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    sangue che gli colava dal naso ferito,  muggendo ancora di collera,  e

    m'inchiodò  sul  fondale  basso  spingendomi  la  testa  sott'acqua  e

    premendomi sul torace e sui polmoni con tutto il suo enorme peso.

    Cominciai  ad  affogare.  I  polmoni  mi  bruciavano  e  il bisogno di

    respirare mi accendeva negli  occhi  scintille  e  spirali  di  fuoco.

    Sentivo la forza abbandonarmi e la lucidità dissolversi nel buio.

    Lo sparo,  quando risuonò,  fu sordo e attutito.  Non lo riconobbi per

    quello che era finché non sentii Suleiman Dada guizzare e irrigidirsi,

    abbandonato dalle forze, e la sua mole scivolare di lato,  lasciandomi

    libero.

    Mi alzai a sedere, tossendo e ansimando, con l'acqua che mi colava dai

    capelli e mi scorreva negli occhi.  Alla luce della torcia caduta vidi

    Sherry inginocchiata sulla sabbia in riva al  mare.  Aveva  il  fucile

    ancora stretto nella mano bendata e il viso pallido e spaventato.

    Accanto  a  me  Suleiman  Dada  galleggiava a faccia in giù nell'acqua

    bassa,  il corpo seminudo nero e lucente come un delfino in secca.  Mi

    alzai   lentamente  grondando  acqua  dai  vestiti  e  lei  mi  fissò,

    inorridita da quello che aveva fatto.

    «Oh Dio» bisbigliò «l'ho ucciso. Oh Dio!»

    «Piccola» ansimai «questa è la cosa migliore che tu abbia mai fatto» e

    barcollando proseguii fino al punto in cui era disteso Chubby.

    Stava cercando di tirarsi su, lottando debolmente.

    «Buono,  Chubby» lo rimproverai,  e presi la torcia.  Aveva del sangue

    fresco  sulla camicia e io la sbottonai e l'allargai sull'ampio torace

    scuro.

    Era bassa,  sulla sinistra,  ma era una ferita  al  polmone.  Vidi  le

    bollicine  gorgogliare  nel  foro  scuro  a  ogni  respiro.  Ho  visto

    abbastanza ferite di arma da fuoco da diventare una specie di autorità

    in materia e capii che questa era brutta.

    Mi guardò in faccia. «Come ti sembra?» grugnì. «Non fa male.»

    «E' una bellezza» ribattei cupo.  «Ogni volta che berrai una birra  ti

    schizzerà  fuori  dal buco.» Lui mi rivolse un sorriso sghembo e io lo

    aiutai a sedersi. Il foro di uscita era netto e pulito,  dato che l'FN

    era  stato  caricato  con  munizioni  solide,  ed era solo di poco più

    grande del foro d'entrata. Il proiettile non si era schiacciato contro

    l'osso.

    Nella cassetta del pronto soccorso trovai un paio di bende da campo  e

    fasciai le ferite prima di aiutar1o a salire sulla barca. Sherry aveva

    preparato un materasso e lo coprimmo con le coperte.

    «Non  scordarti di Angelo» bisbigliò.  Trovai il lungo involto di tela

    dove Chubby l'aveva lasciato cadere.  Lo portai giù  e  lo  distesi  a

    prua.

    Spinsi  la  baleniera  entrando  in  acqua  fino alla cintola,  poi mi

    arrampicai oltre la fiancata e avviai  i  motori.  Ora  il  mio  unico

    pensiero era di procurare a Chubby cure mediche adeguate,  ma la corsa

    fra le isole fino a Saint Mary fu lunga.

    Sherry sedeva accanto a Chubby sul fondo, facendo quel poco che poteva

    per confortarlo, mentre io stavo ritto a poppa fra i motori, navigando

    nel canale profondo prima di virare a sud  sotto  un  cielo  pieno  di

    stelle bianche e fredde, col mio carico di feriti, moribondi e morti.

    Stavamo  navigando  da  quasi  cinque  ore  quando Sherry si alzò e si

    diresse verso di me.

    «Chubby vuole parlarti» disse piano,  poi d'impulso si chinò in avanti

    e  mi toccò la guancia con le dita gelide della mano sana.  «Penso che

    se ne stia andando, Harry.» E nella sua voce sentii la desolazione.

    Le passai il timone.  «Vedi quelle due stelle luminose?» Le indicai la

    Croce del Sud. «Seguile» e mi diressi a prua da Chubby.

    Per  un po' parve non riconoscermi,  e io m'inginocchiai accanto a lui

    ascoltando il suono liquido del suo respiro.  Poi alla fine riacquistò

    la lucidità. Alzò gli occhi su di me e io mi chinai più vicino, finché

    i nostri volti furono separati solo da pochi centimetri.

    «Abbiamo preso dei bei pesci insieme, Harry» bisbigliò.

    «Ne prenderemo tanti altri» ribattei.  «Con quello che abbiamo a bordo

    potremo comprarci una barca veramente bella. Tu e io pescheremo ancora

    insieme, la prossima stagione... questo è certo.»

    Poi restammo in silenzio a lungo,  finché alla fine sentii la sua mano

    cercare tentoni la mia e la presi,  stringendola forte. Sentii i calli

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    e le lunghe scottature lasciate dalle gomene in anni di pesca. «Harry»

    la sua voce era così debole che riuscii appena a  sentirla  accostando

    l'orecchio alle sue labbra. «Harry, ti dirò una cosa che non ti ho mai

    detto prima. Ti voglio bene, amico» bisbigliò. «Ti voglio bene più che

    a mio fratello.»

    «Anch'io  ti voglio bene,  Chubby» replicai,  e per qualche istante la

    stretta fu di nuovo forte, poi si allentò. Rimasi seduto accanto a lui

    mentre quella grossa mano si  raffreddava  lentamente  fra  le  mie  e

    l'alba cominciava a schiarire il cielo sul mare cupo e pensieroso.

    Nelle  tre  settimane seguenti Sherry e io lasciammo raramente l'eremo

    di Turtle  Bay.  Ci  recammo  insieme,  impacciati,  al  cimitero  per

    assistere alla sepoltura dei nostri amici e una volta io andai da solo

    al  forte  e  passai  due  ore  con  il  presidente  Godfrey  Biddle e

    l'ispettore Wally Andrews,  ma per il resto del  tempo  restammo  soli

    mentre le ferite si rimarginavano.

    I nostri corpi guarivano più in fretta delle anime. Un mattino, mentre

    medicavo  la mano di Sherry,  notai i semi di un bianco perlaceo nella

    carne delle dita,  in via di guarigione,  e mi accorsi  che  erano  le

    matrici  che  ricrescevano.  Le  unghie sarebbero tornate ad abbellire

    quelle lunghe mani snelle, e io ringraziai il cielo per questo.

    Non furono giorni felici: i ricordi erano troppo recenti,  le giornate

    rattristate dal lutto per Chubby e Angelo,  e sapevamo entrambi che il

    momento critico della nostra relazione era alle porte.  Intuivo  quale

    travaglio doveva affrontare e le perdonavo i facili scoppi di collera,

    i  lunghi silenzi imbronciati e le improvvise sparizioni dal bungalow,

    quando per ore intere camminava lungo le spiagge deserte o se ne stava

    seduta, figura remota e solitaria, sul promontorio della baia.

    Alla fine capii che era abbastanza forte da affrontare quello  che  ci

    aspettava.  Una  sera,  per  la prima volta dal nostro ritorno a Saint

    Mary, sollevai l'argomento del tesoro.

    Adesso era sepolto fra le fondamenta sopraelevate del bungalow. Sherry

    mi stette a sentire in silenzio mentre eravamo  seduti  insieme  sulla

    veranda  a  bere whisky e ad ascoltare il suono della risacca notturna

    sulla spiaggia.

    «Voglio che tu mi preceda  per  predisporre  l'arrivo  della  bara.  A

    Zurigo noleggia un'auto e prosegui fino a Basilea. Lì ho prenotato una

    camera per te al Red Ox Hotel. Ho scelto quello perché hanno un garage

    sotterraneo e conosco il capo dei facchini. Si chiama Max.» Le spiegai

    i miei piani.  «Lui farà in modo che un carro funebre attenda l'arrivo

    dell'aereo. Tu farai la parte della vedova afflitta e porterai la bara

    a Basilea.  Effettueremo lo scambio nel garage e tu chiederai  al  mio

    banchiere di preparare un'auto blindata per trasportare la testa della

    tigre nella sede della sua banca.»

    «Hai previsto tutto, vero?»

    «Lo  spero.»  Mi  versai un altro bicchiere.  «La mia banca è Falle et

    Fils e l'uomo cui devi rivolgerti  è  il  signor  Challon.  Quando  lo

    incontrerai  gli  darai  il  mio  nome  e  il  numero del mio conto...

    millesessantasei,  la data della battaglia di Hastings.  Devi metterti

    d'accordo  con Challon per ottenere una sala riservata in cui possiamo

    invitare gli acquirenti a vedere la testa...» Seguitai a spiegare  nei

    dettagli  gli accordi che avevo preso e lei mi ascoltò con attenzione.

    Ogni tanto faceva una domanda,  ma per lo più taceva e alla fine tirai

    fuori il biglietto d'aereo e un sottile fascio di travellers' cheques.

    «Hai già fatto le prenotazioni?» Sembrò perplessa e quando annuii aprì

    il biglietto. «Quando parto?»

    «Domani a mezzogiorno.»

    «E tu quando mi seguirai?»

    «Sullo stesso aereo della bara,  tre giorni dopo...  venerdì. Arriverò

    con un volo BOAC all'una e mezzo del pomeriggio.  Questo  ti  darà  il

    tempo di predisporre tutto e di venire a prendermi.»

    Quella  notte fu tenera e amorevole come sempre,  ma nonostante questo

    avvertii in lei una  malinconia  profonda...  come  al  momento  degli

    addii.

    All'alba  i  delfini  ci  vennero  incontro  all'ingresso della baia e

    giocammo con loro per mezza mattinata,  prima di tornare lentamente  a

    riva.

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    L'accompagnai  all'aeroporto  col vecchio furgone.  Per quasi tutto il

    tragitto lei rimase in silenzio, poi cercò di parlare, ma si impappinò

    e non riuscì a dire niente di comprensibile. Concluse debolmente: «...

    se mai ci succederà  qualcosa,  be',  voglio  dire,  niente  dura  per

    sempre, no?...»

    «Continua» la incitai.

    «No,  non  è  niente.  Solo  che  dovremmo  cercare di perdonarci l'un

    l'altro...  se succedesse qualcosa.» Era tutto quello che era disposta

    a  dire:  alla barriera dell'aeroporto mi baciò appena e per un attimo

    mi serrò il collo fra le braccia,  poi  si  diresse  in  fretta  verso

    l'apparecchio  in  attesa.  Non  si  voltò  indietro  né agitò la mano

    salendo la scaletta.

    Osservai l'aereo innalzarsi rapidamente e puntare attraverso il canale

    verso la terraferma; poi tornai lentamente a Turtle Bay.

    Senza di lei la casa era deserta e quella notte,  mentre giacevo  solo

    sul  grande letto sotto la zanzariera,  capii che il rischio che stavo

    per correre era necessario. Molto pericoloso ma necessario. Sapevo che

    dovevo riaverla qui.  Senza di lei la vita non  aveva  sapore.  Dovevo

    sperare  che  l'attrazione  che  esercitavo  su di lei soverchiasse le

    altre forze che la dominavano.  Dovevo lasciarle fare la sua scelta  e

    nello  stesso  tempo  tentare  di  influenzarla  con ogni mezzo in mio

    potere.

    La mattina dopo scesi  a  Saint  Mary  e  dopo  che  ebbi  discusso  e

    contrattato a lungo con Fred Coker e ci fummo scambiati reciprocamente

    denaro e promesse, lui aprì le porte del suo deposito e io parcheggiai

    il  camioncino  a  fianco  del carro funebre.  Caricammo sul retro del

    furgone una delle bare migliori,  in teak  con  le  maniglie  placcate

    d'argento  e l'interno foderato di velluto rosso,  e tornammo a Turtle

    Bay.  Quando ebbi riempito la bara e chiuso il coperchio,  pesava poco

    meno di duecentocinquanta chili.

    Appena  fece  buio  tornai in città e prima che avessi preso tutti gli

    accordi giunse quasi l'ora di chiusura al Lord Nelson.  Ebbi appena il

    tempo  di  bere in fretta un bicchierino,  poi me ne ritornai a Turtle

    Bay  per  riempire  la  mia  vecchia  e  malconcia  sacca  da  viaggio

    dell'esercito.

    A  mezzogiorno  del  giovedì,  ventiquattr'ore  prima  di quanto avevo

    concordato con Sherry North,  salii sull'aereo  per  la  terraferma  e

    quella sera presi la coincidenza della BOAC in partenza da Nairobi.

    All'aeroporto  di Zurigo non c'era nessuno ad aspettarmi perché ero in

    anticipo di un giorno intero,  e superai in fretta la dogana  sbucando

    nel vasto atrio degli arrivi.

    Depositai  il  bagaglio  prima  di  dedicarmi  a  sistemare gli ultimi

    dettagli del mio piano. Trovai un volo in partenza all'una e venti del

    giorno seguente che si adattava alla perfezione alla  mia  tabella  di

    marcia.  Prenotai  un  posto,  poi  mi  diressi  al banco dell'ufficio

    informazioni e attesi finché la graziosa biondina nell'uniforme  della

    Swissair  non  fu  libera da impegni,  prima di lanciarmi in una lunga

    spiegazione. Da principio si mostrò inflessibile, ma poi le rivolsi il

    mio sguardo assassino e il mio irresistibile sorriso, finché alla fine

    si lasciò incuriosire... e ridacchiò pregustando la scena.

    «E' sicura di essere in servizio domani?» le chiesi con ansia.

    «Sì, "monsieur", non si preoccupi, sarò qui.»

    Ci separammo da amici e io recuperai il mio bagaglio e presi  un  taxi

    fino all'Holiday Inn di Zurigo, poco lontano. Lo stesso albergo in cui

    avevo  fatto  il  tifo  per  la sopravvivenza del poliziotto olandese,

    tanto tempo prima.  Ordinai da bere,  feci un bagno e poi  mi  sedetti

    davanti al televisore. I ricordi si ridestarono.

    Il   giorno   dopo,   prima  di  mezzogiorno,   ero  seduto  al  caffè

    dell'aeroporto,   fingendo  di  leggere  una  copia  del  «Frankfurter

    Allgemeine  Zeitung»  e osservando sopra l'orlo della pagina il salone

    degli arrivi.  Avevo già consegnato il bagaglio e  il  biglietto.  Non

    dovevo fare altro che passare nel salone delle partenze.

    Indossavo  un  vestito  nuovo acquistato quella mattina,  di un taglio

    così bizzarro e di una sfumatura di verde tanto orribile  che  nessuno

    che  mi  conoscesse  poteva  credere  che  Harry  Fletcher  si sarebbe

    mostrato in pubblico conciato così.  Era troppo grande di due taglie e

    mi  ero  imbottito  con  gli asciugamani dell'albergo per alterare del

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    tutto la mia fisionomia.  Mi ero anche tagliato da solo i  capelli  in

    una  foggia  corta  e  irregolare  e  li avevo spolverati di talco per

    aggiungermi quindici anni di età. Quando mi ero guardato allo specchio

    della toilette attraverso gli occhiali  cerchiati  d'oro  non  mi  ero

    riconosciuto.

    All'una  e  sette minuti Sherry North entrò dalla porta principale del

    terminal.  Indossava  un  vestito  di  lana  grigia  a  quadretti,  un

    soprabito  lungo  di  pelle  nera  e  un sobrio cappellino di cuoio in

    tinta,  con la falda stretta.  Aveva gli occhi nascosti da un paio  di

    occhiali scuri, ma la sua espressione era tesa e decisa mentre fendeva

    la folla dei turisti.

    Nel  vedere  confermati  tutti i miei sospetti e timori,  mi sentii lo

    stomaco in subbuglio e il giornale  mi  tremò  fra  le  mani.  Al  suo

    fianco,  un  passo  indietro,  c'era  la  figura  piccola  e  azzimata

    dell'uomo che lei mi aveva  presentato  come  "zio  Dan".  Portava  un

    berretto di tweed e teneva un soprabito ripiegato sul braccio.  Mentre

    seguiva la ragazza col passo vigile e sicuro del cacciatore, trasudava

    più che mai un'aria di efficienza.

    Aveva con sé quattro dei suoi uomini.  Si muovevano in silenzio dietro

    di  lui,  tranquilli,  vestiti  sobriamente,  con  la  faccia chiusa e

    attenta.

    «Oh,  piccola puttana» mormorai,  ma mi chiesi perché me la  prendessi

    tanto. Lo sapevo da parecchio tempo, ormai.

    Il gruppo formato dalla ragazza e dai cinque uomini si fermò al centro

    dell'atrio  e  osservai  il  caro  zio  Dan  impartire ordini.  Era un

    professionista,  lo si vedeva dal modo in cui trasformava  l'atrio  in

    una  trappola.  Dispose  gli  uomini in modo da sorvegliare i cancelli

    d'arrivo e tutte le uscite.

    Sherry North stava ad ascoltare in silenzio,  il viso  inespressivo  e

    gli occhi nascosti dagli occhiali. Una volta lo zio Dan le parlò e lei

    annuì bruscamente,  poi, quando i quattro agenti furono ai loro posti,

    loro due rimasero in piedi insieme di fronte al cancello d'arrivo.

    "Dattela a gambe adesso,  Harry",  mi incitò la  vocetta  ammonitrice.

    "Non  fare  l'eroe.  Qui  ricomincia la solita solfa.  Scappa,  Harry,

    scappa."

    Proprio  allora  l'altoparlante  annuncia  il  volo  sul  quale  avevo

    prenotato  un  posto  il  giorno prima.  Mi alzai dal tavolino col mio

    vestito tutto  sformato  e  senza  attirare  l'attenzione  mi  diressi

    all'ufficio informazioni.  La biondina della Swissair da principio non

    mi riconobbe,  poi spalancò la bocca e sgranò gli occhi  che  dopo  un

    attimo luccicarono dalla gioia della cospirazione.

    «La  cabina  in  fondo»  bisbigliò  «quella  più  vicina  al  cancello

    d'imbarco.» Le strizzai l'occhio e mi  allontanai.  Dentro  la  cabina

    sollevai il ricevitore e finsi di parlare, tenendo interrotta la linea

    con un dito sulla forcella e osservando l'atrio attraverso la porta di

    vetro.

    Sentii la mia complice parlare all'altoparlante.

    «Miss   Sherry  North,   Miss  North  per  favore  voglia  presentarsi

    all'ufficio informazioni.»

    Attraverso il vetro vidi Sherry avvicinarsi al banco e parlare con  la

    hostess. La bionda indicò la cabina accanto alla mia e Sherry si volse

    e  venne diritta verso di me.  La fila di cabine faceva da schermo fra

    lei e l'allegra brigata dello zio Dan.

    Il cappotto di cuoio ondeggiava con grazia intorno alle belle gambe, i

    capelli neri erano lucidi e le danzavano sulle spalle  a  ogni  passo.

    Vidi  che portava guanti di cuoio nero per nascondere la mano ferita e

    pensai che non era mai stata tanto bella come nel momento  in  cui  mi

    tradiva.

    Entrò  nella  cabina  accanto  alla  mia  e sollevò il ricevitore.  Io

    agganciai in fretta e uscii dalla cabina.  Quando aprii la porta della

    sua, lei si guardò intorno seccata e impaziente.

    «Okay,  stupida  sbirra...  dimmi una buona ragione per cui non dovrei

    romperti la testa» esclamai.

    «Tu?» Il suo viso si contrasse e la mano salì alla bocca.  Ci fissammo

    negli occhi.

    «Che cosa è successo alla vera Sherry North?» le chiesi,  e la domanda

    parve ridarle forza.

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    «E' stata uccisa. Abbiamo trovato il suo corpo, quasi irriconoscibile,

    in una cava fuori Ascot.»

    «Manny Resnick mi aveva detto di averla uccisa» osservai.  «Io non gli

    ho creduto.  Ha anche riso di me quando sono salito a bordo a trattare

    per la tua vita con lui e Suleiman Dada. Ti ho chiamato Sherry North e

    lui mi ha riso in faccia e mi ha  dato  dell'idiota.»  Le  rivolsi  un

    sorriso tirato. «Aveva ragione, no? Sono stato un idiota.»

    Allora lei tacque,  incapace di affrontare il mio sguardo. Io seguitai

    a parlare, vedendo confermate le mie intuizioni.

    «Così,  quando Sherry North  è  stata  uccisa,  hanno  deciso  di  non

    rivelare  la  sua identità e di preparare una trappola nel cottage dei

    North.  Sperando che gli assassini tornassero a indagare  sulla  nuova

    arrivata  o  che  qualche  altro  fesso  si lasciasse abbindolare e li

    guidasse alla soluzione.  Ti hanno scelta  per  la  parte  perché  eri

    un'esperta sommozzatrice della polizia. E' così, vero?»

    Lei assentì, sempre senza guardarmi.

    «Avrebbero   dovuto   controllare   che   sapessi  anche  qualcosa  di

    conchiglie.  Almeno non avresti afferrato quel  pezzo  di  corallo  di

    fuoco... e mi avresti risparmiato un sacco di guai.»

    Aveva superato il primo choc della mia comparsa. Questo era il momento

    di  suonare il fischietto per chiamare lo zio Dan e i suoi uomini,  se

    ne aveva l'intenzione.  Rimase in silenzio,  il  viso  girato  di  tre

    quarti, le guance arrossate sotto l'abbronzatura dorata.

    «Quella  prima sera hai telefonato quando credevi che stessi dormendo.

    Volevi riferire ai tuoi superiori che era arrivato un merlo.  Loro  ti

    hanno suggerito di darmi corda. E tu... oh, se me ne hai data!»

    Finalmente  lei mi guardò gli occhi azzurri scintillanti di sfida;  le

    parole sembravano ribollire  dietro  le  sue  labbra  serrate,  ma  le

    trattenne e io proseguii.

    «Ecco perché hai usato l'ingresso posteriore del negozio di Jimmy, per

    evitare  i  vicini  che  conoscevano  Sherry.  Ecco  perché  quei  due

    giannizzeri di Manny sono venuti ad arrostirti le dita sul fornello  a

    gas.  Volevano  scoprire  chi eri...  perché sapevano bene che non eri

    Sherry North. L'avevano uccisa loro.»

    Ora volevo che parlasse. Il suo silenzio mi logorava i nervi.

    «Che grado ha lo zio Dan... ispettore?»

    «Ispettore capo» rispose.

    «L'ho capito dal primo momento che l'ho visto.»

    «Se sapevi tutto questo, perché sei andato fino in fondo?» mi domandò.

    «All'inizio avevo dei sospetti...  ma quando l'ho capito con  certezza

    ero innamorato pazzo di te.»

    Lei sussultò come se l'avessi colpita, e io continuai senza rimorsi.

    «Qualcuna  delle  cose  che  abbiamo fatto insieme mi ha autorizzato a

    credere che anche tu provassi qualcosa per me.  Al mio paese quando si

    ama una persona non la si vende al miglior offerente.»

    «Sono una donna poliziotto» scattò «e tu sei un assassino.»

    «Non  ho  mai  ucciso  un  uomo  che  non  avesse tentato per primo di

    uccidermi» ribattei «proprio come tu hai colpito Suleiman Dada.»

    Questo la prese in contropiede.  Vacillò e si guardò attorno  come  se

    fosse in trappola.

    «Sei un ladro» riprese.

    «Sì» ammisi. «Lo ero stato una volta... ma questo molto tempo fa, e da

    allora ho rigato diritto. Con un po' di aiuto ce l'avrei fatta.»

    «Il trono...» riprese lei «stai rubando il trono.»

    «Nossignora» le risposi sorridendo.

    «Cosa c'è nella bara, allora?»

    «Centotrenta chili di sabbia di Turtle Bay. Quando la vedrai, pensa ai

    momenti che abbiamo passato laggiù.»

    «Il trono... dov'è?»

    «Presso il suo legittimo proprietario, il rappresentante del popolo di

    Saint Mary, il presidente Godfrey Biddle.»

    «Ci  hai  rinunciato?»  Lei  mi  fissò  con  un'incredulità  che svanì

    lentamente,  mentre nei suoi occhi cominciava ad albeggiare una  nuova

    emozione. «Perché, Harry, perché?»

    «Come   ripeto,   voglio   rigare   diritto.»  Ci  fissammo  di  nuovo

    intensamente e a un tratto vidi  le  lacrime  inondare  i  suoi  occhi

    azzurro cupo.

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    «E sei venuto qui...  sapendo quello che dovevo fare?» chiese con voce

    strozzata.

    «Volevo che scegliessi» le dissi,  e le  lacrime  rimasero  impigliate

    come  gocce di rugiada fra le sue folte ciglia scure.  Poi,  proseguii

    deciso: «Io uscirò da questa cabina e oltrepasserò quel  cancello.  Se

    nessuno suona il fischietto,  salirò sul primo volo in partenza da qui

    e dopodomani nuoterò oltre la barriera per giocare coi delfini».

    «Verranno a cercarti, Harry» disse lei, ma io scossi la testa.

    «Il presidente Biddle ha appena modificato le leggi sull'estradizione.

    Nessuno potrà toccarmi a Saint Mary. Ho la sua parola.»

    Mi girai e aprii la porta della cabina. «Sarò solo da morire, laggiù a

    Turtle Bay.»

    Le volsi le spalle e camminai  con  passo  lento  e  deciso  verso  il

    cancello  d'imbarco,  proprio mentre annunciavano per la seconda volta

    il mio volo. Furono i metri più lunghi e terribili della mia vita e il

    cuore mi martellava in gola a tempo con i passi. Nessuno m'infastidì e

    io non osai voltarmi indietro.

    Mentre prendevo posto sul Caravelle della Swissair e mi allacciavo  la

    cintura,  mi chiesi quanto tempo ci sarebbe voluto perché si decidesse

    a raggiungermi a Saint  Mary,  e  riflettei  che  avevo  ancora  molte

    notizie da darle.

    Dovevo  annunciarle che avevo un contratto per recuperare il resto del

    trono d'oro da Gunfire Break a beneficio degli abitanti di Saint Mary.

    In cambio il presidente si era impegnato ad acquistarmi  col  ricavato

    una nuova barca d'alto mare, proprio come il "Wave Dancer"... un pegno

    della gratitudine del popolo.

    Avrei potuto garantire a mia moglie il tenore di vita cui ero abituato

    e  poi  naturalmente c'era sempre la cassa d'argenteria d'antiquariato

    seppellita dietro il bungalow a Turtle Bay per la stagione magra.  Non

    mi ero emendato fino a "quel" punto. Non ci sarebbero stati più viaggi

    notturni, però.

    Mentre  il  Caravelle  decollava  e  s'innalzava bruscamente sui laghi

    azzurri e le montagne coperte di boschi,  mi accorsi che non conoscevo

    nemmeno il suo vero nome.

    Quella  sarebbe  stata la prima cosa che le avrei chiesto quando fossi

    andato a prenderla all'aeroporto dell'isola di Saint  Mary,  la  perla

    dell'oceano Indiano.